
CHIAMALA INVERNO
Si svegliò in fiamme.
Eppure non urlò.
Le lingue aranciate danzavano in vortici attorno a braccia e gambe, persino tra le dita dei piedi, ma senza dolore.
Un rogo assoluto. Silenzioso, però. E inoffensivo.
Restò immobile, gli occhi inchiodati al soffitto.
Il lenzuolo intatto. Sapeva ancora di bucato.
La sveglia sul comodino esibiva le sue cifre elettroniche con la solita, snervante precisione.
S’alzò e stirò le spalle.
Notò una certa rigidità – l’età, pensò.
Poi si diresse in bagno.
La doccia fu la prima vera prova.
Si spogliò meticolosamente, come tutte le mattine.
Posò gli abiti sulla sedia, piegandoli uno a uno.
Il getto d’acqua lo colpì in pieno petto.
Il fuoco tremolò, s’ingobbì, poi riprese vigore, disegnando impercettibili spirali sopra le scapole.
Nemmeno l’acqua gelata poté estinguerlo.
Si rasò con cura.
La lama scivolò sulla pelle, ammassando schiuma da barba sotto le orecchie.
Nessun segno di ustioni, né di fumo.
Solo, faticò non poco a scorgere il proprio viso tra le fiamme.
Ne scostava una con le dita, ed ecco fiorirne subito un’altra.
S’acconciò col piccolo pettine nero, poi si strofinò con l’asciugamano grande, quello grigio, piegato in terza fila.
Il tessuto nemmeno s’intaccò.
Scelse gli indumenti: pantaloni beige, camicia chiara, giacca pesante.
Fu un’operazione fatta di gesti semplici, che racchiudevano la calma dell’abitudine.
Guardandosi vestito, si trovò impeccabile.
A parte il fatto che bruciava.
Scese in cucina.
Preparò il caffè, tostò una fetta di pane, sbirciò l’iPhone in cerca di una notifica.
Nessuna.
Sullo schermo, l’incendio creava un riflesso continuo, quasi un’animazione pulsante.
Quando sedette sulla poltrona vicino alla finestra, non percepì nulla di anomalo.
Nessun odore di cuoio bruciato.
Nessuno sfrigolio.
Il fuoco era con lui, dentro e fuori, eppure lasciava tutto immutato.
In quella pace, rifletté.
Si chiese se fosse contagioso. Se avesse il diritto di uscire di casa.
Meditò su quanto tempo potesse durare un rogo di quel tipo.
Se fosse una condizione temporanea, un disturbo stagionale.
In fondo, non si sentiva affatto diverso.
Certo: sarebbe stato un possibile ostacolo alla sua ricerca di un lavoro.
Chi mai avrebbe assunto una torcia umana?
E di cinquant’anni, per giunta!
Alle dieci decise comunque di uscire.
Infilò le scarpe con non poche difficoltà: davanti agli occhi, le fiamme danzavano abbaglianti, come tendaggi lucenti.
S’aggiustò i polsini, indossò l’impermeabile e strizzò sotto un braccio la cartelletta coi curriculum.
Sul tavolo del soggiorno stava un libro aperto da mesi: Manuale di comunicazione assertiva.
Alcune frasi cerchiate.
Sottolineature nervose.
Stabilisci un contatto visivo. Formula un’osservazione concreta, non giudicante.
Si bloccò di fronte allo specchio ovale dell’ingresso: nella sfera incandescente, scorse uno sguardo deciso e un sorriso plastico.
«Dove mi vedo fra cinque anni? Beh: alla guida di un team solido e vincente. Mi piacerebbe consolidare le mie skills nella gestione di progetti complessi. Sono motivato a crescere all’interno dell’azienda!»
Fuori, la portinaia lo salutò con un muggito sommesso. Non staccò neppure gli occhi dal cumulo di foglie che stava spazzando.
Un uomo col cane lo sfiorò: il guinzaglio gli grattò la coscia.
Niente “scusa”, nessun cenno.
Tre bambini giocavano sul marciapiede: gli passarono accanto senza reagire.
Ardeva da solo, all’insaputa di tutti.
Magari anche gli altri bruciavano, a modo loro, e forse era l’indifferenza a restare, quando tutto ciò che s’era stati veniva visto troppo a lungo.
Camminò ancora. E ancora.
Alla fermata del bus, una donna matura – alta, capelli scompigliati, un cappotto semiaperto sull’abito corto, gambe tornite infilate in lunghi stivali di pelle – stava appuntando qualcosa a penna sul palmo della mano.
Parole brevi, dure. Forse un numero, forse un promemoria.
Il telefono – fracassato – sporgeva da un taschino della borsetta.
«Quando questi aggeggi si rompono, sono guai…» osservò lui con voce grossa, indicando il cellulare.
Lei smise di scrivere e lo squadrò.
Serrò le dita, infilò la penna nel cappotto e attraversò la strada, andando a piazzarsi sotto la pensilina opposta.
L’uomo restò immobile. Di riflesso, come se anch’egli percepisse il solco di uno stilo nella carne, si grattò il palmo. Poi proseguì.
La città era sempre uguale: un fremere di gesti carichi di piccole urgenze.
Solo lui sembrava muoversi a rallentatore.
Entrò in un bar e ordinò un caffè al banco, tanto per scacciare il freddo.
La cameriera pareva molto giovane.
Dalla scollatura della camicetta spuntava un tatuaggio fine, una breve scala musicale, poche note appese alle righe curve di un pentagramma avvoltolato sulla carne.
Proprio accanto, dondolava una catenina sottile: sulla medaglietta era inciso il nome Naïma.
«Curioso, quel tatuaggio. Sembra una qualche melodia…» esordì l’uomo, mentre la ragazza gli porgeva la tazzina.
D’impulso, lei si coprì il collo.
«Ti piace il jazz… Naïma?» proseguì lui, scandendo il nome come se fosse un segreto tra loro.
La barista accennò un sorriso posticcio.
«Sono solo note… e non mi chiamo Naïma,» precisò, voltandosi subito verso un ragazzo che lo scrutava torvo.
«Dì un po’, zio: perché non ci provi con quelle della tua età?»
L’uomo annuì, senza pensare che quell’espressione “assertiva” sarebbe potuta apparire troppo strafottente.
Soprattutto a un fidanzato ubriaco.
L’altro, allora, gli mollò uno schiaffo ben piazzato, scaraventandolo giù dallo sgabello.
Quando si rialzò, sentì un solletico solcargli la faccia.
La cameriera lo fissava stravolta, le mani sulla bocca.
Il giovane lo reggeva per un braccio, costernato, domandandogli se stesse bene.
Lui lanciò sul bancone gli ultimi spiccioli e se ne andò, spintonando i curiosi.
La città sembrava più frenetica di prima.
Ancora pochi passi e avrebbe costeggiato il fiume: non mancava molto.
Un taglio sulla tempia buttava un filo di sangue, mentre il naso gli doleva.
Forse era rotto.
Doveva aver sbattuto contro a qualcosa, nella caduta: quel pensiero lo fece marciare più veloce.
Poi, però, s’arrestò di fronte alla vetrina d’un negozio, ipnotizzato dal rutilare del suo riflesso: l’irruenza ignea ne aveva ormai completamente nascosto i tratti, e il rogo s’ergeva alto, fin quasi a lambire le prime finestre dei palazzi.
Uno straccione, inginocchiato ai suoi piedi, chiedeva l’elemosina.
L’uomo gli gettò davanti il portafogli e la cartella coi curriculum.
Il poveretto lo guardò allibito.
«Lì c’è tutta la mia vita,» spiegò, «prova tu a cavarne qualcosa.»
Poi lasciò cadere le chiavi di casa.
«Tripla mandata e tirare, altrimenti non s’apre…» lo informò, allontanandosi.
Raggiunto il molo, lo sguardo gli scivolò sulla vecchia lancia ereditata dal padre: inconfondibile, con quella sua sponda scheggiata, gli scalmani allentati, i remi ricurvi.
Essere ma non esserci: questo è il problema, recitò ad alta voce, incuriosendo un passante.
«Ah… ora mi vedete?!» Rise lui.
Chissà come avrebbe risuonato il brulichio del mondo dal fondo del fiume.
Magari laggiù qualcuno si sarebbe preso la briga di cercarlo.
D’altra parte, era sempre stato così: l’assenza era il suo unico modo di farsi sentire.
Sciolse la cima e si calò nello scafo.
Il legno crepitò, ma non per le fiamme.
Spinse via la riva con un piede.
La barca si staccò piano, passando tra due anatre intirizzite dal freddo del tardo autunno.
Una di loro mandò un grido stridulo, quasi uno squittio.
Mentre s’allontanava, con la corrente che ondeggiava sotto di lui, l’uomo incendiato si consolò pensando alla faccia di chi l’avrebbe ripescato il giorno dopo, tinto d’un magnifico blu spento.
Per una volta avrebbero smesso d’ignorarlo.
Rabbrividì, rimboccandosi il cappotto, illuso di poter contrastare quella brezza tagliente che gli mordeva le ossa.
Un nuovo squittio lo richiamò.
Stavolta il suono veniva dall’imbarcazione.
Topi?
Il rumore si ripeté, ma più simile a un miagolio.
Una mucchio di stracci sotto a una delle panche: eccone l’origine.
Con cautela, l’uomo sfilò uno a uno i brandelli di stoffa.
Forse un gatto, pensò. Magari è ferito.
Tuttavia, stipato nella minuscola tana di cenci, trovò a fissarlo un tondo faccino rosa e glabro.
«Merda.»
Il freddo risvegliò subito l’esserino, che in un attimo iniziò a strillare e a scalciare come un ossesso.
Spaventato, l’uomo lo strinse a sé, e fu come se in quel momento percepisse tutto il calore del fuoco che lo cingeva.
Lo sentiva aggrapparsi a quella vita, passare in lei e scalzare il gelo che le albergava nella carne.
L’accostò al petto come se dovesse allattarla, e ne contemplò gli occhi: grigi, perplessi, vivi.
Non aveva mai sentito nulla di più fragile e più impetuoso.
Qualcosa che non trovava posto nei manuali di teoria.
D’istino, prese a cullarla, modulando una nenia stramba e zoppicante.
L’acqua scura e immobile li circondava, mentre il profilo della città svaniva in una bruma glaciale.
Lo sguardo prese a rimbalzare dal fiume alla bambolina e dalla bambolina al fiume.
Un dettaglio, nella faccia ebete e ammaccata dell’uomo, suscitò in lei un moto d’ilarità. Un risolino stridulo nella boccuccia sdentata.
E l’ilarità si fece risata, irrefrenabile risata, che ne scosse le membra, agitandole tutte.
Le manine si aprivano e chiudevano, rivolte al suo viso. Voleva toccarlo.
Strizzare quel grosso naso rotto e infuocato.
La lasciò fare.
«Naïma,» disse infine, con voce rotta.
«È così che ti chiamerai».
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Finalmente riesco a commentare un tuo racconto. Finora non l’ho fatto perché ho sempre l’impressione che le mie parole non renderebbero giustizia a ciò che scrivi. Ma questa volta non posso trattenermi: l’immagine dell’uomo che arde è potentissima, e il contrasto con la normalità dei gesti quotidiani rende ancora più forte la metafora della solitudine e del dolore invisibile. Davvero una scrittura che lascia il segno.
Ciao Lino! Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento! Mi fa piacere che questa storia, nella sua semplicità, sia riuscita a toccare corde profonde😊
Questo capitolo ha subito rievocato in me una serie di dualismi, tra i quali uno che ho tatuato sulla pelle: Fuego Y Agua. Curioso, come alterni le percezioni del protagonista allo scorrere della realtà, nonché il tempo verbale che hai scelto per la narrazione! Fantastico, mi ha catturato piacevolmente
Ciao Loris! Grazie mille per la lettura!🙏🏻 Ho voluto raccontare una specie di favola moderna, un po’ nello stile del Moresco più minimale🤗
Bellissimo. Un fuoco distruttivo che diventa ardore di vita alla vista di un esserino solo e rifiutato, così come lo è il protagonista: un progetto di morte che, in un istante, viene annientato da un bisogno di vita altrui. Bravo, Nicholas🙂
Ciao Concetta! Grazie mille della lettura e del bel commento!🙏🏻🤗