Donare anima 

Le narici sono impregnate dell’odore di colla spessa e lattiginosa che sulle mani si distende sul legno ruvido, le venature si flettono fra le dite, le impronte digitali dei polpastrelli contro quelle scavate tra i solchi della resina ormai scomparsa.

I mattoni sono carichi di polvere grezza che sembra cadere appena cambio ritmo del respiro mentre fuori, nelle vetrate piccole e strette, il mare di aprile dedica tramonti viola in attesa di fiori che dello stesso colore possano sbocciare con la primavera.

Quello che invece ho in mano io è un fiore di carta sottile e stampata, lo immergo di colla come fosse il miele bianco di un’ape solitaria che si adagia sull’anta dell’armadio che sto restaurando, poco lontano, il forno con le ceramiche in cottura sfida i tramonti del cielo con i giochi di fuoco del sole calante, mentre i piedi negli zoccoli spessi trovano pace tra gli spazi dello sgabello alto.

Il grembiule nero e sporco mi strizza la vita intanto che le calle sul legno di noce disegnano un trionfo di purezza che dal bordo più alto arrivano fino all’imbocco della serratura, io continuo stendere la colla, flettendo la carta il più possibile, tra la determinazione di eliminare le bolle d’aria e la delicatezza di non rompere l’intero disegno mentre Minù, bianca e rotonda si struscia sui miei piedi.

Non è il lavoro che mi ero immaginata quando sarei diventata grande e ora che grande lo sono davvero, mi torna in mente mio marito, lui mi diceva che nelle mie mani c’era tutto il mio cuore, dovevo solo imparare ad usarlo, come un giorno avrei imparato ad amare lui.

Ad amare lui ci misi pochi mesi, ma una volta sposati mi sembrava che le mie mani non sapessero reggere in mano nemmeno una vaso, figurarci a farne uno o ridare vita ad un mobile di legno, io i mobili solitamente andavo a comprarli già fatti, ma adesso, con mio figlio a dormire sul divanetto lì vicino, mi chiedo come abbia potuto passare così tanto tempo lontana dalla mie mani e da quelle che esse possono creare, adesso le calle incontrano il glicine e la colla nel seccarsi si appiattisce e i fiori diventano come dipinti sotto la radice del legno, un tatuaggio in rilievo che sa di ciliegio e fiori e primavera, quella che fuori dal mio studio tutti stanno aspettando per davvero.

-Mamma?

Edoardo si stiracchia gli occhi con le mani piccole e sottili.

-Sì, amore?

-Stai ancora lavorando? Non andiamo al parco?

Io guardo l’orologio sulla parete irregolare, in continua lotta tra ciò che una donna sola può fare e ciò che negli occhi tristi di suo figlio deve destinare ad altri momenti.

-Non ora, amore. Devo finire questo mobile.

-Ma io mi annoio

Ha gli occhi verdi del suo papà, stretti e furbi che sanno subito chiederti quello che vogliono.

Quando conobbi Eugenio l’unica cosa che sapevo dipingere erano le unghie, a casa avevo quelle boccette piccole che dal rosso vivo andavano fino al marrone scuro e le cambiavo con le stagioni, di mese in mese le unghie si scurivano e lui rideva di quel ciclo che pareva seguire i colori e le foglie, mi diceva che un giorno mi avrebbe dipinto con quelle stesse boccette di smalto e allora anche io ridevo, era un’artista squattrinato ed io una ragazza che studiava per fare l’estetista solo perché dalla vita non sapeva che altro fare.

-Perché non prendi i pennelli e una tela e colora un po’.

-Come faceva papà?

-Come faceva lui.

Edoardo è arrivato con lo studio avviato e del tutto inaspettato, avevamo venduto una grossa anfora di creta ad un architetto russo e avevamo bevuto, due bottiglie di Chianti in poche ore e poi subito a far l’amore, lì sul pavimento imperfetto del laboratorio, come fossimo ancora due ragazzini e nostro figlio che con noi pieni di creta e pittura, stava già disegnandoci addosso un nuovo destino.

-Mamma, anche questo l’ha fatto papà?

Guardo Edoardo con in mano una bacinella storta e irregolare.

-No, quella l’ho fatto io. La mia prima volta al tornio.

-Posso metterci i pennelli?

-Sì amore, fai pure.

Quella stupida bacinella fu l’inizio del mio lavoro.

Eugenio me l’aveva detto spesso, provaci. Ti farà male, ma ti farà anche bene.

Accade una sera fredda di febbraio, di quelle stupide, dove tira sempre vento e non si ha idea di quanto tempo occorra affinché un sogno prenda forma, così io una forma provavo a darla a quel pezzo di creta davanti a me, Eugenio era a far la spesa, ero sola, sola con le mani che andavano in direzione opposta alla mia testa e con una voglia nel cuore tutta nuova, diversa, voglia di capire cosa volesse dire essere me stessa.

Il pezzo di creta centrato nel tornio, la scodella dell’acqua riempita a metà, sospesa fra le mie mosse e poi il pedale leggero a girare il tornio e le mani, umide quanto bastano per scivolare e modellare, avevo i capelli in disordine e sudati, gli occhi impiastrati di ciglia e sonno, tesi a seguire le curve morbide che dopo varie cottura sarebbero state fragili come biscotti.

Alzavo, spingevo e poi il ritmo del vortice era troppo forte, le forme impazzivano, nuova creta e ricominciavo, più forte e precisa, più salda nelle braccia con i muscoli tesi e i polsi pronti a flettersi.

-Vuoi fare Ghost?

Edoardo mi guarda e sorride, nelle mani due grosse borse bianche piene di cibo cinese e nemmeno l’ombra della spesa che avevamo detto.

-Magari, vuol dire che sarei bella e brava.

-Bella lo sei già, brava manca poco.

-La spesa?

-Cibo pronto e veloce, ho un nuovo lavoro da iniziare. Mi aiuti?

Annuisco addentando un involtino primavera.

-Un comò anni’50 tutto da scartavetrare, ti conviene mangiare un bel po’.

Lui in quelle sere sorrideva felice, aveva dalla sua l’esperienza di poter far combaciare la sua professione con la propria passione e vedeva in me l’unione di qualcosa che poteva avere una dimensione d‘arte maggiore, proprio io che invece mi sentivo senza arte né parte.

Guardo Edoardo, le mani pieni di colori ma lo sguardo spento.

-Edo, vieni qui.

Lui cammina ciondolante verso di me.

-Vuoi vedere che andiamo al parco anche senza uscire?

– E come?

Gli prendo le mani e le affondo nella colla, i pezzi di carta di foglie e fiori si diramano sull’anta dell’armadio come fossimo un giardiniere e un falegname a guardare lo stesso giardino fiorito.

Edoardo pianta nel legno piantine che io, dal gesto di poche dita, faccio crescere nell’arco di un attimo che nella realtà della terra sarebbe un anno.

Mio marito è morto da qualche mese e ora quel passatempo di ceramica e legno che inizialmente poteva essere per me il suo lavoro, adesso è per me l’unica fonte di vita che ho e l’unico collegamento che mi resta con le sue mani, con i suoi movimenti che cerco di ripetere in ogni gesto dentro a questo studio.

Me lo disse proprio lui, prima di partorire, qual era il segreto per essere bravi nell’artigianato; donare anima.

Allora non riuscivo a capire, ma adesso quella scena nella mia mente è comprensibile solo vedendo Edoardo con le mani nella colla.

-Cosa intendi per donare anima?

-Gli oggetti nascono senza, ma quelli che creiamo noi possono averla tramite ciò che noi mettiamo in essi.

Continuavo a guardarlo e a non capire, mentre adesso guardo il prato di fiori sull’armadio davanti a me ed Edoardo, qualcosa è nato dalle nostre mani e quel qualcosa che esposto avrà un prezzo preciso, ora diventa il dono di un’anima che partendo da mio marito ha attraversato me per arrivare a mio figlio, nelle mani c’è il nostro essere artigiani e non è importante se diventa professione o resta passione, ho capito che tutti noi necessitiamo di creare qualcosa di nostro per poter tramandare il concetto della vita, che sia in un marito, in un figlio o persino come adesso, in un semplice oggetto. 

Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. “Accade una sera fredda di febbraio, di quelle stupide, dove tira sempre vento e non si ha idea di quanto tempo occorra affinché un sogno prenda forma”
    Grande impatto emotivo, sul filo dell’onirico

  2. Devo ammettere che sulle prime ho avuto qualche difficoltà a seguire il racconto poi però come un sapiente pittore, sei riuscita a dipingere con delicate pennellate tutto il quadro ed il risultato finale è stato bello, intrigante e pieno di immagini che accompagnavano il ritmo narrativo della storia.
    Vedevo distintamente quelle mani, sentivo i profumi e percepivo la malinconia dei ricordi. Si capisce subito che la tua è una penna che dosa le parole con intelligenza e premura ed il risultato è stato coinvolgente.
    Grazie della bella storia. Alla prossima.

    1. @raffases all’inizio il racconto è volutamente un pò caotico, volevo si sentissero le percezioni del lavoro in creazione, ti ringrazio per poi dipingere questi complimenti in modo così bello, riuscire ad averti fatto sentire anche i profumi è per me una soddisfazione bellissima!
      Grazie di avermi letta 😀
      Alla prossima!

  3. È la prima volta che ti leggo. Mi è piaciuto moltissimo questo racconto. È poetico , attento ai piccoli particolari , anche raffinato. Mi piace la tua scrittura scivola come mani su creta e riesci a modellare il racconto a dare una forma un identità alla personalità dei due protagonisti , passato presente e futuro si intrecciano donando freschezza al racconto. Un anima in tutte le sue venature come il legno

    1. @sally88 che bella l’emozione di esser letti per la prima volta 😀
      Ti ringrazio davvero molto per i tuoi complimenti, è una gioia sapere i poter essere arrivata in questo modo.
      I tempi si intrecciano volutamente, una storia agrodolce che vuole dare una breccia di speranza.
      Grazie davvero per avermi letta 😀

  4. la storia raccontata non è male. Forse un po’ troppe descrizioni per i miei gusti, ma il ritmo rallentato e calmo della narrazione gli dà un tocco in più. Nonostante qualche sbavatura, sono riuscito a entrare nella psicologia di una donna (credo sui cinquant’anni) che si trova sola con un figlio da crescere, indipendentemente dalla creta e dagli oggetti. Sono curioso di leggere altri racconti.

    1. @michelecatinari le descrizioni solitamente sono il mio punto focale, mi piace molto descrivere, anche se qui per questione di brevità devo imparare a gestirle bene, ti ringrazio per avermi letta e sono contenta se ti ho in qualche modo spinto ad entrare in una psicologia femminile, io l’avevo immaginata più giovane, circa quarantanni, essendo vedova presto, ma anche la tua età ci sta perfettamente, infondo voleva essere sopratutto una parabola sulla perdita. Qui su Edizioni Open ho scritto molto e presto tornerò a scrivere di più, ti aspetto 😀

  5. Che bello davvero…mi son chiesta dal primo rigo se c’era qualcosa di te in questa storia. Sembra proprio di sì. Negli ultimi righi ho condiviso quello che dici. Tutti coloro che creanolo desiderano…

    1. @costanzacerrotta che bello sapere di condividere queste sensazioni, di mio personale c’è il lato soprattutto professionale, in quanto con le mani nei lavori mi destreggio molto, per il resto non sono ancora madre né ho subito un lutto tale, ma ho provato a prendere esperienze affini della mia esperienza per creare questa storia, che seppur triste, vuole essere tenera. Grazie per avermi letta!

  6. Molto bello Marta, davvero. Il modo lieve in cui porti nella storia un vissuto di sofferenza, che si trasforma in un passaggio di vita e amore attraverso le mani. Bella l’evocazione dei ricordi, l’attenzione per gli oggetti e i gesti. A volte la leggerezza – riportare un sentimento, un rimpianto, una nostalgia alla levità della bellezza, separandolo dalle sue parti più oscure e dolorose – passa per la materia più che per la mente e tu con questo racconto me lo hai ricordato. Grazie.

    1. Cara @isabella che bello leggerti nuovamente fra i commenti!
      Hai colto a pieno, volevo essere un racconto comunque leggero, nonostante l’entità della situazione che vive la protagonista.
      Qui il ruolo del cerare qualcosa con le proprie mani diventa trasmissione di sentito e ricordo e anche di tradizione tramandata, di insegnamento, il passaggio che ognuno di noi può dare ad un altro, anche a chi, apparentemente come la protagonista, sembra non avere la propria strada così certa e definita all’inizio della sua vita. Ti ringrazio, è sempre bello essere letta da te.

  7. Una prosa poetica e immagini vivide, cariche di sentimento. Una narrazione pacata e nostalgica, e al tempo stesso forte, di quell’energia di cui sono permeati i legami affettivi. Molto bello il finale, quasi metaforico, che elabora sull’atto della creazione in senso lato, anche come creatività, mettendo in luce come l’immagine, l’anima del creatore, possa riflettersi in quanto si è creato, e possa sviluppare un legame invisibile ed eterno tra la creatura e il creatore. La tua è una scrittura sensoriale, che trasmette emozioni in ogni singolo passaggio.

    1. Caro @massimotivoli visto la stima che nutro per te, è sempre bello leggere i tuoi commenti e le tue micro analisi.
      Il finale voleva appunta essere una metafora riassuntiva dei sentimenti agrodolci che intercorrono nella trama… sentirmi dire scrittura sensoriale è decisamente emozionante, ti ringrazio davvero, perchè da sempre, nella mia scrittura, il lato più importante è riuscire a rappresentare e far arrivare più umanità possibile, in ogni sua sfumatura. Grazie davvero per leggermi!

  8. Belle le descrizioni.
    Le adoro, mi ci perdo dentro e le rileggo per rifinire quell’immagine nitida di cui poi sono ammaliato.

  9. È un racconto molto denso. La scena di breve durata e unica ambientazione con i “buchi neri nel passato” più che veri e propri flashback mi piace molto. Non so se è voluto ma c’è una forre concentrazione di parole del campo semantico dell’ irregolarità, che mette in risalto il tema della precarietà e mancanza di equilibrio che caratterizzano il post-perdita. C’è una piccola svista credo: ad un certo punto leggo “Edoardo era a fare la spesa”. Credo che fosse il marito non il figlio (Edoardo) a fare la spesa, posso aver capito male però… Comunque brava, ho avuto voglia di arrivare alla fine.

    1. @letib prima di tutto, grazie per avermi detto della svista del nome, hai pienamente ragione… ho fatto confusione io, e tanta, andrò a modificare.
      L’avanti e indietro nel tempo mi piaceva perchè penso che quasi tutti noi viviamo momenti del presente facendo scorrere contemporaneamente qualcosa che ormai è dietro le nostre spalle, che sia con malinconia o con rimpianto.
      La precarietà è forse soprattutto nell’incertezza ella protagonista, anche quando il marito era vivo, come lato indefinito di se stessa, che si fa però spazio sul finale. Grazie per avermi letta 😀