Il corpo di Serafina

«¡Que se ponga de pie la sala! Entra el honorable Juez del Juzgado Penal del Circuito de Magangué, doctor Martín Ruiz Delgado.»

***

Il medico patologo registrò la morte di Serafina tra il due e il tre di marzo. Il giorno preciso poco importava. Si era persa nelle acque tormentate del fiume che ebbe pietà e ce la restituì poco alla volta.

Una scarpa con il tacco, la borsa, la sciarpa. Poi, due settimane più tardi, il corpo.

Lo trovarono alcuni ragazzini che facevano il bagno per sfuggire alla calura ostinata di marzo.

Io non la vidi. Mi permisero una visita soltanto quando me la nascosero in una cassa già chiusa. Mi dissero che, al momento del ritrovamento, aveva gli occhi vuoti e il corpo gonfio, abitato da migliaia di larve in movimento. Ciò che restava delle sue mani, stringeva ancora il cappello di paglia che portava nei giorni di sole, quello con le rose che le avevo regalato per il suo compleanno.

Fatico a immaginare il suo viso deturpato dall’acqua e dagli insetti di palude, anche se quella visione abita i miei sogni da allora.

«Non ci vengo con te al fiume.» Mi aveva detto dopo l’ennesimo litigio. Negli ultimi tempi discutevamo spesso, come se qualcosa fra noi si fosse rotto. Eppure continuavamo a fare l’amore, a volte con rabbia, altre con una dolcezza disarmante. Fra una pausa e l’altra, smettevamo di vivere.

Serafina era bellissima. Non so trovare parole migliori. Mi dava l’illusione di averla e, nello stesso istante, me la strappava via, lasciandomi annaspare nel vuoto. Più mi respingeva, più io la desideravo. Mi mancava l’ossigeno. Respiravo di lei e dei suoi passi rapidi nonostante le scarpe alte, che portava sempre, persino d’estate.

La prendevo da dietro e lei mi scostava senza guardarmi. «Falla finita che c’è gente. Ti aspetto più tardi da me.»

Da me voleva dire sulla riva del fiume, al buio, dove facevamo l’amore come piaceva a lei. Io non avevo potere. Ero un uomo-pesce tra le sue mani: scivoloso, inutile, boccheggiante.

«Come faccio ad averti sempre?»

«Semplicemente, non puoi.»

Ma quelle sere al fiume finirono. Poi venne il giorno del ritrovamento. Uno dei ragazzini mi raccontò che il viso di Serafina era premuto contro la terra, mentre il corpo giaceva in acqua. Pensai a uno straccio usato e gettato lì per caso.

Serafina amava vestire di giallo e diceva che quel colore esaltava la sua pelle d’ebano, di una tonalità così intensa da sembrare innaturale. Era nera come le notti senza stelle, quando non sai orientarti nel monte e ti serve una mano da stringere e qualcuno che ti rassicuri e ti dica che presto ritroverai la strada.

Allo stesso modo, io avevo bisogno di lei per tornare a casa. La casa del suo ventre bruno, l’unico approdo che desiderassi. Allora lei afferrava la mia mano, se la portava fra le cosce e sussurrava: «stringimelo forte.» E io facevo sempre come voleva. Sempre.

La domenica l’accompagnavo in chiesa, perché così lei desiderava. Io accettavo solamente per poterle cingere la vita e osservare gli sguardi degli uomini posarsi sulle sue caviglie sottili, in bilico sui tacchi alti. La polvere attenuava il lucido delle scarpe e toccava a me rimuoverla prima di varcare la soglia dell’edificio, restituendo alla vernice il suo splendore. Mi chinavo e le sollevavo delicatamente il piede, appoggiandolo sul mio ginocchio. Compievo quel gesto senza fretta, meticolosamente, così che lei potesse fare il suo ingresso in chiesa sentendosi una regina. La mia regina.

Serafina cantava con voce d’angelo. Lo faceva durante la funzione, e dopo l’amore, lo faceva per me. Intonava i boleros alla moda, accompagnandosi con una musica che viveva soltanto nella sua testa. Chiudeva gli occhi, inclinava appena il capo, poi dischiudeva le labbra e lasciava uscire il suono rauco della sua voce maschile.

Posso ancora sentire sotto le dita la cicatrice ruvida che le taglia la coscia. Me la lasciava accarezzare, dall’alto in basso, e poi ancora. Viola, sulla sua pelle scura, calda e odorosa come un frutto maturo. Una volta mi disse: «leccala.» Sapeva di ciruela, acida e dolce allo stesso tempo.

Questa è la mia Serafina, ciò che ricordo di lei. Ma non conta. Conta solo quello che fu messo agli atti, quello che venne letto ad alta voce in tribunale.

***

«La sala puede sentarse. Se reanuda la audiencia en el proceso seguido contra el ciudadano Luis Antonio Perrota. Procederé a dar lectura a la sentencia…

Repubblica di Colombia – Tribunale Penale di Magangué, Bolívar.

Il giorno giovedì venticinque del mese di ottobre dell’anno millenovecentosessantadue, questo tribunale emette la seguente sentenza nella causa contro il cittadino Luis Antonio Perrota.

È risultato agli atti che la vittima, conosciuta come Serafín Aguilar, scomparve tra il due e il tre di marzo dell’anno in corso, in circostanze rimaste oscure.

Risulta dal fascicolo che il corpo venne rinvenuto il diciassette marzo, in stato di avanzata decomposizione, da alcuni ragazzi che facevano il bagno nelle vicinanze della zona paludosa de La Mojana.

Le indagini hanno accertato che l’imputato condusse la vittima fino a un tratto isolato e fangoso della riva. Non si è potuto stabilire se fosse già ferita o soltanto indebolita, ma il medico legale ha dichiarato che era ancora in vita quando fu lasciata nell’acqua.

In quel momento, l’imputato omise di prestargli soccorso, lasciando che il corpo di Serafín Aguilar rimanesse in balia della corrente, la quale lo trascinò e lo occultò per circa due settimane tra rami e detriti sommersi, fino al successivo ritrovamento.

Dopo i fatti, l’imputato si diede alla fuga, vagando per lo Stato senza meta finché venne individuato, catturato e tradotto davanti a questa Corte.

Per quanto accertato, il Tribunale di Magangué, in nome della Repubblica di Colombia e per autorità della legge, dichiara Luis Antonio Perrota colpevole dell’omicidio di Serafín Aguilar e del successivo occultamento del cadavere, e lo condanna alla pena della reclusione perpetua, da scontarsi in carcere ordinario, senza possibilità di riduzioni o benefici.»

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Discussioni

  1. È sempre la carnalità distorta a premere la testa di una vittima nel fango di un fiume di qualunque posto. Non so se dipenda dalla stessa visione confusa e contorta del desiderio di possedere integralmente quell’animale sacrificale, di renderlo, in un qualche modo, eternamente proprio.
    Non posso negare quanto sia bello il contatto della pelle contro la pelle, della passione addolcita dalla trasgressione e, soprattutto, da quel sentimento di amarezza per la mancata fusione della carne, credo che se potessero, coloro che amano in modo tanto perverso, assorbirebbero i soggetti che abitano la loro fantasia deforme. Nel mondo camminerebbero degli ecatonchiri, mostruosi ed enormi, composti da centinaia di corpi amati alla follia. Nessuno mi toglierà dalla testa che l’umanità sia composta da tantissimi esseri stupidi, noi stessi vittime delle bramosie create da altri.
    E tu, Cristiana, riesci a svelare egregiamente le cicatrici che sanno di susino che ognuno di noi possiede. ♥ La mia cicatrice sulla fronte dovrebbe sapere di “sbeggio”, una pesca nettarina piccola e bianca che adoro :D.

  2. Un racconto affascinante che mescola pensieri e sentimenti a una sentenza. Ho pensato: “non può essere stato lui, non dalla dolcezza con cui ne parla”, ma forse è proprio questo uno dei punti di forza del racconto, mostrare l’altra faccia di un assassino, il dietro le quinte. Riuscire a mettersi così bene nei panni di certi personaggi scomodi è indice di grande bravura e di tantissima sensibilità. Complimenti come sempre!

  3. Ciao Cristiana.. questo tuo racconto non è di facile assimilazione, pure se scritto con apparente semplicità.. la lunga e accorata non-confessione di Luis viene azzerata dalla sentenza del tribunale.. ma è veramente lui l’assassino dell’amante..?

  4. Una delle tante storie di violenza di genere, dovuta, forse, ai conflitti passionali di un amore possessivo che era o é diventato, la negazione stessa dell’amore. Tu riesci abilmente a raccontare i fatti quasi con distacco, senza voler condizionare il lettore, senza interferire. Una scelta rispettosa. Io da lettrice, e spesso anche quando scrivo, sono tentata di schierarmi, di prendere posizione, per distinguere il bianco dal nero o dal grigio, come faccio quasi ogni giorno, anche nella mia vita quotidiana. Mi ostino a voler riconoscere il buono dal cattivo, la vittima dal carnefice, l’ innocente dal colpevole o dal complice, anche se una distinzione netta, in realtà non sarebbe mai giusta del tutto. In fondo siamo noi, con i nostri occhi, la nostra mente e il nostro vissuto, che valutiamo, giudichiamo e condanniamo senza riuscire a comprendere mai sino in fondo. Anche se capire non significa dover per forza giustificare. Mi chiedo, quindi, e ti chiedo: per un romanziere, aspirante, emergente o di successo, la neutralità nella narrazione fino a che punto puó essere considerata una scelta dell’ autore, un’esigenza soggettiva o un requisito doveroso?
    Non dico che questo dubbio mi tormenta, ma certe volte mi mette un po’ in crisi. Ultimamente sto cercando di classificare i caratteri dei protagonisti in base alle impressioni che suscitano in altri personaggi, spesso molto diverse tra loro.
    Scusa il commento prolisso, indotto anche dalla lettura di questo tuo atteso e ottimo testo.

  5. “Mi dissero che, al momento del ritrovamento, aveva gli occhi vuoti e il corpo gonfio, abitato da migliaia di larve in movimento.”
    Una descrizione molto efficace, che richiede forza d’animo per metterla nero su bianco, senza fronzoli.

  6. Ho ritrovato qui un particolare che della tua scrittura amo tantissimo: la capacità che hai di mostrare il lato umano, spoglio da giudizi e sentenze. Senza puntare il dito, senza costringerci a prendere posizione, tu ci dai la possibilità di “capire” l’essere umano in ogni sfumatura, in ogni gesto, che siano i migliori o i peggiori. Credo sia un dono rarissimo, e una fortuna poterti leggere e capire❤️

  7. “Allora lei afferrava la mia mano, se la portava fra le cosce e sussurrava: «stringimelo forte.»”
    Meravigliosa. È lei, il suo Serafin. Che modo sublime di raccontarcelo.

  8. “Fatico a immaginare il suo viso deturpato dall’acqua e dagli insetti di palude, anche se quella visione abita i miei sogni da allora.”
    Eccola, l’altra faccia di qiesto amore, o almeno cosi mi è piaciuto intenderla. Mi aveva gia colpita alla prima lettura, quale innamorato ben sopporta il volto morto dell’amata?
    Ci sono tornata dopo avere letto la seconda parte. Ho ricordato di aver sentito dire che spesso gli assassini, presi da rimorso o da un legame con la vittima, la sistemano, le coprono il viso. Quando ho letto che era stata lasciata in acqua ancora viva, mi è sembrato di scorgere (non so se fosse volontaria o meno) in questo passaggio un trait d’union tra l’innamorato e il carnefice. Due volti dello stesso amore.

    1. Ciao Irene, dimostri sempre da lettrice una profonda sensibilità. Ho effettivamente pensato a quella sciarpa che lei portava, appoggiata sul volto, come un ultimo gesto di pietà. Poi, però, ho pensato anche che la teatralità poco appartenga, purtroppo, alla realtà dei fatti di molti delitti passionali che spesso invece è terribilmente cruda. E così, l’ho semplicemente lasciata lì, con la faccia nella terra.
      I ‘due volti dello stesso amore’ calza benissimo. Quell’aspetto così controverso di cui spesso ci ritroviamo a parlare, a farci domande l’un l’altra senza avere mai una risposta da dare, se non le nostre emozioni. E altre domande alle domande. E via così.
      Con questo racconto volevo aggiungere un altro tassello, forse inutile, a questa ricerca infinita.
      Un abbraccio.

  9. Pregevole come sempre cara Cristiana. Un amore preteso e, forse, conteso. Un amore probabilmente fuori dai canoni della “normalità” degli anni 60. Un omicidio passionale? Forse. Tu non dai certezze, la sentenza non è tua e Luis non grida la sua innocenza. Povero Serafin, povera principessa incompresa.

    1. Ho provato lo stesso sentimento di compassione per Serafin e, ammetto, il mio desiderio è sempre quello di suscitare nel lettore quell’amore che ogni umanità tormentata si merita.
      Credo che non sia poi così difficile sapere dove stia l’innocenza.
      Grazie di cuore Giuseppe.

  10. Un racconto tagliente, intriso di una sensualità di dolore estenuante, ma perfettamente focalizzato nella sua dimensione di pura intensità. Il tuo processo percettivo nell’organizzare la scena, con i suoi strati e affluenti, attraversa tutti i sensi, li inonda e non li acquieta, utilizzando, con maestria, l’angolazione fobica di un punto di vista in perenne bilico. Complimenti di cuore, Cristiana. Un saluto.

    1. Grazie Luigi. Apprezzo molto il tuo commento in quanto, terminare il racconto senza variare il punto di vista, sarebbe stato molto più facile: una sorta di lungo flusso di coscienza che funziona, ma poi stanca o, comunque, non soddisfa. Portare il lettore in un’aula di tribunale mi è sembrata una soluzione più originale. E, soprattutto, aiutarlo a di dubitare della sentenza.

  11. Non è noto il nome del ragazzo che ne era innamorato. Mi sono chiesta se è come penso o se mi sbaglio.
    Due Serafina: Serafina e il suo doppio, il suo corpo. Mentre la prima si muove nelle dinamiche imprevedibili della vita e dell’amore, il secondo viene sezionato dagli anatomo-patologi e incluso in categorie giuridiche che classificano e condannano. Sono e non sono la stessa cosa.
    Quel ragazzo potrebbe essere il trait d’union? Ma tu stessa lasci aperta la questione. In effetti, se non per i giudici e per chi l’amava, la domanda ha poca importanza.

    1. Mi piace sapere che un mio racconto possa suscitare così tanti dubbi. Sappi che lo stesso succede a me. Ossia, quando mi ritrovo a scrivere storie di vita, spesso mi capita di dovermi mettere in attesa e aspettare che i fatti mi vengano ‘raccontati’. Magari suona strano, ma capita che noi che scriviamo non abbiamo ben chiaro l’insieme. A me va bene così e soprattutto cerco sempre di restarne abbastanza fuori e lasciare da parte i giudizi.
      Questo per dirti che non ho risposte alle tue domande, solamente il piacere di condividere con te i dubbi.
      Grazie Francesca per i tuoi commenti sempre stimolanti.

  12. Ciao Cristiana, un brano suggestivo che dalle prime righe mi ha catturato. Benché non sia specificato, appare chiaro che chi sta raccontato è pure dietro il banco degli imputati nel processo, credo grazie a una sapiente conduzione della narrazione, e con la stessa naturalezza si svela la connotazione sessuale della vittima. Lasci poi completamente aperta all’immaginazione del lettore una parte apparentemente importante (nella circostanza di un crimine): se sia davvero stato lui, perché abbia commesso quell’omicidio… ma penso che qui stia davvero la genialità di questo racconto, dare luce a emozioni e sentimenti, piuttosto che alla razionalità. Grazie davvero per la lettura

    1. Grazie a te Paolo.
      Fa sempre parte di quel gioco del mostrare e non mostrare che mi piace tanto anche da lettrice. E poi, hai perfettamente ragione quando parli del dare luce alle emozioni piuttosto che alla razionalità. Sono fatta così 🙂