Eroi senza nome
Ci muovevamo come ombre nel buio, le armi strette al petto, il respiro basso, controllato.
L’aria era pesante, densa di polvere e paura, con quell’odore acre che conosci solo qui:
una miscela di sabbia, fango essiccato, gasolio e carne secca. Il cielo era una lastra nera
che ci premeva addosso, rotto solo da qualche stella troppo lontana per importare
qualcosa.
Camminavamo in colonna chiusa, una squadra alla volta, silenziosi, rasente ai muri di
fango. Ogni angolo era una possibilità. Ogni porta, un sospetto. Il villaggio era buio,
eppure vivo. Si respirava dentro quelle case. La tensione non era un’ipotesi: era una lama.
E la tenevamo in gola.
Ero lì con la compagnia, ma la missione era la loro. Io osservavo, guidavo, ma senza il
fardello del comando diretto. Era il Capitano a condurre l’operazione, come giusto che
fosse. Io, Colonnello, avevo chiesto – preteso – di esserci. Era stato un nostro Lince a
esplodere tre giorni prima. Tre graduati morti, un quarto ancora a Ramstein tra la vita e
l’altra cosa. Non chiamatela morte finché respira. Ma qui, la vendetta non è una parola. È
procedura. È metodo. È controllo.
Avanzavamo a ventaglio, fra le case. Il tenente comandante il plotone avanzato a sinistra
fece un cenno al Capitano. Il Capitano alzò il pugno. Stop. Silenzio. Tutti fermi.
Da dietro una parete di mattoni a secco, intravidi il volto di Giulia, il Tenente comandante il
terzo plotone. Era immobile, come scolpita nel buio. Aveva gli occhi spalancati sotto il
visore, la bocca chiusa, la mascella serrata. Aveva fatto del silenzio una forma di
comando. Quando dava un ordine, arrivava basso, ruvido, e tutti obbedivano. Perché con
lei nessuno chiedeva “perché”.
Il Capitano si voltò. Un cenno. In avanti.
Entrammo nel cuore del villaggio. I muri erano alti, stretti. Le strade odoravano di urina
secca e cenere. Qualcuno aveva spento fuochi di recente. Si sentiva il calore che risaliva
dal suolo, come un fiato vecchio, stanco.
Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.
Poi, il mondo si spezzò.
Uno sparo. Uno solo, secco. Un tonfo dietro di noi. Un graduato colpito. Nessun grido,
solo il rumore della carne che cade. Poi altri tre colpi, in rapida successione. Un muro si
scheggiò accanto a me.
«Contatto!» urlò una voce a sinistra.
Il Capitano scattò, prese posizione dietro un carretto rovesciato, urlò ordini nella radio. I
graduati risposero in un unico battito. Il primo plotone prese il lato sud, il secondo piegò a
ovest. Giulia e i suoi si infilarono in una stretta corte interna, un cortile cieco circondato da
case basse e finestre murate. Sapevamo che era un rischio. Ma era l’unico modo per
tagliare la linea di fuoco. Scoppiò un ordigno artigianale. La terra tremò sotto di noi. Polvere, pietre, fumo. Mi ritrovai con le ginocchia a terra, il fucile ancora saldo tra le mani. Le orecchie fischiavano. L’aria
aveva cambiato sapore: ferro e bruciato.
«Due a terra!» gracchiò la voce di Giulia nella radio. «Uno in vita. Sto tenendo la
posizione.»
Mi lanciai all’angolo. Dietro me, il Maresciallo urlava di avanzare. I graduati si
sparpagliarono, sparando, coprendo. Intravidi Giulia, piegata su un corpo riverso. Lo
teneva per il giubbetto antiproiettile, come a volerlo sollevare con la sola volontà. Attorno,
altri due graduati combattevano come lupi in trappola, il volto bagnato di sudore e sangue.
Una finestra si aprì sopra di noi. Due colpi scesero rapidi. Il Maresciallo reagì prima che
potessi girarmi: raffica secca, vetri in frantumi, silenzio.
Avanzammo.
Mi ritrovai dentro la corte. L’aria era diventata pesante, stagnante. Il ferito respirava male.
Aveva una ferita al fianco, la camicia strappata. Gli occhi fissi nel vuoto, ma ancora lucidi.
Giulia gli teneva la mano. Il suo volto era impassibile, ma le sue labbra si muovevano.
Stava dicendo qualcosa. Poche parole. Solo per lui.
«Dentro quella porta,» disse il Capitano, indicando una struttura in legno crepato. «Ultimo
contatto. Li chiudiamo.»
Una flashbang fu lanciata. Poi il fragore. Poi il vuoto.
Entrammo in cinque. Io, il Capitano, tre graduati. L’odore era quello di sudore vecchio e
metallo surriscaldato. Due corpi. Uno ancora armato. Un terzo in ginocchio, le mani in alto,
sporche di sangue.
Lo immobilizzammo. Non disse nulla.
Fuori, Giulia stava ancora lì. Il ferito respirava, ancora. Ma poco. Lei non parlava più.
Guardava il muro. Guardava il sangue che colava lento lungo il cemento.
Mi avvicinai. Non le dissi nulla.
Il Maresciallo passò accanto a noi, la radio gracchiava il via libera.
Il Capitano confermò: «Obiettivo acquisito e sotto controllo. Passiamo a consolidamento»
Giulia si rialzò. Solo allora vidi che tremava. Leggermente. Come un albero che trattiene le
foglie durante il vento. Non si voltò indietro. Non una volta.
Ci lasciammo alle spalle quel villaggio senza nome. Le stelle, ora, sembravano più vicine. Ma non davano alcuna luce. Io ancora una volta mi fermai a pensare a quanto bene ci
sarebbe stata una sigaretta in quel momento.
Veramente bello! Che poi, io amo leggere e scrivere questo tipo di racconti
Grazie 🙏
Una narrazione tesa e avvincente, con un ritmo eccellente che rende la lettura veramente scorrevole.
@G.B. Grazie 🙏