I cortili del tempo
Serie: DEA
- Episodio 1: I cortili del tempo
STAGIONE 1
Conobbi Dea quando eravamo ancora bambini, nel momento in cui si smette di giocare divisi per genere. Prima, ognuno viveva nel proprio universo. Noi maschi inseguivamo un pallone ovunque si potessero improvvisare due pali — cortili, parcheggi, lembi di prato. In periferia non mancavano: il quartiere era sorto su terreni agricoli, e il verde resisteva ancora. Bastavano due giacche, qualche sasso o uno zaino di scuola e il campo era pronto per sfide interminabili, che prima o poi finivano in risse inevitabili: ogni palazzo aveva la sua banda, la sua squadra e le sue regole non scritte, disciplinate dai più grandi. Chi vinceva si teneva il campo migliore, almeno fino alla prossima sfida.
Le femmine, raccolte in piccoli gruppi, sembravano più tranquille, ma già immerse in un mondo fatto di gesti degli adulti e di sogni che andavano oltre il presente. Con bambole rovinate, trucchi improvvisati e collane di plastica imparavano regole e abitudini su come diventare donne, attraverso il gioco, l’osservazione e la vita di tutti i giorni. Quei giochi, solo in apparenza infantili, erano prove generali di ruoli futuri: madri premurose, spose immaginate, custodi silenziose di un mondo che osservavano e riproducevano con naturalezza.
In mezzo a quel mondo ordinario, Dea si distingueva. Non era bella nel senso convenzionale: minuta, riccia, magrissima. Figlia del Sud, come me — nati a Milano, ma con i tratti di chi ha visto tramontare il sole sul mare. Ciò che la rendeva unica era il suo modo di essere: diretto, spigoloso, ruvido. Non nell’aspetto, ma nei gesti, nel linguaggio, nella passione per il calcio e per i motori. Forse fu quella diversità a colpirmi. Anche io mi sentivo fuori posto. Non seguivo la massa, non cercavo attenzioni. Avevo un’ossessione per la chitarra, anche se non ne possedevo una. E per la musica in generale, che però ascoltavo solo attraverso la radio o la televisione.
Crescevamo insieme alla città , che cambiava a una velocità impressionante. Le giornate spensierate nei cortili lasciavano il posto a una nuova consapevolezza. Non erano più i palazzi o il traffico a definire il mondo: i tempi del ragazzo della via Gluck erano finiti. Ora c’erano proteste operaie, manifestazioni studentesche, cortei improvvisati. Le scuole erano luoghi di ritrovo e fermento: assemblee, piccoli teatri, gruppi culturali. Nei quartieri, in edifici abbandonati e occupati, nascevano i primi centri sociali. Spazi liberi, autogestiti, dove si condividevano idee, si suonava, si discuteva di politica.
La politica entrava nelle case, insinuandosi nei discorsi e nella vita di tutti i giorni. Ex sessantottini, anarchici, estremisti di destra e di sinistra: un mosaico inquieto e divisivo. E poi, come un’ombra silenziosa, l’eroina. Alle compagnie di un tempo si sostituirono gruppi più chiusi, rompendo legami non per cattiveria, ma perché la vita chiedeva di prendere posizione. Tutti sceglievano da che parte stare, tranne me: cercavo di seguire un po’ tutti, fino a che la musica non prese il sopravvento e seguii il mio istinto.
Con l’arrivo dell’adolescenza spariva anche la semplicità dei legami. I cortili restavano ai più piccoli; per noi le regole erano cambiate. A dividerci non erano più l’età o il palazzo, ma i gusti, le idee, le identità . Quella frammentazione, silenziosa ma forte, cominciava a segnare le amicizie. Dea inseguiva il suo sogno nel modo più semplice: seguendo la corrente. Discoteche, vetrine del centro, voglia di apparire. La sua vita si allineava a quella di tanti altri: diploma, lavoro da impiegata, sposa e mamma felice. Una quotidianità ordinaria che finiva per inghiottire quasi tutti.
Io osservavo quel mondo da fuori, senza capire davvero perché ci stessimo perdendo. Era fatto di scelte invisibili, di strade che si aprivano e si chiudevano senza che te ne accorgessi, di vite che si sfioravano e poi svanivano. Quando la rividi qualche anno dopo, era cambiata. Una donna. Ci si incrociava appena: un sorriso accennato, un saluto distratto. Il cortile, le corse in bici, i giochi: tutto era lontano, dimenticato. Non eravamo più bambini, ma giovani adulti dispersi in una società che non ci voleva uniti.
Anche io inseguivo il mio sogno. Iniziai a suonare la chitarra a dodici anni, tutto accadde per caso. Certe cose non si spiegano: succedono e basta. Il mio percorso scolastico fu un disastro, segnato dalle scuole di periferia — tempo pieno, metodi alternativi, insegnanti improvvisati. Esperienze che lasciarono un grande vuoto formativo e un senso di isolamento profondo. Un vuoto che riuscivo a colmare solo con la musica, dove le regole le stabilivo io.
Il rock, in tutte le sue sfumature: dal metal al jazz, dal progressive al blues. Con un piccolo registratore alimentato a pile, mi bastava un bastone, una scopa, qualsiasi pezzo di legno da stringere come fosse uno strumento vero. E da lì partivano i miei viaggi: palchi immaginari, concerti sognati, atmosfere psichedeliche che mi portavano lontano.
Serie: DEA
- Episodio 1: I cortili del tempo
Ho ritrovato l’atmosfera di una Milano che non so nemmeno se c’è ancora. I centri sociali, le occupazioni, i box che diventavano sale prove improvvisate. Il riff di Smoke on the water, la prima cosa che volevamo imparare tutti. Un bellissimo inizio di serie. Dea mi ha già fatta innamorare.
Ciao Maurizio, un testo riflessivo che racconta la perdita senza retorica. Interessante.
Ciao Maurizio, ho letto il tuo scritto con estremo interesse.
Curioso di leggere il seguito…
Un primo episodio che stuzzica la voglia di saperne di piú, per scoprire l’ intera storia di Dea, di uno che ha scelto di colmare il vuoto con la musica e di chissá quanti altri ancora che sono curiosa di conoscere.