Equilibrio

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: In questo ho riconosciuto le impronte del posto che mi ha ospitato per tanto tempo, verso il quale provo una inesauribile gratitudine e uno smisurato affetto. In quel sole che lo illuminava mi sono perso e ritrovato.

È stata provvidenziale la fame. Nonostante mi fossi riempito la mattina, raggiunti i contorni dell’ora di pranzo lo stomaco ha iniziato a borbottare. E visto che fra le poche cose che mi riconosco c’è quella di sapere ascoltare, ho messo la freccia a destra e mi sono infilato in una stradina aperta, perpendicolare a quella che stavo percorrendo.

Asfalto grumoso a terra, di quelli che te ne prendi cura quando proprio non ce la fa più.

Campi seminati da poco intorno, i solchi ancora distinguibili su una distesa di zolle marroni.

Un cielo domenicale sereno macchiato da sporadiche nuvole all’orizzonte, sotto al quale gruppi disomogenei di persone uscivano dalle loro auto, parcheggiate alla rinfusa in mezzo a tanta vastità, muovendosi in un’unica direzione lungo quella linea in cui è difficile distinguere dove finisca il catrame freddo di anni e cominci la terra vecchia più di ogni altra cosa.

Ho seguito quella processione procedendo a passo d’uomo in sella alla moto, con la mentoniera aperta. Un bambino sui cinque anni che camminava per mano con il padre si è voltato verso di me quando ero ancora indietro rispetto a lui, attirato dal gorgoglìo del motore. Poi si è rivolto al padre guardandolo dal basso verso l’alto, e dall’alto verso il basso il padre ha risposto al figlio, piegando la testa in un gesto paziente e affettuoso, di quelli che quando poi sei grande te li porti dentro anche se magari non te li ricordi più. Quando l’ho affiancato il bambino si è girato di nuovo verso di me e mi ha salutato con la mano che si apriva e richiudeva, e io ho fatto lo stesso sorridendogli. A giudicare dall’espressione che ho visto fiorire sul suo viso, credo che quel gesto abbia fatto la giornata di entrambi.

Una volta arrivato in testa al gruppo mi sono accorto con una punta di delusione che la meta del loro peregrinare non era una sagra o un ristorante come avevo sperato, ma un’esposizione di trattori. Belli, lucenti, virili al punto giusto con le loro gigantesche gomme tassellate nuove di zecca, ma inservibili alla mia fame.

Invece di tornare indietro ho proseguito per quella strada, prima o poi avrei sicuramente trovato una deviazione che mi avrebbe riportato sul percorso originario.

È una cosa, questa, che ho imparato a conoscere sin da quando ero studente in questa parte della Germania, che si scontra con la realtà dei posti da cui vengo, talmente compressi da lasciare poco margine di manovra alle direttrici che li segnano; qui hanno talmente tanto spazio che per andare da un punto ad un altro puoi davvero fare come ti pare. Basta un vago senso dell’orientamento e saper leggere la rosa dei venti, e più presto che tardi trovi sempre una strada che non conoscevi che taglia attraverso un bosco o scavalca una bassa collina, alla fine della quale ce ne trovi sempre un’altra che la attraversa formando un angolo retto, al cui incrocio ci sarà sempre un cartello che punta di qua o di là con su scritto il nome del posto dove devi andare. Ecco un’altra cosa che amo di questo Paese: mi fornisce certezze.

Ho percorso alcuni chilometri attirato dalla sagoma dei ruderi di un castello appollaiato su un’altura, che a tratti spariva dietro le cime degli alberi per poi ricomparire quando la strada curvava in una prospettiva più favorevole. Proprio dietro una di queste curve, quando mi sono ritrovato in linea sotto la vecchia dimora in sfacelo, è comparso inaspettato un piccolo ristorante con un giardino esterno, piacevole alla vista, con un’insegna dipinta in caratteri gotici sulla facciata e tanti ombrelloni a riparare i tavoli da un sole alto, assediato su un fianco da un enorme nuvolone bianco, spumoso, soffice come le braccia pasciute di un bimbo in salute.

Ho parcheggiato la moto in vista nell’ombra risicata proiettata da un albero, e ad uno di quei tavoli mi sono seduto animato da idee bellicose. Una giovanissima cameriera che dava l’idea di essere lì in un limbo fra un giorno di scuola e l’altro è venuta immediatamente a prendersi cura di me; mentre ordinavo un pranzo vegano a base di salsiccia senape e birra non sono riuscito a staccare gli occhi da tutto quel verde che avevo davanti, riflettendo su come a volte l’equilibrio sia una cosa talmente semplice da raggiungere che a volte sembra troppo facile per essere vero, o nascosto da cose ingiustificabilmente difficili.

È stato forse a causa di questa filosofia da settimana enigmistica, sviluppata in profondo raccoglimento tra un morso di maiale insaccato e un sorso di frumento fermentato, che non mi sono accorto di come la luce si fosse fatta più bassa e i colori avessero perso il loro contrasto; ci ha pensato il crepitio di un fulmine seguito a stretto giro dal fragore di un tuono a riportarmi alla realtà, e la voce della giovane cameriera che si è fatta carico di prendere la mia borsa e mi ha invitato a seguirla.

«Venga dentro, sta per piovere, l’aiuto.»

Abbiamo trasferito tutto all’interno dove, in una sala quasi vuota arredata di un legno scuro e immersa nella luce bassa filtrata da vetri colorati alle finestre, la cameriera ha apparecchiato per me un tavolo libero con la stessa cura che avrebbe potuto usare nei confronti di un nuovo avventore.

Ho mangiato il resto del mio pasto ascoltando una coppia di ventenni parlare con un vecchio solo, seduti a due tavoli differenti, e una pioggia battente riversarsi sul tetto del ristorante e colare dalle grondaie, rumori accoglienti di un giorno lavorativo passato a letto con gli ultimi scampoli di febbre.

Quando sono uscito il temporale, così com’era arrivato, altrettanto svelto se n’era andato, lasciando nell’aria il profumo dell’ozono e in basso i riflessi luccicanti dell’acqua appena rovesciata.

Mi sono rimesso in marcia sapendo che da lì non ci sarebbero più state tappe intermedie, su un asfalto ancora caldo, dal quale salivano sino alle caviglie volute di vapore a formare una bassa nebbiolina. Sembrava vita che rinasce dalla terra.

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Che immagine la processione umana che si reca a vedere…i trattori 🤣
    Mi è suonata familiare, una cosa che spesso facciamo anche qui, un po come quando segui la gente per trovare parcheggio, e dopo tre ore ti fanno gesto che no, non vanno via, e devi ricominciare daccapo.

  2. Quando ti leggo, è come viaggiare con te: sento il motore al minimo dietro al passo lento della gente, respiro l’odore della pioggia appena caduta. Mi viene voglia di perdermi anch’io in una strada qualunque, senza fretta, solo per scoprire cosa c’è dietro la prossima curva.

  3. Che bella sorpresa il ristorantino, l’esplorazione ripaga! Oltretutto, che culo a scansare il temporale proprio durante la sosta. Bellissima la riflessione sull’equilibrio. Capita di cercare la bellezza nella complessità, ma più spesso basta poco per un quadro perfetto! Non ti facevo vegano, ma in fondo lo sono anch’io… allo stesso modo. Grazie per la bella tappa di oggi e per sasiccia e birra… Prosit!