
Il Dono
Lui cammina a testa bassa tra la gente. Ormai non osa nemmeno più guardare i volti delle persone che incontra. Gli specchi a casa sua sono spariti già da tempo. I suoi “amici” (così si autodefinivano quelle persone divenute degli estranei che ogni tanto si facevano vivi in passato) li sente solo per telefono.
Non era stata una scelta di vita voluta, lui non era un asociale per vocazione. Il fatto è che fin da piccolo aveva un dono…che lui però aveva imparato a riconoscere per quello che era realmente: una maledizione. Mentre ripensa a tutte queste cose, urta inavvertitamente un distinto signore che cammina sul marciapiede in direzione opposta alla sua:
«Attento a dove vai!» lo apostrofa il tizio.
Lui, come se risvegliato da un sonno farcito di incubi, alza la testa senza pensarci, e per un attimo il suo sguardo incontra quello dell’uomo nel quale si è imbattuto. Guarda nella sua direzione, ma non lo vede: davanti a sé vede un letto di ospedale, dove giace questo stesso uomo, con 5 o 6 anni in più, una serie di aghi nel braccio destro ed una cannetta nel naso. E dietro di lui un monitor, sul quale una linea smette di oscillare per trasformarsi in una striscia piatta, immobile come il suo petto, ed i suoi occhi sbarrati guardano quel buio che prima o poi tutti vedremo. Lui si strofina gli occhi, per cancellare le tracce di quell’immagine, mentre risponde:
«Mi scusi» quasi mormorando, e come se la sua voce uscisse per conto proprio, un suono senza alcun legame con quel cervello che dovrebbe guidarla.
Prosegue a camminare, guardandosi attorno solo ogni tanto, vedendo le sagome che lo circondano (anche due persone gli sembrano una folla), e riuscendo sempre ad evitare di incrociarne gli sguardi.
Arriva al parco, dove improvvisamente qualcosa lo colpisce alle gambe.
«Ehi, tu! Ridammi la palla!»
Gli grida un bambino. Avrà più o meno dieci anni, ma l’aria molto sveglia. Mentre gli ripassa la palla, lui lo vede bene in viso.
«Merda.» Pensa, più stanco che impressionato, mentre vede quello stesso bambino a diciassette anni, che col suo motorino si infila ubriaco (ma lui non lo sa che quella sarebbe stata la prima – ed ultima – sbronza della sua vita) nel parabrezza di un auto, sfondandolo e sfondandosi costole, polmoni e stomaco, più qualche altro organo, e inondando del suo sangue la donna che siede al volante.
Lo guarda ancora un po’, mentre il ragazzino riattraversa la pista ciclabile, facendo sbandare e frenare i ciclisti che lo rimproverano. Sta per gridargli di stare attento, ma si trattiene. «Tanto, a cosa servirebbe?» Si chiede.
Prosegue per la sua strada, esce dal parco, incontra altra gente, per lo più ne vede i piedi, al massimo il torace, a volte vede qualche volto: quello di un diabetico che morirà di lì ad un paio d’anni; una bambina che quando avrà ottant’anni cadrà dalle scale rompendosi l’osso del collo; un tassista che grazie ad un colpo di sonno lascerà vedova sua moglie ed orfani i suoi figli.
«Ma sarà sposato?»
Si chiede lui, che non sa più dove finiscono le visioni ed iniziano i ricami della sua immaginazione, ormai troppo abituata a queste finestre sul futuro.
Incontra un bel micio che brucerà le sue nove vite sotto le ruote di un furgoncino, ed un vecchio il cui cuore scoppierà quando un tossicodipendente lo minaccerà con un coltello per due banconote da cinque euro, ed una coppia felice, per lo meno per qualche mese: lui verrà ucciso da un rapinatore nel suo bar, più o meno nello stesso periodo in cui a lei verrà diagnosticato quel cancro alle ovaie che la ucciderà tra cinque anni.
Per fortuna il bambino nel passeggino guarda dall’altra parte: all’inizio, quando considerava questa sua capacità ancora un dono, aveva sviluppato una morbosa curiosità per i destini dei bambini: più avevano da crescere, più lo affascinava scoprire come avrebbero smesso di farlo una volta per tutte.
Ma man mano che questo fenomeno si ripeteva, l’orrore aveva preso il posto della curiosità, come per effetto di un’orribile indigestione di morti.
Ed infine una pietosa indifferenza era quello che gli rimaneva di queste esperienze, che ora cercava di evitare. Ed erano proprio le visioni della futura fine di quelli che ora erano dei bambini, forse per una specie di contrappasso, le uniche che ancora lo turbassero.
Improvvisamente incomincia a piovere.
Improvvisamente, poi? No, probabilmente no, lo stava solo aspettando.
I passi della gente attorno a lui si fanno più veloci, chi non ha l’ombrello (ed è la maggior parte, perché si tratta di un temporale improvviso, di quelli che d’estate ti prendono così senza preavviso e ti fanno cambiare il punto di vista sul mondo almeno tre volte nell’arco di un pomeriggio) si mette a correre, a cercare un riparo rasente ai muri.
A lui non importa: ha ben altro da fare, oggi. Già: lo stanno aspettando in ospedale, è stato chiamato per donare il midollo.
«Il suo midollo osseo può salvare una vita, dalle analisi risulta che lei è compatibile col soggetto che necessita del trapianto» gli avevano detto.
E come rifiutarsi di salvare una vita?
Avrebbe potuto dire di no, avrebbe potuto rimanere in casa, quel giorno…ma sapeva benissimo che non sarebbe andata così, sapeva fin da subito che non si sarebbe tirato indietro.
Ed ora eccolo qui, che cammina a testa bassa sotto il temporale, con la sua borsa in mano, e va a fare il suo dovere.
«Sto andando a salvare una vita.»
Pensa distrattamente, e per un istante, ma solo un istante, più veloce del lampo che in quel momento brucia il cielo sopra le teste della gente, sorride.
Sa già, ma sorride. Che sia orgoglio o rassegnazione non importa, perché il tuono lo riconduce immediatamente alla realtà.
«Ci siamo.»
Pensa davanti all’ospedale.
Guarda a destra.
Guarda a sinistra.
Nessuno.
Il rumore della pioggia battente sulla tettoia dell’ingresso copre la sirena di un’ambulanza.
Un passo avanti.
Ora sta attraversando la strada per raggiungere l’ingresso dell’ospedale, guarda diritto davanti a sé.
Un fulmine improvviso alle sue spalle lo illumina per un attimo, e lui si vede riflesso nella vetrata dell’ingresso.
Si vede negli occhi, e vede con una frazione di secondo d’anticipo sulla realtà ciò che ha già visto, dieci, cento, mille volte: vede l’ambulanza che sbuca improvvisa dalla curva, vede la sorpresa sul volto dell’autista, lo vede cercare di frenare, ma è troppo tardi, e le ruote scivolano sull’asfalto bagnato.
Vede tutto nero, un istante prima che un terribile colpo azzeri tutte le sue visioni e tutti i suoi pensieri.
Forse l’avrebbe consolato sapere che coi suoi organi non una, ma tre persone hanno avuto la possibilità di vivere…ancora per un po’.
Fine.
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Complimenti, un racconto cupo e poetico. Mi ha colpita molto quella sorta di burn out del protagonista, che finisce per sviluppare una forma di indifferenza che altro non é se non un’estrema difesa. Davvero ben scritto!
Ciao Zelda, grazie per essere passata a leggermi, e per questo commento! Dici bene, l’indifferenza sviluppata dal protagonista non è tanto una sua mancanza di empatia, ma una forma di “autodifesa” per non implodere di fronte a tanta sofferenza.
E pensare che ci sono frati che ogni giorno, ogni ora si ripetono “fratello ricordati che devi morire”, asceti e mistici che in ogni tempo, sotto cieli diversi e con fedi differenti hanno inseguito questa coscienza ,per tutta la loro vita questo dono! Spesso senza risultato, perché in genere noi sappiamo di dover morire ma sotto sotto non ci crediamo veramente. Comunque, non riesco a leggere il tuo racconto come un horror, personalmente ho percepito questo dono più come una finestra privilegiata sul vanitas vanitatum che come una dannazione, più come un purgatorio che come un inferno. Per questo -ma non solo per questo- mi è proprio piaciuto.
Ti ringrazio per il bel commento, Remo, condivido soprattutto il “sappiamo che dobbiamo moree, ma sotto sotto non ci crediamo veramente”. Credo riassuma bene l’approccio della maggior parte delle persone alla morte.
Conoscere quindi il proprio destino ed andargli incontro anche se tragico.
È un dono l’atto finale, la morte che genera vita.
È una condanna invece non potersi sottrarre a leggere il futuro di altri, così insopportabile da ricercare la solitudine, in un mondo dove spesso la si subisce ma diventa impossibile praticarla.
Esattamente, la tua analisi è davvero azzeccata. Grazie per la lettura e per il commento!
Conoscere il futuro delle persone è un dono? Conoscere il proprio, di futuro, è un dono?
Non lo sappiamo. Io penso di no.
Ma il tuo racconto sposta, senza mezzi termini, quel tanto che basta il velo che nasconde quella che può essere la differenza fra “dono” e “maledizione”
Ciao Rossano, grazie per il commento: direi che hai colto in pieno nel segno! Il “dono” del titolo avrei forse dovuto scriverlo virgolettato, a indicare che probabilmente tale capacità non sia proprio una bendizione…
Ciao!
Ciao Sergio, questa storia mi è piaciuta molto, è bella sia la trama che lo stile, complimenti davvero. Può ricordare alcune atmosfere dei Dylan Dog che divoravo avidamente da ragazzo. Visioni, sofferenza e infine liberazione. A presto rileggerti!
Ciao Tiziano,
ti ringrazio davvero!! Dylan Dog l’ho letto poco (di fumetti, divoro Topolino, tutt’ora), ma è vero, ci si può trovare un richiamo nello spirito del racconto.
Sono contento che ti sia piaciuto, grazie davvero per il commento!! 🙂
E grazie due volte, perchè sinceramente, qua su edizioni open, ho ritrovato il piacere di scrivere 🙂
Sono felice che Edizioni Open alimenti la tua passione per la scrittura, penso davvero tu sia portato…
Una maledizione pesante, le hai saputo dare giusto onore
Grazie!