
Il corredo delle mie insicurezze
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Cambiamenti
- Episodio 2: Il rivolo sottile
- Episodio 3: Sfide
- Episodio 4: Quei paesi che finiscono per ATE
- Episodio 5: Punti di osservazione
- Episodio 6: Nessuna ragione per non farlo
- Episodio 7: Qualcosa in comune
- Episodio 8: Non oggi
- Episodio 9: Svolte
- Episodio 10: Per la prima volta
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
- Episodio 8: La bottiglia vuota
- Episodio 9: Fotografie
- Episodio 10: Non dirlo a nessuno
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
- Episodio 3: Inciampi
- Episodio 4: Il corredo delle mie insicurezze
STAGIONE 1
STAGIONE 2
STAGIONE 3
La mattina dopo, seduto questa volta ad uno dei tavolini vicini a dove l’acqua del fiume si allunga e si ritira, mi sono sfondato di Butterpretzel, insaccati, uova, ho innaffiato il tutto con latte e caffè in abbondanza e dopo avere pagato e ringraziato ho salutato l’albergo e la città .
Al contrario di quello che dice di provare Michael Stipe quando se ne va da New York, ho lasciato Tübingen senza grossi drammi e in qualche modo più consapevole di quanto non fossi il giorno del mio arrivo. Tanto lo sapevo che sarei tornato. Come si torna sempre da quella donna che proprio non riesci a scrollartela di dosso, e che lei non riesce a scrollarsi di dosso te.
C’è sempre quel monito che mi riecheggia in testa quando vado via. Di avere ancora delle cose lasciate in sospeso qui. E anche se è vero che nella vita mi sono arreso tante volte, questo è un lavoro che non voglio lasciare a metà . È questa la differenza fra il tornare a casa dopo una vacanza e tornare a casa dopo essere stato qui.
Quando sono sceso nel garage dell’albergo per caricare la borsa sul serbatoio e tirare giù Greta dal cavalletto, si è comportata come la gran signora che è. Tante avrebbero storto il naso, fatto le offese per essere state mollate da sole così tanto tempo, ma lei non ha fatto un fiato. Due pressioni del pulsante d’accensione, come da contratto, e siamo partiti come se ci fossimo visti un quarto d’ora prima. Sono uscito piano dalla rimessa, le ho dato il tempo di scaldarsi per bene e proprio nel momento in cui ho percepito che era ormai pronta ad andare su di gas, mi sono fermato ad una stazione di servizio e l’ho ripagata della pazienza con un pieno di benzina a 98 ottani. Costasse quel che doveva costare, se l’era meritato.
Entro sera avrei dovuto oltrepassare nuovamente il confine con l’Austria, questa volta seguendo un altro percorso, più ad est rispetto al precedente, una specie di anello che per quel giorno si sarebbe interrotto a Reutte, nella parte più settentrionale del Tirolo. Nemmeno duecentocinquanta chilometri di strada, cinque ore scarse, roba che i miei amici minchiociclisti, quelli veri, quel tratto se lo farebbero con la destra sull’acceleratore e la sinistra che tiene aperto un libro. Così, per emularne anche solo alla lontana le gesta ed avere una risposta da fornire alla domanda che di certo mi avrebbero posto (Come cazzo hai fatto a metterci tutto il giorno per fare duecento chilometri? – Quasi duecentocinquanta – È uguale) mi sono fatto il giro dei castelli che non ero riuscito a visitare la mattina precedente per via del tempo.
Ho viaggiato sotto un cielo sconfinato, che fatta eccezione per i primi chilometri percorsi è stato costantemente sul punto di piovere senza però mai dare seguito alla minaccia, trafitto qua e là da pochi raggi di sole introversi. Un cielo che ha dominato fitte coltri di alberi, innumerevoli e nerboruti, facendoli apparire nonostante tutto minuscoli a confronto della sua vastità .
Attraversato il confine austriaco mi ha preso di nuovo una sorta di spaesamento nel constatare quanto fulmineamente siano in grado di mutare le cose. Proprio nell’esatto momento in cui si è abituati ad una determinata condizione, quella ti cambia sotto il naso nell’arco di un giro di ruote.
Non ho avuto comunque modo di rimuginare più di tanto sulla questione, perché pochi minuti dopo io e Greta abbiamo fatto il nostro ingresso a Reutte.
Sin dalla prima mattina ho avuto un sentore bizzarro in merito al posto in cui sarei dovuto andare a dormire. Forse perché è stato l’unico fra quelli prenotati a non avermi mai contattato, unito alla difficoltà di trovarlo persino col navigatore.
Ma Reutte è tutto fuorché Calcutta in termini di grandezza, e con l’aiuto delle fotografie che avevo visto su internet sono riuscito ad orientarmi e trovare l’alloggio, mentre nuvoloni neri rigonfi di rancore manifestavano tutto il loro disappunto tuonando all’umanità intera l’imminente e definitiva perdita della loro pazienza.
Sono sceso dalla moto lasciandola a raffreddarsi nell’ampio piazzale del piccolo albergo, una porzione rettangolare di asfalto che sembrava essere stata partorita per sbaglio dalla betoniera in mezzo a tutto quel verde uniforme, ai piedi delle prime montagne che si frapponevano tra me e la strada di casa da quando avevo iniziato il viaggio di ritorno.
La luce del giorno era ancora lontana dal dissolversi mentre suonavo il campanello intarsiato ai lati della porta d’ingresso. Ciononostante, l’assenza di un’insegna accesa deponeva a sfavore della mia naturale tendenza alla ricerca della tranquillità , e la totale immobilità all’interno percepibile attraverso le vetrine della sala ristorante completava il corredo delle mie insicurezze.
Ho insistito ancora un paio di volte sul campanello, prossimo alla convinzione di dovermi cercare un altro posto per dormire e dover litigare via mail per farmi ridare indietro i soldi versati in anticipo, quando mi è caduto l’occhio nell’angolo in basso a destra, dove su una lavagnetta d’ardesia era scritto di chiamare il tale numero una volta arrivati in struttura.
Obbedito alle istruzioni, una Subaru matura il giusto per lo sfasciacarrozze si è presentata al mio cospetto in una manciata di minuti, dalla quale è scesa una donna il cui taglio degli occhi a fessura mi ha fatto sospettare fosse della parte più squisitamente orientale del Tirolo. In un tedesco dalla pronuncia degna della prostituta vietnamita di Full Metal Jacket mi ha chiesto se volessi ricoverare Greta nel box della struttura. Accettata la proposta, la donna ha immediatamente tolto dalla rimessa un fuoristrada per fare posto alla mia moto.
Chiusa la serranda del garage, mi ha guidato sino al secondo piano di un hotel in miniatura completamente vuoto, i cui corridoi zeppi di fiori rilasciavano nell’aria un sentore dolciastro di pompe funebri, comunicandomi che avrei avuto la struttura tutta per me quella notte. Mentre scendeva le scale da sola, lasciandomi lì sulla soglia della mia camera, mi ha dato appuntamento al mattino successivo per la colazione. Poi l’ho sentita salutarmi dal pianterreno, richiudendosi la porta d’ingresso alle spalle.

Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
- Episodio 3: Inciampi
- Episodio 4: Il corredo delle mie insicurezze
Ciao Roberto! Si risale in sella, il motore l’ho già scaldato: pronto a seguirti, fai tu il passo. Grazie per la lettura
Non so quanto possa essere vantaggioso avere un piccolo hotel vuoto, a completa disposizione dell’ unico cliente. La tua descrizione fa sembrare ambigua e un po’ inquietante la situazione. Io da sola non ci sarei rimasta. Mi chiedo se anche l’atmosfera all’ interno camera sia stata poco rassicurante e piacevole quanto un’interminabile notte in bianco.
Aspetto il prossimo episodio con curiositâ.