
Il maglione turchese
Non mi aspettavo di incontrarlo proprio allora, in un settembre caldissimo, in mezzo alla polvere e alle feste della città.
Quello per me doveva essere solo un lavoro, non uno dei tanti, ma era come se non avessi occhi che per quel negozio, quella porta aprirsi, le scatole da esporre, le vetrine da modificare, non mi aspettavo di amare altro che non fosse quel mondo, e forse ho pensato di amarlo proprio perché lui di quel mondo faceva parte.
Ci si innamora anche di quello che per noi una persona può rappresentare, come il fatto di amare entrambi la stessa città.
Per quattro lunghe settimane non ci siamo mai parlati, poi avrei scoperto che entrambi ci eravamo già notati, come le pubblicità sui cartelloni luminosi che le noti per forza, anche se poi magari mica ti ricordi che cosa ti vendono.
Ad ogni Domenica mentre lui veniva a trovare suo padre in negozio, i nostri banchi esterni si sfioravano più di quanto facevamo noi, lui occhi azzurri e un po’ basso, parlava con tutti tranne che con me e alla fine io facevo uguale.
Ci guardavamo di sfuggita, leggeri, come quando ti prometti di non girarti verso un evento preciso che sta accadendo e poi la curiosità ha la meglio, sguardi indagatori in mezzo agli altri, proprio nel modo in cui apri la finestra e ti chiedi guardando il cielo se fuori già piove.
Le sue camice azzurre e le sue biciclette animavano i pomeriggi della Domenica dopo le cinque, quando stappava tra i banchetti bottiglie di prosecco come a togliere micce dalla bombe.
Era un casinaro nato, uno che avrei dovuto tenere lontano già solo a guardarlo così.
Ma si possono davvero tenere lontano i guai da noi?
-Hai da accendere?
Furono le prime parole che mi rivolse mentre io avvolta da febbre alta e una giacca sottile bianca, mi sentivo impreparata ad accogliere la sua voce.
-Non fumo. Ma sicuramente qui ce lo avrà qualcuno.
Avevo scritto a mamma che Fabio finalmente mi aveva parlato, e forse lei aveva capito prima di me come quel ragazzo misterioso con cui giocavo all’indifferenza, si delineasse nei miei pensieri.
Così Fabio aveva trovato il suo accendino e mi ero venuto accanto, trasferendo su di me il suo profumo.
-Questo lo conosco.
-Indovina, quale è?
Il suo collo vicino a modi di sfida e il suo sorriso acceso mi avevano invitato a flirtare, mentre con il polso continuavo a capire che profumo indossasse.
Suo padre mi aveva invitato a cena poco prima, era l’ultimo momento che avremmo esposto la merce in quel modo e in tutti noi scorreva la voglia di festa e rimasugli di caldo estivi, il 29 settembre fuoriusciva come un coro della famosa canzone e noi eravamo effettivamente seduti in un piccolo caffè.
Avevo rifiutato il suo invito, come molti altri, perché la febbre mi stava provando da settimane e il lavoro anche, mi sembrava di non avere le forze necessarie ad affrontare un uomo che aveva l’età di mio padre, avrei dovuto essere brillante e tenere alta la mia figura professionale, ma a tratti lungo quei giorni, io ero semplicemente stanca.
Sognavo le coperte e i cuscini di casa, tornare e aprire la porta per sapere come stava mia madre, salutare il mio cane che ormai non vedevo più, la mia vita era sempre lì, tra le mura del negozio e gli sguardi di quella gente, mi stavo costruendo un personaggio attraverso quel mondo e ne ero felice di sentirmene parte, ma il lato pericoloso era di non riuscire più a trovare me stessa quando ne uscivo fuori.
Avevo passato mesi a pitturare, pulire e sistemare scaffali, pensare ad un nuovo nome, costruire un logo e un’insegna e mentre scorrevano i mesi ci si chiedeva quando avremmo aperto davvero.
Adesso che ero costantemente al pubblico dalla mattina alla sera, ricercavo spesso un silenzio in cui sentire nuovamente che esistevo anche quando la porta del negozio si chiudeva.
-Allora, come sta andando il negozio?
Andrea mi si era avvicinato sulla sedia di plastica bianca lungo il corso, davanti a noi uno stand di vestiti a basso costo richiamava la gente a sé, i piumini grigi contro il caldo di settembre erano come nuvole che nessuno voleva ancora vedere.
-Bene, abbiamo ancora tanto lavoro da fare ma siamo entusiasti.
Lo conoscevo da anni, gestiva una pagina di fotografie artistiche sulla città ed era ormai in pensione, ma solo in quei giorni avevo scoperto quanto fosse amico del padre di Fabio.
-E l’amore? Mi sa che ti diverti.
-Io ormai ho una certa età, non faccio più certe cose.
E ci eravamo messi a ridere, mentre Fabio poco distante da noi pareva ascoltasse tutto.
Poi era tornato verso di me, lo sguardo strafottente mentre intorno a noi si cominciava a parlare di feste e bere.
-Allora, te lo faccio o no l’aperitivo?
E aveva mescolato sul balcone di suo padre qualcosa che potesse assomigliare ad un Negroni, non era male ciò che ne venne fuori, mia madre arrivò poco dopo pronta anche a lei a salutare la fine di settembre.
Erano gli inizi che precedono i percorsi, quando sei felice perché non sai cosa accadrà ma hai quella voglia di certezza che ti spinge a crederci, che tutto andrà bene, che qualcosa verrà costruito e rimarrà in piedi.
Non ti accorgi dei segnali sbagliati nemmeno se ci sono già, il desiderio di stare bene è una nebbia sottile fra il primo strato del nostro cuore e quello dei nostri occhi.
-Ho un favore da chiederti.
-Anche due.
-Me ne fai un altro? È per mia mamma.
E avevo indicato il catino pieno di ghiaccio e bottiglie di prosecco.
Lui aveva sorriso tornando dietro il bancone e armeggiando malamente con un limone ormai spolpato.
-Ecco.
-Però il tuo bicchiere è più bello.
Ed era vero perché si era tenuto il calice ampio per sé.
Mi aveva guardato per tre secondi netti prima di prendere il mio bicchiere e darmi il suo, pareva soddisfatto di quella sua mossa mentre tra noi era già nato qualcosa che non poteva essere fermato.
Ero tornata da mia madre febbricitante con addosso un miscuglio di brividi ed entusiasmo ed eravamo rimaste a parlare mentre il manto turchese scuro della sera si adagiava sui primi tetti più alti del borgo.
Uscita nuovamente fuori a respirare quel profumo umido che le strade calde fanno salire verso di noi, lui era lì, ad aspettarmi con lo sguardo.
-Ma una cena, solo io e te?
-Quando?
-Stasera. Che dici?
E avevo detto sì senza nemmeno darmi il tempo di attesa, era come se quel sì volessi dirlo da tempo.
Stavo uscendo con qualcuno di cui non avevo nemmeno il numero di telefono.
Un’ora più tardi, sotto un diluvio corposo e con il suo numero già presente in chat, eravamo seduti in un locale dentro le mura di cucina giapponese.
Lui mi aveva preso le mani e sporcato il naso di wasabi e con le bacchette di legno ci stuzzicavamo lembi di pelle, non ricordo nemmeno cosa ci siamo detti perché entrambi stavamo aspettando di baciarci e accadde qualche momento dopo, sotto scrosci di acqua enormi, noi due fradici, contro le serrande di un tabacchino.
-Non puoi tornare a casa così. La mia è più vicina.
-Non passo la notte con te.
-Puoi anche solo venire ad asciugarti.
Ma avevo scosso la testa piena di acqua con decisione.
Lui contro quella serranda mi aveva baciato ancora e ci stringevamo stretti lungo il piccolo bordo che ci faceva da riparo meglio dell’ombrello.
-Vieni, andiamo. Ti porto a casa.
Il suo ombrello militare che si piegava ogni volta, lui che mi prendeva in braccio, noi che ogni tanto sotto la pioggia abbiamo anche ballato, e poi finalmente il sottopassaggio della stazione, su quelle scale a dirci tutto, persino i nostri dolori, noi sdraiati sugli scalini dell’uscita del binario numero 6, che da quella sera ogni mattina uscendo da casa mi avrebbe ricordato lui.
Non riuscivamo a smettere di baciarci e di abbracciarci, e ogni giorno era una sfida per vedersi, tu a che ora inizi? E quando finisci? Colazione insieme? Venerdì cena da te o da me?
Ma i nostri orari di lavoro non si incastravamo mai e fra le corse a piedi o in bicicletta noi infilavamo prosecchi e abbracci, baci e cornetti e le carezze lungo il collo, i baci nell’orecchio, le frasi del tipo; era da tempo che non provavo più queste cose.
Baci lunghi dieci secondi pur di vederci.
-Dove sei?
-A far la spesa.
-Vicino a me?
-Sì.
-Passa che voglio salutarti.
Avevo sfrecciato lungo il centro storico più forte che potevo, avevo mollato la bici su un palo lì vicino con tutto dentro e gli avevo detto, sono qui.
Ero davanti alla sua porta e pareva aspettarmi da sempre, aveva spalancato le braccia e mi ero fiondata su di lui, il mio maglione turchese contro la sua maglietta grigia, siamo stati in silenzio nell’androne del palazzo, semplicemente abbracciati, ad ascoltare la voglia che avevamo dell’altro.
Non avevo idea di quanto saremmo durati e nemmeno di cosa stavamo provando, ma le sue mani sotto il maglione sapevano di casa.
-Bello il maglione.
-È di mia madre.
E avevamo riso, come se fosse per sempre.
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“Non avevo idea di quanto saremmo durati e nemmeno di cosa stavamo provando, ma le sue mani sotto il maglione sapevano di casa.”
Ogni amore è il primo, bello da scoprire nella sua interezza. Anche il tuo racconto è avvolgente, trasmette un calore confortante.
Ho letto i commenti. Non so se Marta risponderà, non credo, quindi voglio fare come capita in certi momenti, nei quali sai già che partire è solitudine senza ritorno.
Menzione di merito per la citazione del brano musicale: semplicemente perfetto.
Capacità di districarsi non solo tra i sentimenti ma, cosa ben più difficile, fra le effimere emozioni.
Un senso dell’ineluttabile vivo, dinamico, ribelle. Di chi scalcia per non morire.
Malinconia tenuta al guinzaglio, eppure malinconia.
Anatomia di un amore, illusorio come illusorio è l’amore, nelle righe di questa autrice.
E quanta vita, tanta che sembra sfuggire a ogni pensiero, in ciascuna parola.
Complimenti.
“Ci si innamora anche di quello che per noi una persona può rappresentare”. Questa è una frase toccante e molto vera. Durante tutto il racconto mi sono sentita sospesa come se qualcosa dovesse accadere e come attaccata a un filo. Mi è piaciuto provare quella sensazione. Belli i dialoghi che portano avanti bene la narrazione. Racconto dolcissimo
Molto dolce questo racconto