Elm Street

Quando nevica, tutto quel bianco si mangia i rumori e li assimila al suo interno come la carta assorbente che usavo a scuola da bambino per non macchiare il quaderno d’inchiostro.

Resiste solo quel flebile, quasi impercettibile ticchettio dei cristalli che quando cadono a terra si incastrano uno nelle braccia dell’altro, saldi come quelle amicizie che durano da sempre, quelle più forti delle incomprensioni, degli egoismi e delle piccole meschinità che ci rendono quello che ci danniamo l’esistenza per tentare di non essere. Che invece inevitabilmente siamo.

A volte, quando nevica, è come se assieme al fiato denso che esce dalla bocca se ne andasse via anche uno sbuffo d’anima. È in quel momento lì che, per un attimo, veniamo scelti. Messi a parte di quel segreto sotto gli occhi di tutti; che non c’è niente che sia solo nostro, che viviamo in debito perenne e restituiamo quello che c’è stato dato un soffio alla volta, stringendo nelle mani un biglietto di solo ritorno. Poi la neve smette di cadere, le nuvole spariscono e torniamo a dimenticare, sguazzando nei nostri limiti.

È quando nevica che mi piace uscire, quando il cono di luce proiettato dai lampioni sembra un retino per farfalle, quando i fiocchi che lo attraversano sembrano uno sciame di insetti intrappolati lì dentro.

Di solito aspetto che faccia notte, la notte più fonda possibile, quell’ora in cui nessuno può veramente dire se sia terribilmente tardi o sfacciatamente presto.

Indosso la giacca, tiro su la cerniera fino in cima, a toccare il mento, mi calo un berretto pesante sulla testa e infilo la porta di casa, chiudendola alle spalle senza voltarmi, senza staccare mai lo sguardo dallo strato bianco che cresce quasi a vista d’occhio ricoprendo il giardino così come il vialetto che lo divide in due parti esatte, provando una piccola fitta di irresistibile rimorso per il momento in cui di lì a breve ne violerò l’innocenza attraversandolo.

Apro il cancelletto che lascia sotto di sé il solco di un perfetto semicerchio disegnato a terra, oltrepasso il confine fra l’abitazione e il marciapiede e mi muovo solo una volta che il battente ha fatto nuovamente contatto con la staffa. Ho bisogno delle mie certezze.

Mi guardo a destra e a sinistra, studio bene il quartiere sedato nella sua profonda incoscienza e mi lascio pervadere da quel senso di commiserazione per gli altri tipico di chi è convinto di detenere la saggezza del Creato senza però condividerla con nessuno. Verrò punito un giorno per questo. Per la mia superbia e per il mio egoismo, ma non so in quale ordine. A quel punto scelgo una direzione, e la seguo.

Di solito mi faccio aiutare nella decisione dall’ambiente che mi circonda, mi concentro su quello che mi suggerisce. Ad esempio guardo verso quale direzione sono parcheggiate la maggior parte delle macchine, quelle per le quali si scorge ancora qualche elemento che le faccia distinguere e non si siano già trasformate in un sacco bianco dalla forma indefinita mollato ai lati della strada. Oppure guardo se da una parte o dall’altra c’è una cassetta delle lettere con l’asticella alzata, o da che parte è caduto un motto di neve che si è staccato dal ramo di un albero per il troppo peso, e una volta che ho colto il messaggio mi dirigo nella direzione opposta, perché mi piace vedere se sarò in grado di cavarmela; anche nel momento in cui la vocina petulante che alberga nella mia testa mi ricorderà di avermelo detto di andare dall’altra parte.

Certe volte, invece, so esattamente dove devo andare.

Cammino in mezzo alla strada, con le mani nelle tasche dei pantaloni. Non porto mai i guanti. Non che mi ritenga un esteta, ma li ho sempre considerati un accessorio privo di dignità. E non buttate via il vostro tempo a chiedervi come faccio se voglio raccogliere un po’ di neve e tirarla per scherzo addosso a qualcuno senza farmi cadere le dita dal freddo, perché tanto, quando esco io, sembra che la gente la fiuti la mia presenza. Se ne stanno tutti alla larga rintanati nelle loro case, deve essere qualcosa legato all’istinto di autoconservazione, qualcosa che trasmetto della mia natura. O forse è solo perché è veramente tardi. O veramente presto. Dipende dai punti di vista.

Che se ne stiano pure dove sono comunque, l’ultima cosa di cui avrei voglia sarebbe mettermi a parlare con qualcuno. Per dirgli cosa, poi? C’è forse bisogno di aggiungere parole a quello che mi sta già dicendo il silenzio che ricade sulle mie spalle?

È in momenti come questo che penso sia davvero un peccato aver smesso di fumare. Il calore della fiamma che incendia il tabacco e riscalda il mio palmo gelido mentre la tengo al sicuro, la brace rossastra che persevera ostinata contro una natura che lotta per ucciderla, acqua e fuoco che combattono addosso a me che sono il loro campo di battaglia. Io amo i contrasti, vivo per loro.

Non fraintendetemi, non mi pento delle mie decisioni. Però ammettiamolo, è proprio un peccato non essere capaci di dominarsi.

Vorrei poter riavere il mio cane Buck con me, questo sì.

Quando l’altro giorno ero seduto in sala d’attesa dal veterinario e aspettavo che me lo restituissero in una cassettina, in una forma spietatamente più leggera e inconsistente di come gliel’avevo affidato, mentre rovistavo nel portafogli senza riuscire a trovare la carta di credito per colpa di quel maledetto deodorante per ambienti che fa lacrimare gli occhi come le sommosse del ’62, ho sentito un tizio che parlava al cellulare ad alta voce come fosse a casa sua. Davvero non c’è più rispetto per nessuno. Si lamentava con qualcuno, forse un amico, non so, mi viene difficile pensare che certa gente sia riuscita a trovare dei coglioni con cui condividere una parte della loro esistenza.

Diceva di essere stufo, si lamentava di dovere perdere tempo e denaro per un cane scemo che non era neppure di razza come gli avevano assicurato e che non era neanche capace di fare la guardia come Dio comanda, che sapeva solo scodinzolare come un ritardato. Diceva che avrebbe chiamato il tizio che glielo aveva venduto perché se lo venisse a riprendere.

Nel frattempo era tornata la dottoressa con cui avevo parlato un’ora prima, ho pagato e mi sono ripreso Buck tenendomi stretto quello che restava di lui, venticinque chili di cane ridotti ad un pugno di polvere.

Sono uscito e ho aspettato che il tizio facesse altrettanto. Poi l’ho seguito fin sotto casa sua in auto. Non abita molto distante da dove sto io, mezz’ora di cammino a passo svelto. Una casa in legno unifamiliare, ad un solo piano, di quelle tenute talmente male che il valore delle abitazioni intorno crolla vertiginosamente per il solo fatto di averla vicina. Chissà a cosa cazzo gli dovrebbe servire un cane da guardia a quello, cosa potrà mai esserci da rubare in quel posto a parte il tetano? Non ho idea se viva con qualcuno o meno. Diciamo solo che se fossi una donna dovrei essere particolarmente disperata o tremendamente innamorata per decidere di chiudermi lì dentro con lui. Che poi a volte è la stessa identica cosa.

Quel che è certo è che in casa il cane non ce lo fa entrare. Appena ha fatto ingresso nella sua proprietà, tenuta separata dal resto del mondo da un cancelletto di fortuna chiuso con una catena e da una rete metallica bassa e squallida, di quelle a rombo nelle cui aperture ti ci aggrappi con le dita per guardare le partite al campo di basket, giù in Union Square, quella povera bestia s’è dovuta infilare sotto quattro assi sbilenche tenute in piedi con le preghiere e con lo sputo che nemmeno Mangiafuoco si sarebbe azzardato a chiamare cuccia. Era chiaro che degli interni della casa quel cane non avesse visto mai niente. Anche se non credo si sia perso granché.

Lo zaino mi da un po’ noia sulle spalle, a me piace camminare libero, ma non si può fare altrimenti. Anche se in giro non c’è nessuno, un tipo che se ne va in giro con del cibo per cani in una mano e un tronchesino nell’altra dà comunque nell’occhio.

Se mi sbrigo dovrei riuscire a fare tutto ed essere di ritorno a casa prima che la gente cominci a svegliarsi e uscire per andare al lavoro. E se sono fortunato e continua a nevicare a questo modo, le mie orme se le sarà mangiate il vento nel giro di un niente.

Non che tema che a quel tipo verrà voglia di venirmi a cercare. Con trecento dollari ci si potrà comprare un lucchetto nuovo e con il resto potrà brindare alla salute di chi gli ha tolto dalle scatole il fastidio dagli occhi malinconici che la vita gli ha piazzato tra i piedi.

Spero solo che ci metta un po’ a trovare i soldi, e che l’whisky con cui si ingozzerà gli vada di traverso.

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Discussioni

  1. notevolissimo, Roberto, sia dal punto di vista del contenuto sia per lo stile molto raffinato e denso di cui dai prova. Questo personaggio, dolce e indignato verso il mondo così com’è – e che, per quanto può, cercare di modificare – sta dentro tutti noi, spero, ma sicuramente è parte della tua anima.

  2. “mi lascio pervadere da quel senso di commiserazione per gli altri tipico di chi è convinto di detenere la saggezza del Creato senza però condividerla con nessuno. Verrò punito un giorno per questo. Per la mia superbia e per il mio egoismo”
    Certamente 😃

  3. Il racconto si apre con due metafore estremamente efficaci ed evocative. La prima legata all’infanzia di chi scrive e la seconda che invece ci immerge nella ‘storia’. Dall’immobilità, all’azione, mentre seguiamo il protagonista che esce di casa e si immerge in quel paesaggio che è quasi un niente, che è fatto di silenzio da ascoltare. Mi aspettavo che il racconto proseguisse così, una passeggiata immersa nella neve e nella notte, invece no. Prevalgono sentimenti quasi di rabbia verso l’altro, che perlopiù e la maggior parte delle volte se lo merita. Perché in effetti noi siamo fatti così, superbi e spocchiosi, colti e quasi sempre senza nessuno attorno con cui condividere un discorso che sia sensato. E alla fine ci ritroviamo a parlare con i cani. Bravo Roberto, a mio parere, e se possibile, uno dei tuoi racconti migliori.

  4. Molto bello. Sarà che mi piace quando scende la neve, sarà che amo gli occhi tristi dei quattrozampe ma mi sembrava di essere li e sentire la sua lingua bagnarmi le guance di gratitudine. Grazie Roberto!

  5. Molto bella soprattutto la prima parte con la descrizione della magia offerta dalla neve che si mangia la frenesia della città. Bella la parte del troppo presto troppo tardi. E questa “mi viene difficile pensare che certa gente sia riuscita a trovare dei coglioni con cui condividere una parte della loro esistenza.” Top

  6. Forse te l ho già detto, nel caso, mi ripeto: come coccoli tu il lettore lo sanno fare in pochi.
    Leggendo ho avuto quasi la sensazione di essere presa per mano. Dal bianco ovattato e riflessivo della neve, passando dal rosso della brace di una sigaretta che diventa la rabbia per un’ingiustizia – e il dolore che ne consegue – fino alla rivalsa finale.
    Bravo, davvero.

  7. “Io amo i contrasti, vivo per loro.”
    Anche questo racconto mi e` parso come formato da due parti contrastanti. La prima poetica, ovattata dai fiocchi di neve, con i bagliori dei lampioni e le ombre notturne.
    L’ uomo passeggia e riflette tranquillo, finche` non ripensa al suo cane Buck, al deorante che irrita, al fastidio del cellulare di un uomo che, forse, non merita di avere un cane.
    Il tono sale, cambia lo stato d’ anim e, nello zaino, gli strumenti del suo piano?

  8. Poetico e romantico questo tuo bel racconto. Tra i diversi colpi ad effetto due mi hanno colpito particolarmente: il “biglietto di solo ritorno” e il deodorante, che fa sempre lacrimare quando ci sono i sentimenti nel mezzo.

  9. “e il fastidio dagli occhi malinconici che la vita gli ha piazzato tra i piedi”
    Dillo che questa è una vendetta. Cosa ci faccio io, ora, davanti allo schermo del mio notebook, con le lacrime agli occhi, mentre la mia famiglia aspetta di andare a pranzo e mi guarda come un patetico vecchio?
    Ho deciso. Ora mi alzo e vado a coccolare la mia Orsa (che non si chiama così, ma tant’è…)
    Bravo. Tanto. 👏

  10. “che lascia sotto di sé il solco di un perfetto semicerchio disegnato a terra, oltrepasso il confine fra l’abitazione e il marciapiede e mi muovo solo una volta che il battente ha fatto nuovamente contatto con la staffa. Ho bisogno delle mie certezze”
    Grande. 👏