
COLUBER MATER
C’era una volta una donna molto malata: nostra madre.
La malattia si era impossessata di lei poco alla volta, precipitandola lentamente nella più agghiacciante delle follie. Quando le caddero i capelli e tutti i denti posteriori, li lasciò lì, sul bordo della vasca, accanto allo shampoo e alle creme per il corpo. Tommy allora aveva appena quattro anni e scoprii solo più tardi la sua malsana perizia nel custodire quei pezzi anatomici in una scatola per scarpe, al sicuro, così da non andar perduti per sempre: forse un giorno avremmo potuto rimetterla insieme, ricomporre la sua bellezza come con una statua di plastilina…
L’odore nella stanza è qualcosa di rivoltante, mostruoso e viscerale: forse la sua repellenza è data proprio da quella carnalità corrotta eppure tanto vicina al puzzo di procreazione. A Clara pare di entrare in un ambiente marino, appestato dal miasma stantio di mucillagine e pesce marcio.
La ragazza avanza piano, stringendo fra le mani il lungo coltellaccio rubato dalla cucina. Il buio è quasi totale lì dentro: l’unica pista da seguire sono le alterne zaffate di marcio che le pungono le narici, ricordandole l’odore indelebile sprigionato da certi camion adibiti al trasporto di carogne animali.
Appena di fronte, ecco spalancarsi, come sotto a un sipario oscuro, lo spacco verticale alto quasi un metro, simile alle carcasse disossate dei manzi appesi nelle celle dei mattatoi.
…La casa intanto crollava intorno a noi, mentre facevo del mio meglio per mantenere intatte le apparenze: i soffitti erano mangiati dall’umidità e le scale inferiori dal marciume secco della terra; in inverno, invece, i radiatori perdevano un liquido rugginoso e rosso come sangue di maiale sgozzato.
Ma quella, in fondo, era pur sempre la nostra casa. No?
Nel frattempo, mi toccò anche fare da madre a mio fratello Tommy: cambiargli i cerotti sbilenchi sulle ginocchia ammaccate, fargli trovare pasti riscaldati al microonde, badare alla sua frenesia. Avevo quattordici anni.
Per distrarlo dalle terrificanti urla notturne di nostra madre gli raccontavo storie melense e inutili, favole di unicorni e di bambini di pan di zenzero, pur sapendo benissimo che più tardi si sarebbe infilato nel mio letto, troppo spaventato per dormire da solo. Gli insegnai anche a ballare a piedi nudi sul tappeto, con la musica in TV a tutto volume, così da estenuarlo il più possibile…
Clara strizza le palpebre, giusto per poter adattare gli occhi all’oscurità e vedere meglio i lunghi filamenti liquidi riversarsi sul pavimento, stillando in linee scintillanti e dense, bave grumose di leucorrea appiccicata ai lati dell’apertura.
La faglia: una ferita alta quanto un bambino. Non più un’orchidea di carne, come quella che la ragazza riconosce in sé stessa, nella propria intimità, e in quella di tutte le altre donne.
Sotto alla montagna di polpa che straborda dal lenzuolo, Clara nota il bacino deflagrato della madre, le sue scheletriche gambe divaricate alla base del cunicolo, in un orripilante tutt’uno.
…Quando Tommy iniziò la scuola, due anni dopo, toccò a me preparargli la colazione e lo zainetto, ogni maledetta mattina.
Nel frattempo io mi davo da fare per trovare qualche lavoretto in nero, ma a sedici anni ero troppo giovane. Fortunatamente avevamo ancora qualcosa da parte: il risarcimento della polizza sulla vita di mio padre, morto tre anni prima.
A volte nostra madre si riprendeva e si trascinava di nascosto fuori dalla sua camera da letto, aggirandosi come un automa per la casa. Quelli erano i momenti peggiori: era sempre penoso trovarsela davanti tutta agghindata, con la testa fasciata da una parrucca color platino, le labbra avvizzite e impiastricciate di rossetto come una vecchia battona strizzata nel suo abito di paillette e i tacchi a spillo su cui a malapena si reggeva.
Sembrava quasi che la sua mente volesse riportare a galla quella bellezza estinta, scontrandosi però contro all’ostacolo più insormontabile: la decadenza del corpo.
Una decadenza innaturale, certo, dettata proprio da una mente contraddittoria e frammentata.
La mamma ci guardava con rancore: odiava il nostro esistere, perché esistendo, testimoniavamo l’esaurirsi della sua funzione biologica, alimentando l’indecifrabile senso d’incompletezza che la tormentava, come un ospite che si struggesse per la perdita dei propri parassiti…
«Clara?» Sussurra una voce al di là della crepa.
«Amore: non avere paura… sono sempre io… la tua mamma», una piccola mano si alza da dietro il sipario come a supplicarla di accostarsi al letto.
La ragazza solleva il coltello, portandolo di fronte al viso.
Cammina obliqua, tanto da poter intravvedere ora il volto stravolto della madre, ancora coronato dalla ridicola parrucca.
Fra il torace e il suo sesso ipertrofico si leva il grande globo di carne: una sfera abnorme e glabra che gonfia il lenzuolo, lasciando intravedere solo alcune escrescenze, dieci piccole sporgenze – cinque da una parte e cinque dall’altra.
Clara afferra il drappo e lo sposta con decisione, svelando la pelle nuda del grembo di sua madre: impresse nella carne del ventre, come un bassorilievo anatomico, stanno le dieci dita di Tommy, e il suo volto urlante immobilizzato nella guaina della pelle, come un sepolto vivo pietrificato nell’atto di spingere via il coperchio del suo feretro.
…L’unico specialista che avevamo consultato, agli esordi della malattia, si era limitato a liquidare il tutto con due semplici paroline: “disturbo psicosomatico”.
Bastavano questi termini a spiegare la lunga serie di desquamazioni, rigetti e sanguinamenti che tormentavano nostra madre.
E ogni volta lei ci fissava torva da in cima le scale e ringhiava queste uniche minacce: «Come vi ho fatto… vi distruggo…»
«Clara, amore: non è successo niente… smettila di urlare.
Tuo fratello ora sta bene: è di nuovo felice come una volta…»
La ragazza indietreggia, scuotendo il capo in un gesto isterico e interminabile.
«Ascolta la tua mamma: ora possiamo riavvolgere il tempo… mi hai capita, Clara? So come tornare indietro… come ritrovare i momenti felici… non vorresti ricominciare da capo?»
La mano della donna si protende ancor più verso la figlia, la carne della sua carne: un corpo-mondo che reclama i suoi due abitanti, come una macchina del tempo capace di inghiottire gli errori e di recuperare gli anni perduti.
«Getta il coltello… gettalo, amore, e sprofonda dentro di me… guarda com’è felice ora tuo fratello…»
La giovane sente un improvviso calore cingerle il piede: una pozzanghera di liquido amniotico le inzuppa la calza, mentre la grande ferita della donna si dilata ancor di più, come la bocca smisurata di un serpente che voglia risucchiarla nell’aberrante esperienza di una nascita inversa.
Clara allora strizza forte il coltello e prega Dio che qualcuno, alla polizia, creda ancora alla favola di Cappuccetto Rosso.
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L’effetto catartico capace di raccontare la parte più intima dell’animo umano….
Un horror vero, intenso, che fa entrare in una spirale di terrore e angoscia e sonda il nostro limite…..
Così intenso nella rappresentazione della malattia mentale…..gioca con le parole, ti fa dubitare del tuo stesso senso della realtà, l’orrore si radica nei pensieri e nelle emozioni…..inquieta, fa paura, atterisce…..ma forse, inaspettatamente, sa anche rivelarsi così profondo da apparire una vera e propria allegoria della condizione umana…..una favola che suggerisce una sconfortante “morale”……
Un capolavoro Nicholas.
Grazie mille Migeè! È uno dei commenti più belli che mi sia mai capitato di leggere🙏🏻😊
n.d.p., bravissimo. C’è tutto il livello alto di uno studio delle parole, di saper tenere il rigo dall’inizio alla fine. Preciso e calibrato, periodo dopo periodo, disturbante, ansiogeno, anche realistico: alcune madri non hanno niente di diverso da un serpente e molti figli/e vivono questo orrore da te descritto, tutti i giorni. Si mette insieme un racconto così non per casualità, ma dopo anni di scrittura. Io me l’ero perso, sono contenta di averlo trovato.
Grazie mille, Bettina, per aver letto il mio racconto e per il tuo bellissimo commento! Sono contento e orgoglioso di sapere che questa piccola storia è riuscita a intrigarti e a piacerti 🙂
Mi spingo a dire che finora questo è uno dei tuoi racconti più belli che ho letto: a partire dalla fusione fra presente e passato, resa efficacemente dall’impiego di quel corsivo per il secondo. Il tema poi lo trovo originale ed affascinante, e lo trovo risaltare in tutto il suo valore nella frase che ho evidenziato nell’altro commento. Il finale è raccapricciante quanto riuscito, con quella sottile ironia dell’ultima riga a fare da ciliegina sulla torta. Bravo davvero, se continuerai a scrivere secondo questa qualità, migliorando librick dopo librick, ti seguirò molto volentieri! Un saluto! 😀
Ciao Gabriele! Grazie, come sempre, per aver letto e commentato il mio racconto. Sì, ho notato che questo racconto è piaciuto particolarmente. Devo aver raggiunto un buon equilibrio di elementi, chissà. Grazie ancora per il bel commento. Un saluto!
“odiava il nostro esistere, perché esistendo, testimoniavamo l’esaurirsi della sua funzione biologica, alimentando l’indecifrabile senso d’incompletezza che la tormentava, come un ospite che si struggesse per la perdita dei propri parassiti…”
Questo passaggio mi è piaciuto
Secondo brano che mi accingo a commentare, sul quale non posso che congratularmi per la rara perizia dimostrata nello scrivere.
E se è vero che la forma incanta, qui c’è un’invenzione di tutto rispetto, intima, profonda.
Uno stile personale che, non dubito, si potrà riconoscere in ogni scritto di questo promettente autore come un marchio impresso a fuoco.
Grazie mille per aver letto il mio racconto e per questo bellissimo commento.
Visto, in realtà. Ed è vero, in effetti e non ci avevo pensato. Ti dico però che resto dell’idea che Eraserhead ci azzecca meglio, per me. Nel senso che il tuo racconto mi scatena un certo senso di panico misto a disgusto ed esasperazione, esattamente come il capolavoro di Linch. Io ne ho una copia su VHS. Mi sa che me lo vado a riguardare.
Meglio così allora: Eraserhead è un film bellissimo, e l’accostamento è certamente lusinghiero. Se lo riguarderai non posso che augurarti una buona visione. E grazie ancora 🙂
Il tuo racconto mi ha presa tantissimo, dall’inizio alla fine. Amo questo genere e ieri sera leggendolo, mi giravo per vedere chi fosse alle mie spalle in agguato. Bello! Mi hai dato i brividi con l’immagine penosa, disgustosa, implorante, commovente di questa madre. Un concetto direi inedito di “maternità”, da non sottovalutare nel suo essere morbosa e attaccaticcia. Un po’ Kafka, molto Cronenberg. Penserei anche al Linch di Eraserhead (il migliore, da riscoprire se sei pronto a farti spappolare il cervello per cercare di capirlo!). Ottima la scrittura che non ti molla mai, geniali i cambi di punti di vista. Fino alla fine non sappiamo, e forse nemmeno dopo. Da applauso.
Grazie mille! Ero curioso di ricevere un parere femminile, data la materia stessa della storia (e le due protagoniste). Sono contento che il racconto abbia colto nel segno! Per quanto riguarda Eraserhead, non avevo ragionato sui possibili collegamenti, ma in effetti qualche particolare potrebbe ricordarlo.
Ora che mi ci fai pensare, vedo una più forte connessione con un’altra opera di Lynch – uno dei suoi primi cortometraggi – dal titolo “The Grandmother”. Se non lo hai visto te lo consiglio 🙂
Riesci a cimentarti in più generi mantenendo inalterato il tuo stile. I tuoi racconti hanno personalità, non è da tutti. E’ vero pure – come tu stesso ci spieghi – che a tratti emerge la fatica della sintesi e si ha l’impressione che questo racconto sarebbe potuto riuscire ancora meglio con più spazio a disposizione.
La figura della madre è quasi disturbante e per questo colpisce nel segno.
Coluber mater: ci ricordi che anche la scelta del titolo ha la sua importanza, bravo.
Grazie mille del bellissimo commento 🙂
Sì, ho una fissazione “magrittiana” per i titoli: a volte impiego più tempo a trovare quelli che a scrivere la storia. Su questo racconto nutrivo parecchie riserve (proprio perché qui, specialmente, necessitavo di maggiore spazio) e ho preferito usare una doppia narrazione che avrei tanto voluto far convergere.
Sono contento che comunque il messaggio sia arrivato forte e chiaro.
Complimenti per il racconto.. la figura della madre ispira ribrezzo, ma anche un po’ di pietà, direi..
Grazie mille per aver letto il mio racconto. Sì: la figura della madre vuole essere patetica e mostruosa allo stesso tempo. Forse è proprio questo sentimento così umano a renderla ancora più raccapricciante, esattamente come illustrato dalla teoria della “zona perturbante”.
Delirante, onirico, mostruoso… un po’ Wes Craven un po’ David Cronemberg. Tutto in un librick di meno di 1.500 parole. A mio avviso, un ottimo lavoro!
Grazie mille per aver letto il racconto e per il bellissimo commento. In effetti ho faticato parecchio a rendere l’idea con così poche parole a disposizione (è una mia personale sfida per allenare la capacità di sintesi, dato che in realtà sono parecchio prolisso). Nella foga dello scrivere – noto ora – ho lasciato un errorino di battitura e una ripetizione: me ne scuso. Grazie mille ancora! 🙂