Il corpo di Serafina
«¡Que se ponga de pie la sala! Entra el honorable Juez del Juzgado Penal del Circuito de Magangué, doctor Martín Ruiz Delgado.»
***
Il medico patologo registrò la morte di Serafina tra il due e il tre di marzo. Il giorno preciso poco importava. Si era persa nelle acque tormentate del fiume che ebbe pietà e ce la restituì poco alla volta.
Una scarpa con il tacco, la borsa, la sciarpa. Poi, due settimane più tardi, il corpo.
Lo trovarono alcuni ragazzini che facevano il bagno per sfuggire alla calura ostinata di marzo.
Io non la vidi. Mi permisero una visita soltanto quando me la nascosero in una cassa già chiusa. Mi dissero che, al momento del ritrovamento, aveva gli occhi vuoti e il corpo gonfio, abitato da migliaia di larve in movimento. Ciò che restava delle sue mani, stringeva ancora il cappello di paglia che portava nei giorni di sole, quello con le rose che le avevo regalato per il suo compleanno.
Fatico a immaginare il suo viso deturpato dall’acqua e dagli insetti di palude, anche se quella visione abita i miei sogni da allora.
«Non ci vengo con te al fiume.» Mi aveva detto dopo l’ennesimo litigio. Negli ultimi tempi discutevamo spesso, come se qualcosa fra noi si fosse rotto. Eppure continuavamo a fare l’amore, a volte con rabbia, altre con una dolcezza disarmante. Fra una pausa e l’altra, smettevamo di vivere.
Serafina era bellissima. Non so trovare parole migliori. Mi dava l’illusione di averla e, nello stesso istante, me la strappava via, lasciandomi annaspare nel vuoto. Più mi respingeva, più io la desideravo. Mi mancava l’ossigeno. Respiravo di lei e dei suoi passi rapidi nonostante le scarpe alte, che portava sempre, persino d’estate.
La prendevo da dietro e lei mi scostava senza guardarmi. «Falla finita che c’è gente. Ti aspetto più tardi da me.»
Da me voleva dire sulla riva del fiume, al buio, dove facevamo l’amore come piaceva a lei. Io non avevo potere. Ero un uomo-pesce tra le sue mani: scivoloso, inutile, boccheggiante.
«Come faccio ad averti sempre?»
«Semplicemente, non puoi.»
Ma quelle sere al fiume finirono. Poi venne il giorno del ritrovamento. Uno dei ragazzini mi raccontò che il viso di Serafina era premuto contro la terra, mentre il corpo giaceva in acqua. Pensai a uno straccio usato e gettato lì per caso.
Serafina amava vestire di giallo e diceva che quel colore esaltava la sua pelle d’ebano, di una tonalità così intensa da sembrare innaturale. Era nera come le notti senza stelle, quando non sai orientarti nel monte e ti serve una mano da stringere e qualcuno che ti rassicuri e ti dica che presto ritroverai la strada.
Allo stesso modo, io avevo bisogno di lei per tornare a casa. La casa del suo ventre bruno, l’unico approdo che desiderassi. Allora lei afferrava la mia mano, se la portava fra le cosce e sussurrava: «stringimelo forte». E io facevo sempre come voleva. Sempre.
La domenica l’accompagnavo in chiesa, perché così lei desiderava. Io accettavo solamente per poterle cingere la vita e osservare gli sguardi degli uomini posarsi sulle sue caviglie sottili, in bilico sui tacchi alti. La polvere attenuava il lucido delle scarpe e toccava a me rimuoverla prima di varcare la soglia dell’edificio, restituendo alla vernice il suo splendore. Mi chinavo e le sollevavo delicatamente il piede, appoggiandolo sul mio ginocchio. Compievo quel gesto senza fretta, meticolosamente, così che lei potesse fare il suo ingresso in chiesa sentendosi una regina. La mia regina.
Serafina cantava con voce d’angelo. Lo faceva durante la funzione, e dopo l’amore, lo faceva per me. Intonava i boleros alla moda, accompagnandosi con una musica che viveva soltanto nella sua testa. Chiudeva gli occhi, inclinava appena il capo, poi dischiudeva le labbra e lasciava uscire il suono rauco della sua voce maschile.
Posso ancora sentire sotto le dita la cicatrice ruvida che le taglia la coscia. Me la lasciava accarezzare, dall’alto in basso, e poi ancora. Viola, sulla sua pelle scura, calda e odorosa come un frutto maturo. Una volta mi disse: «leccala». Sapeva di ciruela, acida e dolce allo stesso tempo.
Questa è la mia Serafina, ciò che ricordo di lei. Ma non conta. Conta solo quello che fu messo agli atti, quello che venne letto ad alta voce in tribunale.
***
«La sala puede sentarse. Se reanuda la audiencia en el proceso seguido contra el ciudadano Luis Antonio Perrota. Procederé a dar lectura a la sentencia…
Repubblica di Colombia – Tribunale Penale di Magangué, Bolívar.
Il giorno giovedì venticinque del mese di ottobre dell’anno millenovecentosessantadue, questo tribunale emette la seguente sentenza nella causa contro il cittadino Luis Antonio Perrota.
È risultato agli atti che la vittima, conosciuta come Serafín Aguilar, scomparve tra il due e il tre di marzo dell’anno in corso, in circostanze rimaste oscure.
Risulta dal fascicolo che il corpo venne rinvenuto il diciassette marzo, in stato di avanzata decomposizione, da alcuni ragazzi che facevano il bagno nelle vicinanze della zona paludosa de La Mojana.
Le indagini hanno accertato che l’imputato condusse la vittima fino a un tratto isolato e fangoso della riva. Non si è potuto stabilire se fosse già ferita o soltanto indebolita, ma il medico legale ha dichiarato che era ancora in vita quando fu lasciata nell’acqua.
In quel momento, l’imputato omise di prestare soccorso, lasciando che il corpo di Serafín Aguilar rimanesse in balia della corrente, la quale lo trascinò e lo occultò per circa due settimane tra rami e detriti sommersi, fino al successivo ritrovamento.
Dopo i fatti, l’imputato si diede alla fuga, vagando per lo Stato senza meta finché venne individuato, catturato e tradotto davanti a questa Corte.
Per quanto accertato, il Tribunale di Magangué, in nome della Repubblica di Colombia e per autorità della legge, dichiara Luis Antonio Perrota colpevole dell’omicidio di Serafín Aguilar e del successivo occultamento del cadavere, e lo condanna alla pena della reclusione perpetua, da scontarsi in carcere ordinario, senza possibilità di riduzioni o benefici.»
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“Questa di Marinella è una storia vera, che scivolò nel fiume a primavera…”. Lavorando per associazioni, leggendoti, non riesco a fare a meno di pensare a questa canzone (che tra l’altro era davvero ispirata ad una storia vera). Il tuo personaggio potrebbe tranquillamente essere uscito dalla penna di De Andrè.
Grazie ☺️ adoro questo paragone che fai, o meglio, lo adorerei se fosse appena possibile. Ma chi può avvicinarsi a quella penna?
La storia di Marinella è davvero triste, forse squallida, e questo rende l’animo di De Andrè ancora più nobile per averne riscattato l’onore e la memoria. Ma lui era così, semplicemente un poeta.
Grazie di cuore per la tua lettura.
Potentissimo e bellissimo, come sempre ❣️
Grazie Sabrina, mi fa davvero piacere ricevere un tuo commento 🙂
Allora lei afferrava la mia mano, se la portava fra le cosce e sussurrava: «stringimelo forte.»
La frase in questione.
🧡
Ho estrapolato questa frase non per la sua sensualità – rileggendola, tuttavia, devo ammettere che ne è pregna – neanche per la sua bellezza – sono tutte figlie tue, frasi ugualmente belle da non dover stilare una classifica – semplicemente perché c’è un punto che mi ha colpito, un punto fuori posto. Ti ho colta in fallo, finalmente ho trovato un neo, anche tu sei umana. Cristiana, il punto in questione è che il punto, quando il verbum dicendi precede il dialogo ed è introdotto dai due puntini, va inserito esternamente alla caporali. Mi vergogno a dirtelo, è solo per ribadire che per tutto il resto non c’è un punto del racconto dove si potrebbe fare di meglio. Un admirador meticuloso (Volevo dire puntiglioso, ma il traduttore automatico me l’ha tradotto in meticoloso, gli spagnoli non sono puntigliosi, sono solo meticolosi).
Caspita, caro Ammiratore Puntiglioso, mi hai colta (non finisco la frase per evitare doppi sensi con la frase incriminata, appunto 🙄)
E corro subito a sistemare 😅
Per fortuna che le parole dal doppio senso abbondano nella nostra lingua, altrimenti come scribacchino avrei chiuso bottega. Bottega! Fabius la lampo, la lampo!
😅😅😅 Vedi, gira che ti rigira…
E grazie per la tua lettura (attentissima) ☺️
p.s. Ce n’era un secondo che ho trovato grazie alla tua indicazione. Due a zero per te ☺️
Ciao Cristiana! Il titolo è azzeccatissimo per questa tua altra perla di racconto👏🏻 Il corpo, visto nelle sue varie angolazioni: oggetto sessuale, ossessione, specchio marcescente del nostro inevitabile destino, corpo del reato, emblema della violenza. Hai saputo adattarlo a tutte queste forme con un racconto breve e dal ritmo perfetto🤗
Un racconto che colpisce come un pugno e allo stesso tempo lascia addosso un’ombra lenta, silenziosa. La prima parte è un canto d’amore disperato. Serafina vive e la immaginiamo attraverso ogni dettaglio, i suoi tacchi, la sua pelle, la voce che canta, i gesti piccoli e solenni di chi la adora come una divinità fragile e feroce. Si sente il desiderio che divora, che annulla, che consuma. E proprio mentre ci lasciamo ipnotizzare da questa immagine luminosa e carnale, arriva il tribunale: parole fredde, asciutte, che cancellano tutta la passione e riducono una vita a un fascicolo, a una pena scritta su carta. È come vedere un cuore ancora caldo finire chiuso in un sacco di plastica.
È questo contrasto a rendere il racconto così potente. Da un lato l’amore ossessivo, la memoria personale, piena di carne e sangue; dall’altro la giustizia impersonale, che non guarda dentro, che non ricorda chi fosse davvero Serafina. È una storia che non consola, non assolve, ma resta dentro.
Cruda, struggente, bellissima.
Già te l’hanno detto che sei una scrittrice con i fiocchi?
Cara Cristiana, quanto mi sono mancati i tuoi scritti, quelli come questo che mi hanno fatta avvicinare alle tue storie.
Come a Serafina, lasciano sempre una cicatrice, ma nel cuore: la bellezza della donna d’ebano, la sua grazia e la sua voce strappate via e ridotte ad una tana per larve, tutto questo perchè ha amato. Spesso mi domando se anche chi toglie la vita è stato in grado di amare, anche solo per un istante, e cerco di risalire al momento esatto in cui quel sentimento è diventato il grembo di orribili intenzioni.
Spesso ho la sensazione che, mentre leggo, compaiano dei colori e che cambino in base agli eventi: il giallo in contrasto con la pelle nera di Serafina, il bianco del suo sorriso, il lucido delle scarpe, poi il violaceo della pelle gonfia, il beige delle larve e quel grigiore delle parole durante la sentenza.
Forse questo dipende dalla tua abilità nel non palesare banalmente, ma di lasciare una sensazione sotto pelle: un sussurro che ci rivela l’umanità dei tuoi personaggi attraverso i loro stessi occhi.
Grazie Mary per questo commento bellissimo!
Mi fa davvero piacere che tu abbia notato i colori. Mi piace usarli soprattutto quando racconto storie di abuso e di violenza, che poi, a mio avviso sono anch’esse forme d’amore. Amore malato, disturbante, sbagliato, che però possiede anch’esso i suoi colori.
Credo che tu ponga una domanda più che legittima quando ti chiedi quale sia il momento esatto in cui l’amore diventa grembo di orribili intenzioni.
Io, naturalmente, una risposta non ce l’ho, eppure quel momento deve esistere davvero.
Sei stata la mia compagnia in una serata ancora calda tra accenti e cantilene che ascolto solo nei film e quasi mai dal vivo. Grazie, una compagnia genuina che mi mancava da un po’.
Grazie a te Roberto. Magari non proprio la storia accomodante, quella che coccola. Ma a noi, quelle li non ci piacciono 🙂
Un abbraccio
Insomma, hai deciso di lasciarmi col fiato sospeso fino alla fine! Ti prego, dimmi che questo racconto non è tratto da una storia vera🙈 anche se di storie simili, purtroppo, ce ne sono state tante. La descrizione del cadavere è una di quelle cose che difficilmente riuscirò a dimenticare. Brava! ❤️
Ciao Arianna. Questo racconto non è tratto da una storia vera anche se, come bene fai notare tu, purtroppo l’ispirazione non manca 🙁
Fa parte di quei racconti che arrivano e per cui senti l’urgenza di metterli sulla carta. Ammetto che, per quanto riguarda il fatto di dare voce al giudice, ci ho pensato invece sopra parecchio. Non sapevo, a un certo punto, come venirne fuori. Felice che sia riuscito.
Grazie 🙂
Questo brano è un pugno al cuore, un perfetto esempio di come la verità giudiziaria e la verità umana siano due entità profondamente diverse, separate da un abisso di dolore.
La scelta narrativa è magistrale: l’alternanza tra le due voci, quella privata, sensuale e devastata dell’innamorato e quella fredda, impersonale e burocratica del tribunale, crea una dissonanza che costituisce il vero centro emotivo della storia.
Come spesso mi capita di notare in casi simili, l’orrore più grande non risiede solo nella morte della vittima, ma nel suo processo di spersonalizzazione. La giustizia umana può punire un colpevole, ma non è in grado di raccontare una vita. La sentenza, sebbene giusta nel suo verdetto, cancella Serafina per la seconda volta, trasformandola da persona in un mero caso giudiziario.
Complimenti, hai scritto un’altra bella storia.
Hai perfettamente ragione quando dici che ‘la giustizia non è in grado di raccontare una vita’ e spesso lo fanno, direi malamente, i media.
Nella storia, è la persona innamorata a parlare di Serafina. Poi, l’innocenza o colpevolezza, in questo caso, dell’uomo, diventa un caso giudiziario. Io, ho preferito ‘mostrare’ l’umanità dei personaggi.
Grazie di cuore Tiziana.
È sempre la carnalità distorta a premere la testa di una vittima nel fango di un fiume di qualunque posto. Non so se dipenda dalla stessa visione confusa e contorta del desiderio di possedere integralmente quell’animale sacrificale, di renderlo, in un qualche modo, eternamente proprio.
Non posso negare quanto sia bello il contatto della pelle contro la pelle, della passione addolcita dalla trasgressione e, soprattutto, da quel sentimento di amarezza per la mancata fusione della carne, credo che se potessero, coloro che amano in modo tanto perverso, assorbirebbero i soggetti che abitano la loro fantasia deforme. Nel mondo camminerebbero degli ecatonchiri, mostruosi ed enormi, composti da centinaia di corpi amati alla follia. Nessuno mi toglierà dalla testa che l’umanità sia composta da tantissimi esseri stupidi, noi stessi vittime delle bramosie create da altri.
E tu, Cristiana, riesci a svelare egregiamente le cicatrici che sanno di susino che ognuno di noi possiede. ♥ La mia cicatrice sulla fronte dovrebbe sapere di “sbeggio”, una pesca nettarina piccola e bianca che adoro :D.
C’è un film dell’attore Chalamet, particolarmente bello che s’intitola ‘Bones and all’, dove si esplicita in maniera molto diretta, il concetto che tu hai espresso così bene. L’amore è forse desiderarsi in maniera così estrema da finire col mangiarsi? E ancora. Quale è il limite fra ciò possessione e amore?
Ammetto, un tema che mi affascina e che spesso tento di sviscerare nei miei racconti.
Grazie Emi per questo commento pazzesco che mi ha fatto venire voglia di riguardarmi il film. Lo consiglio anche a te 🙂
Scherzi? Stai parlando a un divoratore di film, non conosco quello che hai citato tu nel commento, ma l’ho appena aggiunto alla mia lista di titoli da guardare! ♥
Credimi, un piccolo gioiello che sviscerare il concetto del mangiare e mangiarsi come metafora di un rapporto ‘malato’. Poi, fammi sapere se ti è piaciuto ☺️
Un racconto affascinante che mescola pensieri e sentimenti a una sentenza. Ho pensato: “non può essere stato lui, non dalla dolcezza con cui ne parla”, ma forse è proprio questo uno dei punti di forza del racconto, mostrare l’altra faccia di un assassino, il dietro le quinte. Riuscire a mettersi così bene nei panni di certi personaggi scomodi è indice di grande bravura e di tantissima sensibilità. Complimenti come sempre!
Ciao Melania. Credo che la sensibilità debba stare sempre alla base di ogni giudizio. Ho immaginato persone, anche giovanissime, accusate o già reo confesse di delitti spaventosi. Mi sono chiesta come si possa giudicare prescindendo dal loro vissuto, dal trascorso, dal loro animo. È chiaro che, di fronte a un delitto, non si può fare altro che condannare il gesto e piangere chi non c’è più. Tuttavia credo che la base della salvezza di una società sia proprio la prevenzione e quindi la ‘comprensione’ del perché una persona arrivi a tanto. Quale sia il suo disagio, così da poterlo evitare ad altri.
Per quanto riguarda il mettersi nei panni dei personaggi ‘scomodi’ sia più semplice se ci si mette in ascolto e li si lascia parlare.
Grazie di cuore.
Ciao Cristiana.. questo tuo racconto non è di facile assimilazione, pure se scritto con apparente semplicità.. la lunga e accorata non-confessione di Luis viene azzerata dalla sentenza del tribunale.. ma è veramente lui l’assassino dell’amante..?
Ciao Furio. Io non lo so se è proprio lui l’assassino e la risposta oggettiva che potrei darti, cozzerebbe con quella personale che viene dalla pancia.
Mi piace esplorare i limiti dell”amore’ che, nel mio immaginario, continua ad avere molteplici facce ed espressioni. A noi raccontarle al meglio che possiamo.
Una delle tante storie di violenza di genere, dovuta, forse, ai conflitti passionali di un amore possessivo che era o é diventato, la negazione stessa dell’amore. Tu riesci abilmente a raccontare i fatti quasi con distacco, senza voler condizionare il lettore, senza interferire. Una scelta rispettosa. Io da lettrice, e spesso anche quando scrivo, sono tentata di schierarmi, di prendere posizione, per distinguere il bianco dal nero o dal grigio, come faccio quasi ogni giorno, anche nella mia vita quotidiana. Mi ostino a voler riconoscere il buono dal cattivo, la vittima dal carnefice, l’ innocente dal colpevole o dal complice, anche se una distinzione netta, in realtà non sarebbe mai giusta del tutto. In fondo siamo noi, con i nostri occhi, la nostra mente e il nostro vissuto, che valutiamo, giudichiamo e condanniamo senza riuscire a comprendere mai sino in fondo. Anche se capire non significa dover per forza giustificare. Mi chiedo, quindi, e ti chiedo: per un romanziere, aspirante, emergente o di successo, la neutralità nella narrazione fino a che punto puó essere considerata una scelta dell’ autore, un’esigenza soggettiva o un requisito doveroso?
Non dico che questo dubbio mi tormenta, ma certe volte mi mette un po’ in crisi. Ultimamente sto cercando di classificare i caratteri dei protagonisti in base alle impressioni che suscitano in altri personaggi, spesso molto diverse tra loro.
Scusa il commento prolisso, indotto anche dalla lettura di questo tuo atteso e ottimo testo.
Grazie di cuore Maria Luisa per il tuo commento sentito e articolato. Ci sono davvero molti spunti a partire dai quali potremmo perderci in lunghissime e sentite conversazioni.
Mi interessa molto rispondere però alla tua domanda relativamente alla mia neutralità di fronte a fatti che sono sconvolgenti e spesso raccapriccianti. Mi viene, ad esempio, in mente ‘Romanzo d’amore’ dove, forse, ho raggiunto il limite consentito lasciando che fosse la prostituta a parlare a ruota libera del proprio disagio, delle frustrazioni, della violenza e del dolore fisico, senza filtri.
Non so dirti esattamente se si tratta di una scelta o di un’esigenza. Forse entrambe, anche se più la seconda.
A volte penso a romanzieri di successo, legati alle leggi di mercato, che sfornano ‘cibi pronti’ per chi li vuole leggere e per loro scatta la regola del requisito doveroso: dare al proprio pubblico ciò che esso vuole avere in pasto.
Noi abbiamo la fortuna di non appartenere a questa categoria, siamo piuttosto spiriti liberi di esprimerci come la nostra anima ci indica, come fosse, appunto una nostra esigenza. Pertanto, credo la risposta corretta sia proprio questa.
Per quanto riguarda la scelta di lasciare che siano i personaggi a ‘guardarsi’, credo sia ottima. Diventa una sorta di spinta soggettiva spalmata su punti di vista interni e differenti e credo restituisca la visione di un personaggio completa e circolare. Mostra differenti facce al lettore che poi è libero di immaginare per sé. Che bella la scrittura, Maria Luisa 🙂
Grazie Cristiana, la tua risposta mi sostiene nel cotinuare dando voce e microfono – e se necessario anche un megafono – ai personaggi dei nostri racconti. Toni diversi, gruppi univoci, solisti e voci fuori dal coro.
“Mi dissero che, al momento del ritrovamento, aveva gli occhi vuoti e il corpo gonfio, abitato da migliaia di larve in movimento.”
Una descrizione molto efficace, che richiede forza d’animo per metterla nero su bianco, senza fronzoli.
Si. Ci ho pensato e ho immaginato quel povero corpo abbandonato in un fiume in una stagione caldissima. Non mi è sembrato giusto addolcire l’immagine. Perché farlo quando stiamo parlando di violenza? Meglio vedere le cose come sono.
Ho ritrovato qui un particolare che della tua scrittura amo tantissimo: la capacità che hai di mostrare il lato umano, spoglio da giudizi e sentenze. Senza puntare il dito, senza costringerci a prendere posizione, tu ci dai la possibilità di “capire” l’essere umano in ogni sfumatura, in ogni gesto, che siano i migliori o i peggiori. Credo sia un dono rarissimo, e una fortuna poterti leggere e capire❤️
Grazie di cuore Irene 🌹
“Allora lei afferrava la mia mano, se la portava fra le cosce e sussurrava: «stringimelo forte.»”
Meravigliosa. È lei, il suo Serafin. Che modo sublime di raccontarcelo.
Una frase appena appena cambiata, quel giusto, in dirittura di arrivo. Felice che ti sia piaciuta.
“Fatico a immaginare il suo viso deturpato dall’acqua e dagli insetti di palude, anche se quella visione abita i miei sogni da allora.”
Eccola, l’altra faccia di qiesto amore, o almeno cosi mi è piaciuto intenderla. Mi aveva gia colpita alla prima lettura, quale innamorato ben sopporta il volto morto dell’amata?
Ci sono tornata dopo avere letto la seconda parte. Ho ricordato di aver sentito dire che spesso gli assassini, presi da rimorso o da un legame con la vittima, la sistemano, le coprono il viso. Quando ho letto che era stata lasciata in acqua ancora viva, mi è sembrato di scorgere (non so se fosse volontaria o meno) in questo passaggio un trait d’union tra l’innamorato e il carnefice. Due volti dello stesso amore.
Ciao Irene, dimostri sempre da lettrice una profonda sensibilità. Ho effettivamente pensato a quella sciarpa che lei portava, appoggiata sul volto, come un ultimo gesto di pietà. Poi, però, ho pensato anche che la teatralità poco appartenga, purtroppo, alla realtà dei fatti di molti delitti passionali che spesso invece è terribilmente cruda. E così, l’ho semplicemente lasciata lì, con la faccia nella terra.
I ‘due volti dello stesso amore’ calza benissimo. Quell’aspetto così controverso di cui spesso ci ritroviamo a parlare, a farci domande l’un l’altra senza avere mai una risposta da dare, se non le nostre emozioni. E altre domande alle domande. E via così.
Con questo racconto volevo aggiungere un altro tassello, forse inutile, a questa ricerca infinita.
Un abbraccio.
Pregevole come sempre cara Cristiana. Un amore preteso e, forse, conteso. Un amore probabilmente fuori dai canoni della “normalità” degli anni 60. Un omicidio passionale? Forse. Tu non dai certezze, la sentenza non è tua e Luis non grida la sua innocenza. Povero Serafin, povera principessa incompresa.
Ho provato lo stesso sentimento di compassione per Serafin e, ammetto, il mio desiderio è sempre quello di suscitare nel lettore quell’amore che ogni umanità tormentata si merita.
Credo che non sia poi così difficile sapere dove stia l’innocenza.
Grazie di cuore Giuseppe.
Un racconto tagliente, intriso di una sensualità di dolore estenuante, ma perfettamente focalizzato nella sua dimensione di pura intensità. Il tuo processo percettivo nell’organizzare la scena, con i suoi strati e affluenti, attraversa tutti i sensi, li inonda e non li acquieta, utilizzando, con maestria, l’angolazione fobica di un punto di vista in perenne bilico. Complimenti di cuore, Cristiana. Un saluto.
Grazie Luigi. Apprezzo molto il tuo commento in quanto, terminare il racconto senza variare il punto di vista, sarebbe stato molto più facile: una sorta di lungo flusso di coscienza che funziona, ma poi stanca o, comunque, non soddisfa. Portare il lettore in un’aula di tribunale mi è sembrata una soluzione più originale. E, soprattutto, aiutarlo a di dubitare della sentenza.
“Era nera come le notti senza stelle, quando non sai orientarti nel monte e ti serve una mano da stringere”
Un passaggio straordinario.
Grazie 🙂
“Pensai a uno straccio usato e gettato lì per caso.”
Però questa frase potrebbe dirimere il problema: “Pensai” dunque forse non era lì.
Potrebbe…D’altronde le parole hanno il loro peso 🙂
Non è noto il nome del ragazzo che ne era innamorato. Mi sono chiesta se è come penso o se mi sbaglio.
Due Serafina: Serafina e il suo doppio, il suo corpo. Mentre la prima si muove nelle dinamiche imprevedibili della vita e dell’amore, il secondo viene sezionato dagli anatomo-patologi e incluso in categorie giuridiche che classificano e condannano. Sono e non sono la stessa cosa.
Quel ragazzo potrebbe essere il trait d’union? Ma tu stessa lasci aperta la questione. In effetti, se non per i giudici e per chi l’amava, la domanda ha poca importanza.
Mi piace sapere che un mio racconto possa suscitare così tanti dubbi. Sappi che lo stesso succede a me. Ossia, quando mi ritrovo a scrivere storie di vita, spesso mi capita di dovermi mettere in attesa e aspettare che i fatti mi vengano ‘raccontati’. Magari suona strano, ma capita che noi che scriviamo non abbiamo ben chiaro l’insieme. A me va bene così e soprattutto cerco sempre di restarne abbastanza fuori e lasciare da parte i giudizi.
Questo per dirti che non ho risposte alle tue domande, solamente il piacere di condividere con te i dubbi.
Grazie Francesca per i tuoi commenti sempre stimolanti.
Ciao Cristiana, un brano suggestivo che dalle prime righe mi ha catturato. Benché non sia specificato, appare chiaro che chi sta raccontato è pure dietro il banco degli imputati nel processo, credo grazie a una sapiente conduzione della narrazione, e con la stessa naturalezza si svela la connotazione sessuale della vittima. Lasci poi completamente aperta all’immaginazione del lettore una parte apparentemente importante (nella circostanza di un crimine): se sia davvero stato lui, perché abbia commesso quell’omicidio… ma penso che qui stia davvero la genialità di questo racconto, dare luce a emozioni e sentimenti, piuttosto che alla razionalità. Grazie davvero per la lettura
Grazie a te Paolo.
Fa sempre parte di quel gioco del mostrare e non mostrare che mi piace tanto anche da lettrice. E poi, hai perfettamente ragione quando parli del dare luce alle emozioni piuttosto che alla razionalità. Sono fatta così 🙂
Bello. Anche a me è capitato di immaginare quali possano essere i pensieri di un assassino, ma non con questo risultato. Molto, molto bello.
Mi piace comunque pensare che sia comunque valido il beneficio del dubbio. Ho volutamente tolto il senso di colpa per lasciare libero il pensiero del lettore.
Grazie Rocco.
Se non lo hai già fatto c’è un romanzo di Simenon che vale la pena di leggere: “lettera al mio giudice”.
Non l’ho letto e ne approfitto. Grazie per il consiglio!