George Robertson

Serie: Buio al tramonto


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Nick abbandona forzatamente una sessione di scrittura. La ferita per lo scontro con sua madre è ancora aperta, e già deve affrontare suo padre. Ma il compito che lui gli affiderà cambierà per sempre la sua vita... e non solo.

Capitolo 1


2

Liquidata sua madre, Nick scese in strada e saltò sull’auto che l’aspettava con il motore accesso nel parcheggio riservato di fronte all’ingresso. Si passò una manica sulle guance appena in tempo perché l’autista non notasse che erano rigate di lacrime.

Dopo un breve tragitto fatto di semafori e grattacieli, arrivò a destinazione. Scese dall’auto e si avviò su per gli scalini di marmo. Arrivò al portone, trasse un respiro profondo e premette il pulsante del citofono. Dall’interno giunse ovattato il suono del campanello. Il battente si aprì e la signorina Parker, segretaria dello studio, lo accolse con un sorriso acido, di quelli che si possono rivolgere solo a chi è sgradito.

“Il Signor Robertson l’attende nel suo ufficio”. Nick dovette resistere al desiderio di farle notare che il Signor Robertson era suo padre.

Varcò così la soglia sentendosi un estraneo, oltrepassò la reception e le sedie dell’angolo di attesa. I suoi passi venivano attutiti dal tappeto rosso a motivi classici, per nulla in armonia con le fotografie di ponti e grattacieli. Attraversò l’atrio e si fermò innanzi alla porta dell’ufficio di suo padre, quando avvertì uno sguardo sul collo. Si voltò, e in quell’istante la signorina Parker riportò di scatto lo sguardo al monitor del pc, digitando tasti a caso sulla tastiera. Lui la scrutò per un istante, e notò che non c’era una cravatta, a completare una suite di grande formalità. Portava la camicia sbottonata quasi fino ai seni. Si chiese se fosse sempre stato così. Liquidò la questione, che non lo riguardava – ma per qualche ragione lo incuriosiva comunque.

George Robertson sedeva alla scrivania, la lampada puntata su quello che – a un’occhiata veloce e date le circostanze – poteva essere solo un bilancio, gli occhiali dalla montatura spessa sulla punta del naso. Alle sue spalle, allineata con la scrivania, era incorniciata la laurea in amministrazione ad Harvard, la stessa università alla quale lui era iscritto da un anno in più del necessario.

“Eccoti, Nicholas.”

“Ciao Papà. Cosa ti serve?”

George trafficò nel cassetto della scrivania, ed estrasse un blocco di carte. Da quando Nick era entrato nella stanza lo aveva guardato di sfuggita una sola volta.

“Rocky Hardwood Corporation. Una società del Montana; si occupano di legname. Devono modificare l’assetto societario. Entrano tre nuovi soci con trecento milioni liquidi di capitale sociale. Uno dei vecchi soci” scorse l’indice tra le righe, “… Blackthorne si chiama, recede dalla società e preleva la sua quota, del valore di…” ancora scrutò il foglio, “quattrocento milioni.”

George alzò lo sguardo e osservò a lungo suo figlio da sopra gli occhiali, forse sperando che gli porgesse una domanda intelligente.

Nick chiese: “Perché un’impresa del Montana dovrebbe spostarsi fino a Chicago per una cosa del genere?”

“A me” disse suo padre dopo una breve pausa, “stupisce più il fatto che mio figlio si faccia una domanda del genere. I clienti devono pagare, punto. E poi, l’America non è poi tanto così tanto grande. Abbatti i confini, figliolo.”

Nick annuì dubbioso. Avrebbe voluto chiedergli come mai, se gli premeva tanto varcare i confini, aveva sposato una donna dall’empatia paragonabile a un muro alto tre metri, con tanto di filo spinato e torrette di guardia. Probabilmente George avrebbe trovato quella domanda molto intelligente. Sarebbe rimasto in silenzio osservando il vuoto con il capo inclinato, ragionando sulla risposta. Forse se lo chiedeva da anni, e l’avrebbe trovata ripetitiva.

Il ragioniere riprese come se Nick non avesse domandato nulla: “Mi serve un bilancio al trentuno. Saranno qui fra tre ore” e così dicendo gli porse il plico. “Ecco, non ti serve altro.”

Nick ritirò le scartoffie, e senza proferire una parola uscì dall’ufficio. L’entrata del suo studio era accanto alla porta del bagno, nascosto da una palma da interno. Fece cadere il blocco di carte sulla scrivania, poi si sedette e iniziò a sfogliarne le pagine. In cima al fascicolo, una visura della società. Fondata nel 1930 a Rotten Bridge, Montana, da Wallace Blackthorne. Alzò lo sguardo e lo fissò sulla maniglia della porta di fronte a sé. Perché una società del Montana si stava spostando di tutti quei chilometri per un’operazione che qualsiasi neolaureato avrebbe potuto compiere a metà del prezzo che gli avrebbe fatto suo padre? Non era affatto una domanda stupida, a suo avviso. Del resto, che ne sapeva lui, che voleva fare lo scrittore?

Sul motore di ricerca digitò Eliah Blackthorne. Comparvero decine di persone diverse. Nick ragionò. Pochi tra loro sarebbero stati soci di una particolare società. Ritentò digitando Eliah Blackthorne Rocky… e il motore di ricerca gli suggerì Hardwood Corporation a completamento. In cima ai risultati figurava un articolo di trent’anni prima, in occasione del settantesimo anniversario della società. Una sorta di celebrazione.

Eliah Blackthorne era il primo dei tre figli di Wallace Blackthorne, un taglialegna che impugnò l’ascia per la prima volta a nove anni, per ritrovarsi sulla soglia dei quaranta con duecento uomini alle dipendenze.

Nell’articolo era citato, quasi come un dettaglio secondario, l’allontanamento di Eliah dalla cittadina. E dalla Rocky. Ora però chiedi la liquidazione dei tuoi quattrocento milioni, vecchia volpe, pensò Nick. Si chiese che ruolo potessero aver avuto i fratelli di Eliah (se era il primogenito dovevano per forza esserci dei fratelli). Si fermò un istante, e sorrise; senza nemmeno pensarci, stava usando l’immaginazione.

Nick si fece più vicino alla scrivania, e digitò nella barra di ricerca con una frenesia di cui non si accorse. Aprì un altro articolo di cronaca locale. Pressappoco, le informazioni erano le stesse dell’altro, ma questo includeva un paio di dettagli: i fratelli non ebbero alcun ruolo nei trasferimenti di quote al maggiore, Eliah, in quanto, nell’arco dei quattordici anni di assenza del fratello, prima che tornasse a Rotten-Bridge (quindi alla fine sei tornato alla fine eh, volpe?), erano tutti scomparsi.

Alzò lo sguardo sulla maniglia. Pensava, lasciandosi trascinare da un flusso creativo che non vedeva da un po’ di tempo… e i suoi pensieri giunsero bruscamente a una conclusione. Il bilancio. Lanciò un’occhiata al polso, e inorridì accorgendosi che erano passati più di quaranta minuti.

Iniziò quindi una frenetica corsa contro il tempo e, quando la signorina Parker bussò alla porta, l’ultima pagina del bilancio provvisorio della Rocky Hardwood Corporation usciva dalla stampante, calda come un biscotto appena sfornato.

Continua...

Serie: Buio al tramonto


Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Horror

Discussioni

  1. Con una madre cosí fredda e un padre così autoritario, non mi stupisco che Nick abbia sviluppato una spiccata fantasia.
    Temo di scoprire cosa celino le acque torbide della vita di Eliah.

  2. Bartleby avrebbe probabilmente risposto “Preferisco di no” alla richiesta del signor George Robertson, ma il Robertson figlio non se lo può permettere. Ha però un po’ troppa fantasia per essere un contabile e inoltre ha notato una scollatura a dir poco sospetta. Ci sono guai in vista, suppongo.

  3. Ok! Iniziamo a legare il prologo a capitolo uno, per mezzo del Montana. Riesci a incuriosire!
    Mi piace molto anche come il protagonista si estranea dai bilanci per cercare la storia…

  4. Sei stato molto bravo nel capitolo precedente e descrivere i sentimenti di conflitto di Nicholas verso la madre. Ora qui apri una sorta di mistero che ci sposta l’attenzione dall’ambiente domestico. Mi ha colpito il modo in cui Nicholas torni sempre al verbo “creare”, si tratti del romanzo, oppure di indagare in queste carte.