Freud e l’invenzione del telefono
Serie: Un giorno, il succedersi degli eventi, ritenuto preordinato, necessario e indipendente dalle finalità umane
- Episodio 1: Tobia
- Episodio 2: Freud e l’invenzione del telefono
- Episodio 3: Il numero galeotto
STAGIONE 1
Tobia era rincasato, quella volta, con dentro quella sensazione unica e meravigliosa che inonda gli individui quando s’innamorano.
Era felice come un bambino che ha ricevuto il trenino per Natale… O come un cane, la sera, quando rincasa il suo padrone, e vi garantisco che non è solo perché ha bisogno di orinare. Oppure, come un mulo a cui hanno appena tolto il basto, ma oggi chi lo sa più cos’è il basto… e un mulo? mah. Forse, meglio: come un pattinatore che si è appena tolti i pattini da ghiaccio, ecco, sì: questo esempio è fantastico.
Come dite? Non so come ci si sente a essere innamorati? Ma come, io sono onnisciente, ve l’ho detto.
A ogni buon conto, Tobia era al settimo cielo, se avete provato saprete com’è. E non crediate che vi spieghi perché si usa dire così… vi basti sapere che i diritti di casta non sono un’invenzione moderna. Oh, basta divagare!
In definitiva, dunque: era felice. E chissà poi perché… Non conosceva per niente quella persona, c’era solo attrazione chimica, per esser precisi: pura pulsione alla prolificazione della specie, altro che sentimenti. Ma si sa, da cosa nasce cosa… e anche lui sperava che nascesse qualcosa, che però, sentiva piacergli già un bel po’.
Fece tutte quelle riflessioni che si adoperano a costituire un tutore per quella fragile, pazza idea; per convincersi che il meccanismo funziona. E dunque, senza accorgersi di parlare da solo: «Anzitutto, mi ha chiesto se sono sempre così; bene. Vuol dire che le interesso, se no, mica me lo chiedeva… e io ho risposto di sì… Per Baal! Vuoi vedere che adesso mi tocca fare sempre il deficiente?»
Sarò franco: non credo che gli costasse questa gran fatica.
Poi, dando seguito alla sua cogitazione verbale: «Mi ha lasciato il suo numero di telefono: importantissimo! Chiaro segno che vuole che la chiami… perché altrimenti? E se vuole che la chiami vuol dire che anche lei ci tiene a conoscermi meglio, poi che so: una cenetta, un cinema… no, il cinema no, se no ci buttano fuori anche da lì.»
Ma pensate un po’ voi che fatica, tutta ‘sta roba cerebrale per farsi convinti di avere delle speranze con lei…
E lei, cosa pensava…? Eh certo che lo so, ma non ve lo dico. Non ancora.
Torniamo invece alla cosa importantissima, il pizzino con il numero di telefono. Dov’è, Tobia, quel foglietto?
Et voilà: il cretino non lo trovava più.
Ma dico io, come si fa a perdere una cosa così importante? L’hai pure detto “è un chiaro segno che vuole che la chiami…” e va be’, cercalo.
«Dove potrà mai essere finito?» Esclamò. E frugò nelle tasche della giaccia, poi passò alle tasche dei calzoni… «Dunque, cosa avevo con me?… la borsa.»
Ma dopo un’accurata ispezione della sua borsa a tracolla, che portò alla luce diversi reperti archeologici che neanche il British Museum… del foglietto col numero non vi era traccia. Tobia era disperato.
Perché mai un idiota dovrebbe disperarsi per la sua idiozia? Non lo so, chiediamolo a un cognitivista e magari ci proporrà una tesi freudiana secondo la quale il paziente gode letteralmente del suo malessere sintomatico e che tale godimento non scompare grazie alla ragione o all’educazione.
Va be’, ma allora perché ti disperi…? Godi. E non rompere i coglioni a tutti!
Tuttavia, certi meccanismi non sono mai così semplici, perché gli esseri umani sono tutto fuorché semplici, e in tutta la sua complessità, Tobia se ne stava seduto sul letto, attonito a fissare il muro sul quale non c’era nemmeno un quadro, giusto il muro con l’intonaco screpolato. Qui è doveroso citare un grandissimo poeta ermetico, Fabius P.: “Crepai quando nacqui. Rimasi di stucco quando mi sigillarono”. Quanta bellezza!
Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte tumultuosa, passata a insultarsi e a godere a fondo della propria angoscia, fu folgorato da un’idea. Chiamare il suo amico, il trait d’union, conosceva Isotta e certamente aveva il suo numero.
Ahinoi, l’amico gli spiegò che non aveva mai avuto il numero di Isotta, lei abitava due piani sotto, al suo stesso civico, gli disse però che, se occorreva, poteva scendere e chiederglielo… «No, fermo.» Aveva gridato Tobia all’orecchio dell’amico, via telefono. Eh, certo: lei gli consegnava il suo cuore in un pezzo di carta e lui, con leggerezza inaudita, smarriva quel frammento prezioso: figura meschina.
«Per Moloch!» Esclamò. «Certo che,» ragionò contrito, «se anch’io avessi dato a lei il mio numero…»
E basta godere!
Salutò l’amico, e andò a svuotare la lavatrice. Convinto che, facendo come niente fosse, certamente gli sarebbe venuta un’altra idea, e infatti, davanti all’oblò ebbe un’altra illuminazione: doveva solo appostarsi sotto la sua abitazione e aspettare che lei rincasasse, poi, adducendo che si trovava lì per caso, fissare un appuntamento, era facile.
Sì, e magari stavolta approfitta per darle il tuo di numero, aggiunsi io.
Ci aveva pensato anche lui, e bravo Tobia, ma ragionò anche che, magari, lei non avrebbe gradito che lui la cogliesse di sorpresa in un agguato: le donne, hai visto mai… Aiuto! dov’è finito lo psicologo di prima?
Era la giornata delle folgorazioni, e già si sentiva puzza di bruciato. Sempre con la faccia quasi appoggiata all’oblò della lavatrice, ecco la nuova idea: quando l’avrebbe vista, incontrandola per caso, avrebbe potuto inventare una valida scusa; sì lo sapeva anche lui che era una mezza figura da pirla, ma poteva valerne la pena: escogitò d’inventarsi di avere messo a lavare la camicia con il foglietto dentro il taschino…
Già. Proprio una bella trovata, dissi io. Ecco, ora, Tobia, prova a pensare: cosa indossavi ieri, che poi hai messo in lavatrice, e che giusto adesso stavi per tirar fuori belle che lavata?
Sì, lo so che non poteva sentirmi, ma con la testa nell’oblò della macchina per lavare: ci arrivò da sé.
N.d.N. Tobia poteva chiedere all’amico il cognome di Isotta e cercarlo sulla guida telefonica della città, ma non ci pensò: all’epoca di Freud, il telefono l’avevano appena inventato.
Serie: Un giorno, il succedersi degli eventi, ritenuto preordinato, necessario e indipendente dalle finalità umane
- Episodio 1: Tobia
- Episodio 2: Freud e l’invenzione del telefono
- Episodio 3: Il numero galeotto
Uno stile unico! Ben scritto e divertente. Bravo 🙂
Spero di non andarmi a schiantare… ma grazie molte per aver letto
Ho letto i due episodi in un fiato. Bellissimo ritmo, il racconto scorre, l’ironia da la giusta leggerezza a questo amore che mi sembra destinato a diventare profondo…a questo proposito credo ci sarà tempo per amarsi e disperarsi a dovere. Perciò ho apprezzato molto il modo in cui Tobia reagisce alla presunta perdita del biglietto.
Molto bella la scelta del narratore onnisciente che si definisce tale. Una sorta di “cupido” dei tempi addietro.
Ciao Irene, nella calma piatta agostana, è bello ritrovarti a leggere questo raccontino. È un duplice esperimento: provare una voce diversa da quella che uso abitualmente; sfruttare il narratore come personaggio, in pratica: l’eresia di una prima persona onnisciente, più o meno… bah! Troppa grazia, il tuo commento lusinghiero
😂 Concitato e incatenante questo episodio, l’ho letto facendo il tifo. Se posso permettermi di sbilanciarmi, avrei abbassato di una tacca l’ironia, ci vedo molta poesia in questa storia. Beninteso non vuol dire che i due elementi non possano convivere, ma in questo caso mi sarebbe piaciuto vederli diversamente dosati. Naturalmente è solo un’opinione personale, che per restare su modi di dire di un tempo vale come il due di fiori quando denari è briscola.
Ciao Roberto, grazie per aver letto il secondo episodio di questa storia. Puoi permetterti eccome, anzi mi fa piacere. È vero quel che dici, e in qualche modo, la tua è proprio la reazione sperata. Il tono è eccessivo volutamente perché l’idea è che sia sopra le righe, che strida con il contesto sentimentale del Tobia. È un esperimento, e non sono per niente convinto che funzionerà, ma diciamo che, per ciò che hai notato, un motivo c’è, anche se si scoprirà soltanto alla fine.
Grande. Allora mi taccio e resto in attesa.
“Ma oggi chi lo sa più cos’è il basto… e un mulo?”
Leggendo questa tua frase ti chiedo: sai cos’è un mulo nel mio dialetto, quello triestino?
Sono rimasto di stucco quando, leggendo la storia di padre Tobia – scusa il lapsus freudiano, ti ricordi dei ragazzi di padre Tobia? – mi hai citato: “Crepai quando nacqui. Rimasi di stucco quando mi sigillarono” rimarcando la bellezza di questa mia poesia ermetica. Ti ringrazio, Paolo, ne sono onorato. Purtroppo, le mie poesie non sono tutte belle, una, in particolare, di certo non lo è. Dimenticavo: un doveroso applauso per come hai descritto il tormento del povero Tobia. Leggerti è sempre un piacere, oggi poi…
Grazie Fabio per aver letto. La citazione mi cascava a pennello, con il Tobia inebetito a fissare il muro, questa storia, rivisitata nella stesura, la scrissi parecchio tempo fa, che ancora non ti conoscevo, mi è parso un collegamento curioso. Rispondo qui al quesito nel commento precedente: nella mia ignoranza sconfinata, il “mulo” dalle tue parti credo sia un ragazzo, più noto forse al femminile, rammento “le belle mule” di una canzone… Non so se poi possa significare anche altro. A presto
Risposta esatta. E poi c’è il “muleto/a” (ragazzino/a), “mulon”(ragazzo ormai cresciuto) e “mularia” (gruppetto di giovani). Il mulo, inteso come asino, si dice “mus” con la esse dura.