CALPROTECTINA

Serie: FECALOMA


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Serie in due episodi. Episodio finale.

La sala d’aspetto era un tempio dell’attesa e dell’angoscia, satura dei miasmi del disinfettante e della carta patinata di vecchie riviste mediche.

Sedevo lì come un imputato: ogni suono di passi era una sentenza.

Il gastroenterologo era un uomo basso; il suo volto sembrava la mappa di un passato crudele.

Quegli occhi non guardavano: giudicavano.

«Esponga il problema», disse con voce asciutta.

Raccontai la storia: il blocco, il dolore, la paura che un cancro invisibile mi mangiasse vivo, che la mia pancia fosse una trappola pronta a chiudersi come una tagliola.

Lui mi fissava come se guardasse uno sgabello, con la placidità tipica dei medici.

Mi prescrisse un’ecografia dell’addome. 

«Vediamo se c’è qualcosa». 

Stavo lì, sotto una luce bianca che sembrava bruciare il tempo, mentre il tecnico cercava d’interpretare il mio intestino, come se fosse un enigma da risolvere.

Il suo silenzio fu un supplizio. Pensai a come quel labirinto accartocciato dentro di me potesse essere una colonia di tumori silenziosi, un ammasso di neoplasie che mi divoravano le viscere mentre bevevo caffè e scrivevo poesie.

Poi finalmente l’uomo parlò, e io tornai a respirare: «Non vedo nulla. Nemmeno tracce di feci. È come se il suo intestino fosse vuoto. Piuttosto strano, ma niente di patologico.»

Voleva forse dire che il problema stava lì?

Era come se il mio corpo fosse un teatro d’ombre, con una platea deserta e un attore impazzito.

Poi venne il turno del proctologo. Uomo distinto, con mani ferme e occhi bovini. 

La visita fu quasi surreale: «Lei ha un retto stupendo. Pulito, liscio, senza alcun segno d’infiammazione o danno, a parte qualche emorroide», disse con un sorriso che mi lasciò più a disagio che rassicurato. 

«E la prostata, poi… salda come una roccia, nulla da segnalare. Complimenti: lei è un uomo fortunato.»

Come può? pensai, come può un corpo così impeccabile nascondere in sé il germe della morte? Di un male irrintracciabile, che cresce nell’ombra e consuma la carne da dentro?

Riflettevo su come la vita fosse un universo parallelo, una macchina perfetta ma progettata per lavorare nell’ombra; su come le cellule si moltiplicassero e perissero timidamente; o come il sangue si purificasse a nostra insaputa e il feto si formasse nel silenzio assoluto di nove mensilità; mentre solo la morte risultava spudorata, costringendoci a nasconderla, a celarla in feretri, al riparo dagli occhi dei vivi. Tutto nascosto, invisibile, misterioso.


Il gastroenterologo dice che il mio intestino è vuoto. Il proctologo mi fa i complimenti per la salute del retto e della prostata. Una beffa, dottoressa. E intanto stanotte ho sognato merda. Quintali di merda. Stronzi chilometrici color nocciola che strisciavano come serpenti su dai cessi. Sono in guerra con un corpo che risulta perfetto, mentre io mi sento prigioniero di un male che forse non esiste. La paura è la vera malattia: invisibile, implacabile, paradossalmente più reale delle cose che vediamo e tocchiamo. Mi domando se il dolore, come il piacere, non sia altro che un errore della mente. L’illusione di una realtà insensibile.

***

Era un venerdì pomeriggio di fine inverno. La pioggia cadeva nebulizzata sui vetri del piccolo ambulatorio. 

Io, ritto su quella sedia scomoda, guardavo la dottoressa mentre scorreva i risultati degli esami al computer.

Era una donna ordinaria, con occhi che cercavano di essere gentili ma che, per abitudine, avevano imparato a non scrutare troppo a lungo. Era molto diversa dalla ragazza del pronto soccorso, con quel suo modo di parlarmi quasi meccanico, senza passione né giudizio. Lei, invece, interagiva con me come si farebbe con un paziente che non abbia ancora saputo convivere con le proprie nevrosi.

«Calprotectina perfetta, nessun segno d’infiammazione», disse, «lei è sano come un pesce.»

«Un pesce che non caga da sei mesi.»

Lei alzò un sopracciglio.

«Può succedere. Il corpo ha i suoi tempi. Non bisogna forzare. Continui con marmellata di tamarindo e glicerolo. Se vuole, provi anche con la senna. Segga sul water e si armi di pazienza. Non tutto è controllabile nella vita, sa?»

Quella frase mi fece pensare alle volte che avevo dato per scontati quei processi semplici, naturali, invisibili – come la digestione, la crescita delle unghie, o la rigenerazione della pelle: piccole magie quotidiane che ora mi sembravano il segreto più fragile dell’universo.

Buongiorno, dottoressa. Passo le giornate a interrogarmi su dove siano le mie scorie. Il mio, ormai, è un corpo che si nega a sé stesso, una fogna intasata, un buco nero senza luce. Mi chiedo se tornerò mai come prima, o se sono destinato a vivere così, con questa incolmabile pienezza. Cerco di non mangiare, per non accumulare, ma la fame è il solo stimolo che ancora sento.

E intanto frugo, dottoressa: la mano entra completamente, posso chiuderla a pugno. Le mie viscere sono un deserto, ma sento una galassia espandersi in me. Mai avrei creduto, in tutta la mia esistenza, che sarei finito col cercare il senso della vita proprio là in fondo.


Lei rispose con un banale: “Riposi, non pensi troppo.”

E io restai lì, con quel chiodo fisso: dov’erano finite le mie scorie? Dov’era la prova tangibile del mio consumare?

Perché chi non consuma non vive. Lo sanno anche gli idioti.

Cos’ero, dunque? Uno spettro? Un fantasma di carne, dotato ancora di appetito?

***

Undici anni.

Undici lunghi anni senza evacuare, estromesso da questo mistero impenetrabile che è il mio corpo.

Il cancro, per fortuna, era solo una paura. La paura più grande: quella dell’ignoto che abita ogni cellula.

Ora sono un uomo che ha imparato ad abbracciare il proprio vuoto.

Un uomo votato all’introspezione.

Un vecchio seduto su un water, col “ditino” sempre pronto, armato di santa pazienza.

Ormai posso far entrare una buona parte di me, in me. Certo: con molte acrobazie.

Credo anzi che quel vuoto (il mio vuoto) sia stata la mia sola ragione di vita, in questi anni; la salvezza dal nulla che dilaga là fuori, nel mondo.

A volte rivedo l’immagine di quel serpente che si morde la coda, e penso che anch’io, prima o poi, farò la sua stessa fine: sprofondato in me, fino a formare un anello sempre più stretto.

E poi un punto. E infine il nulla. Sparire.

Per rinascermi dentro.

FINE

Serie: FECALOMA


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Discussioni

        1. Grazie ancora!🙏🏻 Curiosissimo anche io di leggere i tuoi racconti. Molto presto inizierò 🤗

  1. Riprendo dal commento al primo episodio. La sensazione era giusta: mi è venuto in mente lo stile surreale di alcuni dei brani del teatro-canzone di Gaber.
    Mi associo ad altri commenti che definiscono spettacolari le scene che hai descritto e in generale il racconto. E mi soffermo sull’immagine finale di un uomo che tenta di colmare il vuoto con il vuoto stesso. Fino a sparire.

    1. Grazie ancora, Antonio! Gaber era un grande. Ho voluto puntare molto sul paradosso, ma non un paradosso poetico, bensì filosofico, esistenzialista. Mi piacciono molto le elucubrazioni al limite del nevrotico😆

  2. È così denso di immagini e simboli che non saprei da parte iniziare. Parto dunque dalla fine. Anzi, da quel FINE piazzato magistralmente come a dirci, l’avete imparata vero la lezione? Il protagonista sì, ha trovato la sua “strada”, se n’è fatto una ragione. Probabilmente non cagherà mai più e nemmeno gli verrà mai quel cancro tanto temuto, e va bene così. D’altronde, accettiamo cose ben peggiori. Come il vuoto, la paura, l’irrazionale di un corpo che ci appartiene ma sembra andarsene per gli affari suoi senza badare a noi, lasciandoci soli a fare i conti con i nostri pensieri. Una cosa mi ha colpito in particolare: emerge chiara la dissociazione tra corpo e mente che da sempre caratterizza gli esseri umani. È il nostro corpo, siamo noi, eppure ci risulta difficile esplorarlo, capirlo, a volte neppure lo consociamo per intero. Tendiamo a immedesimarci con la mente e i pensieri: noi siamo quelli, mica il nostro intestino… ci scoriamo di essere un tutt’uno, che tanto il copro sa cosa fare, lui lavora al posto nostro, da solo. Ci ricordiamo che esiste solo quando non funziona come dovrebbe. E paradossalmente è così che il protagonista trova via (a differenza della cacca ah ah ) e riesce a passare la barriera mente/corpo, a entrare in se stesso, letteralmente e fisicamente, e diventare un tutt’uno.

    1. Ciao Irene! Grazie mille della lettura! Non saprei aggiungere nulla al tuo commento: è perfetto! Il dualismo che hai evidenziato, l’estraneità da noi stessi (dalla mente, ma anche dal corpo), il nostro essere una terza entità, raramente identificabile. Il vuoto. Grazie ancora per l’attenzione che mi hai dedicato🙏🏻🤗

  3. Se ho capito bene, gli appetiti del protagonista sono desideri irrealizzati che, quindi, non riempiono il suo vuoto esistenziale. Forse un medico potrebbe anche dirgli: “Lei sta aspettando quello che tanto teme per dare un senso alla sua vita.” Bravo, Nicolas, un racconto che fa riflettere su come la solitudine possa ripiegarci su noi stessi fino a farci scomparire.

    1. Ciao Concetta! Grazie mille per la lettura🙏🏻 È un’ottima interpretazione, questa! Spesso scrivo a sentimento, e il senso completo della storia non mi è mai del tutto chiaro. Commenti come il tuo sono quelli che preferisco, perché mi aiutano a capire meglio me stesso🤗

  4. Ora mi spiego i tag. Sviluppo inatteso ma non troppo, considerando la risposta al commento che mi avevi dato ieri. Un racconto che possiamo interpretare in diversi modi, a partire da un narratore assolutamente inaffidabile che ci sta raccontando il punto di vista di una persona malata mentalmente, in cui i dottori visitati potrebbero essere anche psicologi o chissà cosa. Oppure una persona semplicemente ansiosa a cui sta effettivamente capitando quello che viene narrato, una storia surreale in cui ogni legge della fisica viene alterata, ciò che si consuma non viene trasformato ma sparisce. Alla fine qualunque interpretazione diamo (preferisco la seconda) non cambia dal punto di vista del protagonista, lui questo dramma deve affrontarlo in ogni caso e l’immagine del serpente è nitida, esemplificativa, bellissima. Mi è piaciuto molto questo racconto in due puntate, questa riflessione sul vuoto, mi sono piaciuti anche tutti i personaggi. Tranne il proctologo, lui mi sta sulle balle 😀

    1. Grazie Marco! Hai azzeccato perfettamente il mio intento! Adoro il narratore inaffidabile😊 Ho voluto sfumate tante cose, per cercare di fare una storia molto meno cruenta di quanto la copertina possa lasciar intendere. Per quanto riguarda il proctologo, anche quello è un elemento autobiografico😆 Altra esperienza da evitare, quando possibile…

      1. Per come la vedo io, tutti i narratori sono inaffidabili 😀
        Eh, ci avevo quasi pensato che fosse autobiografico anche quello, ti ho visto calcare la mano senza che ci fosse un reale risvolto nella storia ahahahah