La mia casa è laggiù (3/4) – Fuori dal sogno

Serie: L'angoscia e l'ignoto


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Due sogni ricorrenti mi spingono a cercare la verità che si nasconde in quelle visioni.

Non sto sognando.

Da quando ho deciso andare alla ricerca di indizi, di elementi che mi possano portare alla verità è sempre più difficile discernere la realtà dalle visioni, ma grazie a Dio sono ancora in grado di orientarmi tra queste e quella. Ho deciso di muovermi fuori dal sogno, ma è proprio del sogno che mi sono servito per ritrovare i luoghi del mio vagabondare onirico.

Sono sveglio, e questa è l’unica certezza. La debole luce lunare mi permette di scorgere la pianura al di qua e al di là del piccolo borgo. È quello del mio sogno. Le prime luci dell’alba non tarderanno ad annunciare il giorno: devo agire in fretta, prima che il paese si animi delle poche persone che ancora lo abitano e che passeranno a fare un saluto ai loro cari che riposano dietro questo basso muro a secco.

Il cancello di ingresso del cimitero è chiuso. Sono costretto a scavalcare la recinzione, un’operazione non facile anche se il muro non mi supera di altezza, a causa della sacca con gli attrezzi e delle pesanti barre di ferro che ho portato con me. All’interno noto le lapidi e le grandi tombe di famiglia. Le ho già viste, le conosco, ma c’è qualcosa di diverso rispetto ai miei sogni, una sensazione di abbandono che si nota soprattutto nelle tombe più grandi, le più antiche.

È sufficiente quel poco di luce per individuare la grande costruzione che avevo in qualche modo visitato molte volte. Come nel sogno, anche adesso il pesante portone di ingresso è aperto. All’interno il buio è totale, quella luce che percepivo allora non è più presente. Ho portato con me una torcia e con quella riesco a ritrovare tutti i dettagli che avevo visto nei miei sogni: la pesante pietra che sigilla la tomba di pietra scura, i dipinti sulle pareti, l’apertura con la scala che scende nelle tenebre. E la totale mancanza di simboli sacri. Mi avvicino al sepolcro e con l’unghia provo a grattare via un po’ di quell’impasto di calce e di chissà cos’altro che sigilla la pietra al sarcofago. È difficile da scalfire, ma ho gli attrezzi che mi serviranno per proseguire nel mio lavoro.

Scendo lungo la scala che mi porta nell’ambiente sottostante, mi avvicino alla tomba in pietra che ogni volta aveva trasformato il sogno in un terrificante incubo e vedo che la lastra di pietra lascia aperto il sepolcro. Sento le mie gambe cedere e sono costretto a rannicchiarmi per qualche istante per evitare di cadere. Esploro il luogo con il fascio di luce della torcia: lo conosco perfettamente, ma in realtà sto cercando lei.

«Dove sei?» domando in un sussurro. «Chi sei? Sono qui adesso. Quale decisione devo prendere?»

Forse è meglio uscire da qui, dimenticare tutto, tornare alla mia quotidianità. Il terrore inizia a prendere il posto della mia lucidità mentale. Ma devo farlo: devo alzarmi e andare verso il sarcofago. Mi muovo misurando i passi, tastando il terreno prima di appoggiare il mio peso, come se avessi il timore di sprofondare. Raggiungo la tomba e mi appoggio alla pietra per riprendere il controllo del mio corpo prima di guardare all’interno; trattengo il respiro e punto il rassicurante fascio di luce della torcia…

Vuoto.

Solo quel miscuglio di terra e foglie che già avevo visto nel sogno, nient’altro.

Le gambe cedono nuovamente. Mi accascio a terra per riprendere il controllo di me stesso. E improvvisamente capisco che andrò fino in fondo. Ho quasi raggiunto il mio obiettivo, ho reso reali le mie visioni oniriche, non posso fermarmi adesso. Porterò a termine ciò che già temevo di dover fare. Sollevo lo sguardo verso il soffitto: devo aprire il grande sepolcro.

La punta del piccolo scalpello gratta con forza lungo la linea che separa la base della tomba dalla pietra di copertura. Ciò che si sgretola è calce e…

«Frammenti di ostia consacrata» dice una voce nella mia testa, la sua voce… forse, ma non ne sono sicuro.

Da alcune fessure lungo il confine tra le due pietre iniziano a fuoriuscire sottili filamenti di qualcosa che sembra vapore. Appoggio la torcia in modo da avere le mani libere. Con lo scalpello riesco a ricavare un piccolo incavo sufficiente a inserire l’estremità di una delle barre di ferro da usare come leva. Ho bisogno di fermarmi, ho bisogno di prendere fiato. Mi siedo per terra appoggiando la schiena alla pietra e stringo forte le ginocchia con le braccia. Fuori si intravvede il tenue chiarore prima dell’alba. Osservo lo spazio intorno a me alla ricerca di tutti i dettagli che avevo visto nei miei sogni finché la mia torcia illumina quel dipinto: la donna sta ancora guardando verso di me, in un gioco di rimandi infiniti. Mi muovo a fatica verso la rappresentazione di quella scena per osservarla meglio: una bara di legno scuro poggiata su un catafalco; intorno molte persone, alcune sono ombre, altre presentano lineamenti appena abbozzati. Il viso della donna invece è perfettamente definito, lo sguardo è focalizzato verso di me, gli occhi e il viso mostrano quel senso di melanconia di chi trovandosi in certe situazioni è costretto a pensare alla caducità della vita. Un’altra figura attrae il mio sguardo: è lontana, molto piccola al fondo di quell’ambiente. I suoi tratti, come quelli della donna, sono definiti. Forse è questo che ha attirato la mia attenzione. Mi avvicino e illumino la superficie del dipinto.

E come nel sogno mi accorgo che sto guardando nei miei occhi, in quegli occhi che allora mi avevano fissato dall’interno della bara e che adesso mi osservano da quella realtà lontana. La torcia mi cade dalla mano e si spegne. La luce del giorno filtra dal pesante portone. Da fuori sento arrivare le voci di coloro che sono venuti in quel luogo a portare un fiore ai propri cari. So di dovermi fermare, so che dovrò attendere il tramonto prima di riprendere il mio lavoro. Controllo la torcia e noto con sollievo che funziona. Sono sfinito: mi rannicchio a terra, accanto al grande sepolcro. E aspetto.

Serie: L'angoscia e l'ignoto


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