Il Collezionista

Scelse la tenerezza nella forma più assurda: una bustina trasparente, con la zip rossa e un’etichetta strappata da un vecchio quaderno. Dentro, un solo pelo. Riccio, nero, fragile come il ricordo che voleva rinchiudere: il compagno di banco delle medie. Il primo stronzo a farlo sentire vivo.

Lo raccolse in doccia, a scuola. Dopo educazione fisica, come ogni lunedì maledetto, ci si lavava in branco: schiene bianche, vapore denso, bestemmie, insulti da spogliatoio. Lui ancora a metà: troppo magro, troppi peli mancanti, troppo tutto. Andrea, invece, già un maschio vero. Gambe forti, petto aperto, quella naturalezza che fa sembrare Dio sempre dalla parte degli altri.

Lo fissava. Sempre un secondo di troppo. Andrea lo sapeva. Forse sorrideva. O forse no.

Quel giorno restò indietro con la scusa della scarpa slacciata. Aspettò che uscissero tutti. Poi lo vide: un pelo scuro, su una mattonella crepata, accanto a una goccia d’acqua. Il cuore gli esplose in gola. Lo raccolse con un fazzoletto. A casa, con le mani che tremavano come dopo la prima sega, lo infilò nella bustina e scrisse: “Andrea C. – palestra – maggio ’89”.

Fu l’inizio. La liturgia. Non lo sapeva, ma aveva appena scelto il suo modo per sopravvivere al tempo.

Negli anni imparò a riconoscerli come altri distinguono i vini: dalla curvatura, dalla spigolosità, dalla carica che lasciavano sulle dita. Ogni riccio una storia. Ogni biondo un’ossessione. Ogni bustina, un’annotazione invisibile.

Non era feticismo. Era fame. Di prova. Di traccia. Di sopravvivenza.

Li ordinava per emozione, non per cronologia. Andrea era sempre il primo. Poi Hasan. Poi Marco.

Hasan aveva un negozietto sotto il cavalcavia, con l’insegna mezza fulminata e il profumo eterno di spezie e umidità. Capelli neri come petrolio, mani veloci, sguardo stanco. Sposato da due anni, ma la moglie era rimasta in Bangladesh. «La burocrazia è lenta,» diceva. «Ma un giorno verrà.»

Lui andava da Hasan per comprare il pane o un pacco di riso anche quando non serviva. Parlavano poco. Poi cominciarono gli incontri. Veloci, dietro la tenda del retro. Niente romanticismi, solo pelle e silenzio. Hasan chiudeva gli occhi. Sempre. E lui fingeva che andasse bene.

Una sera gli sfuggì: “Credo che ti sto amando.”

Hasan aprì gli occhi. Per la prima volta.

“Chiudo occhi per pensare a mia moglie. Non a te.”

Lui provò ad abbracciarlo. Poi il pugno. Secco. Si passò la lingua sul labbro. Sapeva di ferro e rabbia. Il pelo lo aveva già: raccolto da uno sputo, giorni prima.

“Hasan – ottobre 2003 – quello che non si dice.”

A volte pensava di smettere. Di non raccoglierli più. Ma poi un riccio nel lenzuolo. Un pelo caldo ancora sulla pelle. E tornava tutto da capo.

Il bisogno. La prova. Il ricordo che non vuole morire mai da solo.

Marco era il coinquilino dell’università. Nulla accadde, ma tutto poteva. Una sera, tra birre calde e fumo stanco, gli disse la verità. Marco lo guardò. Silenzio. Poi: “Ti voglio bene. Ma non in quel modo. Possiamo restare amici?”

E lo furono. Davvero.

Una notte, Marco dormiva nudo. Il lenzuolo ai piedi. Corpo disteso, innocente. Lui lo fissò a lungo. Con le pinzette, ne prese uno. L’unico rubato.

“Marco – Roma – 1997 – perdono (chiesto male).”

Andrea era l’innesco. Marco, il limite. Hasan, la cicatrice. Tutto il resto era carne che passava. Un ghanese che diceva “madame” anche dopo venuto. Un barista. Un professore. Tutti lasciavano qualcosa. Nessuno restava. Ogni bustina una firma. Ogni firma, una piccola verità non detta.

Le donne, diverse. Giulia, un pelo rosso profumato di shampoo. Silvia lo colse mentre frugava tra le lenzuola, troppo in basso per sembrare casuale.

“Cosa fai?”

“Colleziono ciò che resta quando la pelle se ne va.”

Lo lasciò. Qualche giorno dopo, una busta. Dentro, un pugno di peli. Biglietto: “Così sei a posto per un po’.”

Poi sua madre. Tumore, o qualcosa di simile. Lui l’accudiva. Un giorno, un pelo nero con riflessi d’argento.

“Mamma – febbraio 2009”.

Da bambino la guardava stirare nuda sotto la canottiera, come una Madonna che aveva rinunciato ai santi. Quella bustina la lasciò in fondo. Non la toccò mai più.

Ogni notte apriva la scatola di legno, come si spalanca un tabernacolo eretico. Le bustine erano allineate come ostie profane, reliquie di una fede mai benedetta. Le annusava, le sfiorava, come si sfiora la pelle di un dio che non ti vuole. Non per eccitarsi. Non più. Era una Bibbia fatta di corpi passati, di carne che aveva avuto il coraggio di restare solo il tempo di lasciare traccia. Un rituale erotico senza assoluzione. A volte rideva. Altre piangeva. Ogni tanto si addormentava con una bustina in mano, come altri fanno coi rosari. Solo che i suoi misteri non promettevano paradiso, solo memoria.

Una sera d’inverno inciampò. Un tappeto piegato. Una pantofola. Il corpo cedette. Il parquet freddo sulla guancia. Rimase lì. Davanti a lui, la scatola aperta. Le bustine sparse come semi.

Una lo colpì. Nuova. Senza etichetta. Dentro, un solo pelo. Curvo. Grigio.

Allungò la mano. Raccolse la bustina. Lo riconobbe. Era suo. Il primo. L’unico davvero appartenuto.

Si tirò su a fatica, come si rialzano i vecchi che non hanno più nulla da aspettare. Andò al tavolo. Scrisse su un’etichetta pulita: “Io – ciò che resta.”

Chiuse la zip. Poi la scatola. Come si chiude una bara che nessuno verrà a piangere.

Si sedette. Non disse nulla. Il cuore faceva poco rumore.

Sapeva che sarebbe morto così: da solo, pieno di voci che non parlavano più. Ma almeno qualcosa, almeno un gesto, l’avrebbe raccontato.

Non chiedeva redenzione. Non voleva santi. Solo che un giorno, aprendo quella scatola, qualcuno capisse.

Che non erano peli. Erano reliquie oscene di un credo privato. Ritagli di pelle che non aveva saputo dimenticare. Resti tangibili di una fame che nessun corpo, mai, aveva saziato davvero.

Una pausa lasciata in un discorso mai fatto. Un punto dimenticato in fondo alla pagina. Come una virgola che nessuno ha mai avuto il coraggio di chiudere.

Il segno minimo di chi, pur non essendo mai stato intero, ha voluto esistere a modo suo.

Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

    1. Ti ringrazio davvero. Tenere incollato chi tende a distrarsi è forse il complimento più bello che potessi ricevere. Mi hai fatto sentire che qualcosa è passato, ed è tutto quello che conta.

  1. Wow Mi tolgo il cappello. Tu si che sei uno scrittore con la S maiuscola. Bravo. Non aggiungo altro, quello che c’era da dire sul pezzo lo hanno già fatto altri e non potrei aggiungere altro. 🙂

    1. Le tue parole mi fanno davvero piacere, anche perché non mi considero affatto uno “scrittore con la S maiuscola”. Ti confesso che questo racconto è in realtà un adattamento di uno un po’ più lungo, ma sono felice che anche in questa forma sia riuscito a comunicare qualcosa. Il tuo commento mi ha fatto molto bene.

  2. “A casa, con le mani che tremavano come dopo la prima sega, lo infilò nella bustina e scrisse: “Andrea C. – palestra – maggio ’89”.”
    Questo passaggio mi è piaciuto e mi ha fatto provare la nostalgia del passato. Bravo.👏 👏 👏

  3. Ottima lettura, allo stesso tempo piacevole e disturbante. Soggetto originale senza dubbio. Inizialmente induce a storcere la bocca, un leggero disgusto. Ma pensandoci con calma in qualche modo siamo tutti come il protagonista del tuo racconto riguardo le mille cose inutili per il mondo ma fondamentali per la nostra memoria.

    1. Wow…che dire! Mi fa molto piacere sapere che quello che scrivo ti arriva in questo modo. Il fatto che tu abbia voluto scriverlo per me vale già moltissimo. Spero di continuare a meritare il tuo tempo e la tua lettura.

  4. L’ho letto con interesse. Il soggetto è piuttosto originale: sfiora un disturbo ossessivo compulsivo… E la presentazione del protagonista (di cui non è presente il nome, forse per scelta), attraverso i suoi gesti risulta naturale e credibile. Ci sono alcuni punti migliorabili (ad esempio: “Lui andava da lui per…”), ma in generale risulta scorrevole. Meriterebbe, a mio avviso, un maggior respiro. Grazie per la lettura

    1. Grazie davvero per la lettura e per il commento. Hai colto bene l’aspetto ossessivo del protagonista e la scelta di non dargli un nome. Il limite delle mille parole mi ha costretto a tagliare o semplificare alcuni passaggi — come “lui andava da lui”, che in effetti sto pensando di cambiare per renderlo più chiaro. Sono contento che, nonostante tutto, la storia risulti scorrevole e il personaggio credibile. Grazie ancora!