FULMINI

Si chiese come sarebbe apparso il cielo se tutti i fulmini generatisi dall’inizio del Mondo fossero rimasti impigliati nel firmamento, come un accumulo sospeso di crepe fluorescenti.

Magari, a quest’ora, pensò, saremmo sovrastati da una selva elettrica. Un intrico spaventoso di ramificazioni bluastre.

Una nuova folgore frantumò le tenebre.

Il dottor Pisani restò immobile di fronte alla pioggia, in attesa del tuono.

Dal minuscolo protiro sotto cui era riparato poteva vedere solo il tumultuoso accavallarsi dei fumi industriali, che defluivano nella notte dalle affilate ciminiere della Biomodic.

La fabbrica, ormai, aveva occupato tutta quella porzione di valle, monopolizzando il panorama scorgibile dalla vetta del poggio.

Il fragore del tuono si fece finalmente udire, e l’uomo comprese che il temporale era tutt’altro che passato.

«Vi ho detto di andarvene!» urlò la voce al di là del battente.

«Mi ascolti, Padre Vergara… sono io, il dottor Pisani… devo assolutamente parlarle. È per la faccenda del piccolo Ezra…» insisté il medico, tentando di sovrastare gli scrosci della pioggia.

Una nuova saetta illuminò la sagoma striminzita dell’umile pieve: un edificio poco più grande di un sacello, eretto solitario in punta alla collina.

Quando la porta si spalancò, l’uomo si trovò a scrutare nel nero fondo delle canne di una doppietta.

Il prete notò subito il terrore dipinto nello sguardo di Pisani e immediatamente distolse l’arma dal suo viso, poi lanciò un’occhiata oltre di lui – quasi temesse che qualcuno lo avesse seguito –, infine gli fece cenno di entrare.

«Ti ha mandato tuo padre, scommetto. Ha pensato che avessi bisogno di uno strizzacervelli…» disse Vergara, precedendolo attraverso la brevissima navata centrale, intabarrato in un poncho impermeabile color verde pallido.

Il volto era un pozzo nero spalancato sotto al cappuccio.

Raramente l’uomo vestiva il clergyman, e anche stavolta Pisani poté notare che sotto indossava solo un paio di jeans infangati.

«Senta, reverendo: sono venuto per aiutarla. In città si vociferano strane cose. Dicono che lei sia impazzito, che non si fa più vedere da ormai due settimane… dal giorno della scomparsa del figlio dei pecorai.»

Il prete mandò un rantolo e crollò sfinito nella prima delle cinque file di panche, proprio di fronte al pulpito: uno spoglio e basso catafalco affiancato da una cassapanca usata a mo’ di altare. Respirava male, come se qualcosa gli ostruisse la gola, e parlava ancora peggio, fra fischi e gorgoglii.

«Io so cos’è accaduto a Ezra… l’ho visto! Ma non mi crederete mai…» confessò Vergara, lasciando cadere il fucile e portando le mani al viso in un atto di contrizione post-eucaristica.

«Accadde mentre pascolava il gregge, proprio qui davanti», proseguì, «il temporale lo colse all’improvviso: una tempesta come quella di stanotte. Io mi affacciai per offrirgli riparo, e fu allora che arrivò…»

«Cosa arrivò?» lo incalzò Pisani, scosso dal rombo di un tuono.

«Un fulmine. Ma non era come gli altri: dapprima si abbatté su un gruppo di pecore, e fu come se le avesse avvolte in una morsa: vedemmo gli animali schizzare in cielo, per poi precipitare poco più in là, a qualche metro da noi.

Corremmo a vedere cosa fosse successo: le carcasse erano irriconoscibili, come dilaniate da decine di bocche. Un liquido denso le ricopriva, una specie di mucillagine luminosa che corrodeva tutto all’istante. Neanche le ossa resistevano: si liquefacevano e schiumavano, come sapone nell’acqua…»

Un nuovo tuono fece trasalire il prete.

«Non avemmo neppure il tempo di domandarci cosa stesse accadendo: un altro di quei fulmini ci piombò addosso. Fu un attimo: rimasi lì, abbacinato, con la sensazione che qualcosa mi avesse sfiorato il viso… ed Ezra non c’era più.»

Vergara tacque, forse in attesa di un parere del giovane medico.

«Si rende conto che la sua storia è assurda?» domandò Pisani, impassibile.

«Sì. Ma è la verità. Non so quale diavoleria se ne resti a fluttuare sulle nostre teste, come un enorme mostro abissale… ma è certo che l’ho vista! E se non credi a me, crederai a questo…»

Così dicendo, il prete abbassò il cappuccio, mostrandogli un lungo squarcio che attraversava la carne cauterizzata della guancia destra fino all’orecchio, ora corroso e attorcigliato come una conchiglia.

Da quel lato nudo si poteva vederne l’interno della bocca: l’osso esposto della mascella, con la fila scoperta di molari schierati a ridosso del molle profilo della lingua, rintanata nel cranio come una lumaca nel suo guscio.

«Dio santo… che cosa ha fatto? Padre: deve venire con me. Ha bisogno di aiuto!»

«Siete voi ad averne bisogno, Pisani. Non lo hai ancora capito? Qualcosa si è svegliato! Chiamala Natura, chiamala Dio… forse sono solo tutte le schifezze che la Biomodic scarica nell’aria… non ne ho idea. Ma presto mi darete ragione! Per quella cosa, siamo solo prede.»

«Il commissario Sarti verrà qui», lo interruppe il medico con voce ferma. «Vuole interrogarla sulla scomparsa del ragazzo.»

Il prete scosse il capo e mandò uno sbuffo, poi gli disse di seguirlo attraverso la sagrestia, fino al giardino della canonica che affacciava sull’altro lato del poggio.

Mentre avanzavano, un tremolio elettrico percorse il corridoio, insinuandosi tra le assi del pavimento. Entrambi ebbero la sensazione che il temporale li stesse seguendo, passo dopo passo.

Quando il sacerdote spalancò la porta sul retro, un refolo di vento gelido li investì.

Pisani guardò fuori, verso lo stradello che portava in città, e sbiancò.

«Cosa credevi che stessi facendo prima del tuo arrivo? Tutto infangato, armato e chiuso nell’impermeabile?» gli domandò beffardo il parroco, porgendogli una torcia elettrica.

Il giovane medico non lo ascoltava già più: avanzando a piccoli passi, attraversò il giardino – ora sgravato dalla furia della tempesta e illuminato da un sinistro bagliore.

Il raggio della torcia oscillò tra i cespugli e s’infranse su un riflesso metallico: un groviglio di lamiere contorte, capovolte come un insetto morente.

S’avvicinò adagio, cercando d’impedire al respiro di bloccarglisi in gola.

Ogni passo affondava nel fango, e il suono era quello di una ferita che si apriva.

Davanti a lui giaceva il relitto di un’auto che sembrava precipitata da un’altezza incommensurabile.

L’abitacolo, completamente sfracellato, rigurgitava una melma viscida e fluorescente, del colore della folgore, che colava ancora dalle ruote.

Nella vettura friggevano i resti di un corpo squagliato come cera bruciata, riverso in una fetida pozza di carni e viscere liquefatte.

Da lì esalava l’odore dolciastro di grasso animale ridotto a sugna: una palude oleosa di brodi intestinali cotti e bolliti, entro cui rosolavano nude ossa.

Sulla fiancata del mezzo, campeggiava la scritta POLIZIA.

«Sarti…» balbettò Pisani, poco prima di levare lo sguardo al cielo e sentire la ragione abbandonarlo con un’ultima, folle risata.

Un gomitolo ciclopico incombeva là, sulla città dormiente: una luna tentacolata, sospesa fra nubi industriali, galleggiava sotto le coltri diafane in un serpeggiare di filamenti elettrici, scivolando via con placide movenze di medusa.

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Discussioni

  1. Ohhh questo non l’avevo ancora letto! Nessun altro è in grado di descrivere con tanta poesia un corpo squagliato, sei unico! Dopo aver letto questo racconto eviterò di uscire di casa durante un temporale🤔

    1. Ciao Arianna! Questo è stato il mio terzo raccontino pubblicato su EO (ora è diventato il secondo). Sono contento che ti sia piaciuta questa mia prima escursione nel weird puro. Grazie mille della lettura!🙏🏻🤗

  2. Allora sembra che basti poco per assorbire certe caratteristiche di come scriveva Lovecraft, perché invece mi hai dato l’impressione di conoscerlo abbastanza bene ahaha
    In ogni caso sì ti consiglio di approfondirlo, se quel che hai letto finora lo hai gradito 🙂

  3. Mi mancava una bella e classica storia lovecraftiana qui su Edizioni Open: non ne leggevo da un po’. Riuscita l’atmosfera così come lo sviluppo, a mio avviso, con un piccolo e moderato ma efficace colpo di scena finale, che chiude il racconto in modo coerente con la tradizione di Lovecraft. Fa sempre piacere imbattersi in altri appassionati/lettori di questo autore! 🙂
    (ho riconosciuto il nome della Biomodic che più avanti avresti citato anche in “Sotto a un cielo muto”)

    1. Ciao Gabriele! Grazie ancora! Sì: la Biomodic apparirà ogni tanto qua e là, in vari tempi e in vari spazi. Anche questo era un esperimento: vedere se riuscivo a scrivere un racconto “alla x”. In realtà Lovecraft lo conosco poco. Quel che ho letto mi è piaciuto molto, ma devo ancora approfondirlo bene.

  4. Ottimo racconto e ottima prosa. Veramente interessante il tema ecologico legato all’inquinamento che affronti, lo trovo di grande attualità. Intrigante la cornice in cui il tema viene incastonato, pare di essere in una serie fanta horror. Mi piace molto il finale e mi darebbe l’idea di un proseguo. Vedo quell’enorme globo sospeso e vorrei sapere cosa succede dopo.

    1. Grazie mille come sempre per aver letto il mio racconto. Volevo cimentarmi in un genere puro – un po’ lovecraftiano – e senza troppi simbolismi. L’episodio dovrebbe essere autoconclusivo, ma chissà… magari in futuro potrei svilupparlo.