
Il Bottino del Vecchio
L’azzurrognolo delle sue iridi smorte erano specchi opachi, sui quali si riverberava tristemente il neon dell’ufficio. Non un movimento inutile dei suoi nervi, impaludati in un falso autocontrollo; lui era buttato sulla panca, quasi fosse la pelle scorticata da una belva, ridotta a un trofeo di caccia. Non ero neppure sicuro che il suo corpo scaldasse la sedia. Lungo tutto quel cupo arco di tempo nel quale fummo faccia a faccia, cercai –con fatica- di non evitare i suoi occhi acquosi, chiedendomi se, in quella scatola toracica, vi fosse una qualche forma di anelito vitale che irradiasse il sangue nelle arterie. Le venature cerulee intessevano un tetro tappeto sotto la sua pelle e, santo cielo, ebbi l’idea che si stesse putrefacendo prima ancora di morire. Una carne nata morta, il cui destino era divenire proprio ciò da cui traeva massima eccitazione e per cui massacrò innumerevoli vite: un ammasso di marciume. Un’ innaturale apatia lo estraniava dal mondo dei vivi, la sua anima era ormai il guscio di cheratina della larva che vi si era incistata, scavandola durante un’infanzia di indicibili abusi. Un verme elicoidale la cui carne era una ghiera di rostri acuminati, nato nella sostanza di molli ossessioni sulle morte, al buio, mentre l’anima veniva dilaniata negli abbandoni e dagli sventramenti rituali. La sua famiglia possedeva le terre nella palude da un tempo ancestrale. Non era possibile mettere in discussione la legge cui erano vincolati sia la cloaca umana che lui chiamava Alepher, sia la grossa tarantola ispida che lo spurgò nel mondo, Bether. Fu questa maligna genitorialità ad iniziare il bambino che divenne la cosa amorfa che avevo davanti, alla Via del Dolore; una sequenza d’impronunciabili torture cui, secondo quanto mi raccontò lui stesso, chiunque della sua famiglia nascesse da Alepher e Bether, veniva sottoposto per essere consacrato alle Furie della Notte. Il suo giudizio era impermeabile a tutto ciò che dicevo circa quelle usanze; ciò che io vedevo come sevizie difficili persino a descriversi per una mente dotata di un circuito limbico sano, lui le raccontava come regni inaccessibili di una suprema e perfetta grazia. «Noi siamo troppo antichi per essere compresi.» Era solito sussurrare con un voce senza alcuna flessione.
«Li mangiavi, dopo l’esecuzione?» Chiesi, mentre parlavo con lui, le parole si contorcevano nella mia anima, ribellandosi nella mia mente per non venire dette. Lui era solito banchettare con le carni delle vittime. Prediligeva, come vuole il modello di cannibalismo descritto in ogni manuale di antropologia, cuore e fegato.
«Non un esecuzione, era un’elevazione.»
Lo guardai, falsificando sul mio volto, ma non troppo, interesse verso la sua narrazione. «Prima di elevarli» quell’ultimo termine mi si conficcò nello stomaco al pari d’un ago rovente «come li convincevi a seguirti, come facevi a far loro accettare ciò che gli avresti fatto?»
«Non siamo televenditori da due soldi, non dobbiamo imbonire. Siamo pescatori.» Non colsi alcun cenno stizzoso nella sua replica, era una voce atona, senza dimensione, la cosa impressionante era come mi pareva provenisse da un sintetizzatore; un treno monocorde di suoni stereotipati. Rimaneva sempre uguale, sia parlasse del modo in cui induceva le sue vittime in un dolore irripetibile, che mi descrivesse la giornata passata a tirar su il riso dalla palude; la sua famiglia da secoli coltiva un riso particolare, per distillarlo. «Pescavamo le nostre anime calando la rete della carne negli oscuri abissi che erano solite gremire.»
«Va bene, stai parlando di come adescavi quelle persone nei locali per incontri, nei bordelli?»
«Dalle tenebre di inutilità cui erano destinate, noi le traevamo alla luce della sacralità. Loro ci seguivano, perché noi abbiamo molti poteri, conferiti dallo spirito della Pianta dei Sette Colori.»
« Tu l’hai presa alla lettera quella metafora sui pescatori d’anime. Hai mangiato quei ‘pesci’.»
«Il tuo sarcasmo lo comprendiamo, troppo remoto al tuo spirito è il nostro primordiale retaggio.» Mi lasciai cadere in una debolezza da tirocinante. La tentazione di esorcizzare quello straniante senso di inquietudine con dell’ironia è intensa, un errore che, in base alla mia esperienza, non potevo permettermi, non con lui. Ringraziando il cielo, la larva non si scompose, accettò la mia irriverenza come tutto il resto che gli stava capitando, con una passività non replicabile per una mente dotata di empatia. Lo avevano arrestato, svestito dei suoi panni lordi di fango, sterco e sangue; e lui, uso ai toni smorzati e all’olezzo di putredine della palude, condotto in nell’asepsi della mia clinica, costretto a indossare il colore fluo dei prigionieri più letali, non trasmise la minima inflazione del suo umore. Il suo polso rimase sempre su un battito simile a quando si medita innanzi a un sereno crepuscolo. Gli ho inserito un sensore nei pressi del cuore, per sorvegliarne l’attività. Non vi fu mai un valore diverso da quello che trasmise il primo giorno di detenzione. Rimase fisso su quel valore anche durante la lettura della sentenza, che ne decretò l’inumazione nell’Istituto senza alcuna possibilità di uscirne, neppure da morto. Rischiò il linciaggio da un drappello di uomini e donne armati di sassi, la polizia, probabilmente ammorbidì il cordone di sicurezza attorno a lui, fu solo grazie al mio intervento che si salvò.
Il Vecchio lo voleva vivo nella sua Clinica, glielo avevo promesso illeso; non avrebbe rinunziato a quel bottino, e se avessi fallito non avrei visto la cattedra di Primario. Anche nel momento del linciaggio, sotto la pioggia di sassi, piscio e sputi, come raccolsi dal suo polso, il cuore di lui non variò quel ritmo insulso, apatico. «Li prendevi con la scusa di una notte di sesso ben pagata. Li portavi a casa tua, nella palude, li drogavi con una sostanza nota alla tua famiglia, con la quale i tuoi parenti rendevano predisposti loro stessi e te a ciò che chiami ‘Le Sacre Furie della Notte’. Perciò era facile convincerli a seguirti in quello sprofondo.»
«Non la mistica bevanda usata dal mio lignaggio per accedere ai regni sacri che tu hai appena nominato, ma un estratto che ugualmente producevamo nelle nostre cantine, dalla fermentazione di alcune radici.»
«Di quali radici si trattava?» Chiesi, aprendo il taccuino. «Non è una conoscenza a te accessibile.» Smorzò così la mia smania di sapere quali talenti quei dannati della sua famiglia avessero sviluppato nel produrre ogni sorta di droga. «La Pianta dei Sette Colori è uno spirito impalpabile per chi non è suo sacerdote da eoni.»
«Eppure quella roba non ha impedito alle tue vittime di provare un indicibile sofferenza, una volta caduti nelle tue mani. È difficile persino leggere i referti autoptici di quei poveri resti che siamo riusciti a recuperare. Il medico è sotto cura per via di ciò che ha scoperto in quelle morti. Nella mia vita di psicopatici ne ho incontrati, visto il lavoro che faccio, ma non mi è capitato di sondare un male tanto antico, radicale, al di fuori di ogni categoria pensabile.» Assicurai molti psicopatici alle smanie di sapienza dei Decani dell’Istituto e quest’incarico non apparve diverso. Attraversai da un capo all’altro il cielo per avere quel sarcofago di pura psicopatia. Pensavo provasse piacere in quelle mie parole, avevo intenzione di smuovere qualcosa in quella larva. Invece, tutto nella sua anima annegata rimase immoto.
«Attraverso il dolore abbiamo consacrato quelle anime, nella morte sono state elevate.»
«Il dolore è un mezzo di purificazione?»
«È la grazia suprema cui facciamo dono alle anime in questo mondo. Rendiamo perfetti quegli spiriti contorti dall’oscurità agli occhi dei nostri Veglianti. Attraverso il processo cui sottoponiamo la loro carne, li trasformiamo in sacri servitori dei Custodi. La loro vita, dapprima un insignificante, continuo prurito di voglie carnali e d’impulsi intestinali, per mezzo della nostra opera è trasfigurata secondo la perfetta sembianza dei nostri Dei.»
Mi alzai dal tavolo, senza dir nulla. Lasciai quella carne amorfa legata alla panca, le guardie lo avrebbero accompagnato nel suo loculo. Il soffice rumore alle spalle mi avvertì che la cella degli interrogatori s’era richiusa. Avanti a me il lungo corridoio sotterraneo, percorsi avvolto nel silenzio quel budello, sino al portale della scalinata. Carezzai il dipinto enigmatico d’una spirale e attesi un suono simile allo sfioramento di corde d’un violino, era il segnale di ricezione. Quando lo percepii, i cardini vibrarono senza suono e le grandi ante si spalancarono con una maestosa lentezza. Risalii verso i piani alti dell’Istituto.

Apparizione di un sembiante, l’impronta sottile di un Custode, durante un esperimento condotto nella Clinica da me e dagli assistenti, secondo i dettami del Vecchio.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Horror
Un po’ di Lovecraft (gli antichi, ancestrali rituali pregni di male), un po’ Barker (mi viene da pensare ai cenobiti), un racconto davvero intrigante.
“ebbi l’idea che si stesse putrefacendo prima ancora di morire.”
Immagine tanto forte quanto efficace
Molto weird questo racconto