Il Mulo – episodio 2 Il Giga.

Serie: Il Mulo


Non c’era pavimento sporco di sangue che Mirko non riuscisse a tirare a lucido, il padre gestiva i macelli comunali e al sangue c’era abituato.

All’ennesimo squillo del telefonino ci guardammo. Mirko restò immobile per qualche secondo, poi mosse la Beretta come un frisbee pronto a fendere l’aria; era un’abitudine che gli era rimasta incollata tra le mani da quando lo usavamo da ragazzi sulle sponde del Trebbia.

Nella stanza le serrande erano abbassate da ore per non creare ombre che uno dei cecchini del Colombiano avrebbe potuto prendere di mira, da qualunque distanza.

Il fatto è che non avremmo dovuto fottere uno dei muli di Ivàn.

«Il migliore che io conosca», diceva mentre passava le sue dita callose su quei morbidi riccioli scuri.

Il mulo di Ivàn Sanchez si chiamava Alejandra Maria Cortillas e aveva undici anni.

Alejandra Maria proveniva dai promontori sopra la valle del fiume Cauca ed era stata la madre ad addestrarla, fin dalla tenera età. Tre volte l’anno, con un visto d’ingresso per cure mediche, Alejandra attraversava l’oceano a bordo di un Boeing, la sedia a rotelle piegata nel vano bagagli, il volo pagato dal consolato italo-colombiano e la degenza riabilitativa di due settimane programmata al San Raffaele.

Nell’intestino, avvolte nella pellicola e lubrificate alla partenza, trasportava le ogive che all’inizio erano state due, poi cinque e adesso avevano raggiunto il numero di dieci.

D’altro canto la madre aveva pensato che Alejandra, essendo nata a quel modo, cioè a dire storpia, a qualcosa doveva pur servire e l’aveva consegnata al cartello come bodypacker. Aveva trascorso con lei molte ore per insegnarle come fare a trattenere gli ovuli dentro la pancia. Si trattava di un lavoro meticoloso a fasi, un procedimento capillare: le era vietato assumere fibre vegetali, si rendeva necessario bere acqua a piccolo sorsi nei cinque giorni precedenti la collocazione. Alejandra si cibava di riso e di limone, la sera antecedente la partenza ingeriva dell’acqua mista a sale per provocare la ripulitura, allo scopo di eliminare quel poco che il suo stomaco aveva ancora in digestione.

Nessun addetto ai controlli aeroportuali si era mai avvicinato ad Alejandra, gli stessi poliziotti avevano tenuto a bada il cane molecolare che fiutava l’aria scodinzolando.

Alejandra ne aveva accarezzato il muso, sporgendosi più che poteva dalla sedia a rotelle.

Il compenso previsto era di duemilioni di pesos a volta, la madre lo trovava, avvolto anch’esso nel cellophan, dentro al cassone dell’acqua nel bagno dell’aeroporto El-Dorado di Bogotà, a viaggio ultimato.

A pagarla era il Cartello degli Urabeños.

Con a capo Dario Otoniel Ùsuga, il Cartello contava duemila affiliati sparsi nella regione di Urabà e Ivàn Sanchez era stato collocato nelle fila della seconda linea. Il suo compito era quello di trovare il modo sicuro per fare entrare la cocaina nella penisola.

L’intera operazione di trasbordo si era potuta svolgere grazie a Lally che ci aveva tirato dentro proponendoci l’affare. Da anni, Lally era impiegata nel progetto Infancia y Salud in collaborazione con il Consolato italo-colombiano che si occupava di svolgere le pratiche per l’accoglienza di minori sul territorio nazionale, allo scopo di cure mediche. Lally compilava i documenti per conto di Alejandra, la riceveva all’aeroporto e l’accompagnava all’ingresso del San Raffaele.

Per il resto dell’operazione erano sufficienti pochi minuti. Nel bagno pubblico dell’ospedale, Lally consegnava ad Alejandra uno sciroppo da ingurgitare e pochi istanti dopo si appropriava del contenuto delle sue viscere.

A raccolto ultimato ne curava la registrazione al reparto di riabilitazione motoria.

Le ogive venivano portate a Sasha che le lavorava, quintuplicandole. Gli scarti della lavorazione spolveravano come farina, infilandosi nei suoi brufoli e lì restavano per giorni.

A contattare il quartiere San Basilio a Roma era compito di Mirko, così come fissare lo scambio, di merce e denaro.

Io, ero Sandro, detto il Giga.

Gestivo le percentuali di guadagno a nove zeri di Ivàn spostandole nell’etere, fino a convertirle in mattone. Acquistavo immobili sulle coste di ogni continente, diventavano alberghi a cinque stelle o sedi di nuove start-up locali. Quando avevo finito con il mattone, procedevo alla compera dei pezzi di litorale. Mi chiamavano Giga dai tempi della scuola, per la facilità con cui comprendevo la tecnologia e i suoi linguaggi non apparenti. La mia memoria era capace di registrare numeri e password in misura esponenziale, senza necessità di ricorrere ad appunti scritti. Lo avevo sempre fatto. Tutto era iniziato contando le molle della rete metallica che sosteneva il materasso. Come un gioco, nelle ore di tedio, nascosto sotto al letto per sfuggire alle grinfie di mio padre, moltiplicavo in sequenza le decine e le centinaia matematiche per ottenere numeri impronunciabili che poi riducevo, frazionandoli all’indietro. Aumentavo la difficoltà del gioco inserendo lettere a cui assegnavo un valore numerico. Era una dote che avevo sviluppato negli anni e che si manifestava anche contro la mia volontà, in qualunque occasione: se guardavo la tribuna dei tifosi a una partita di calcio, spesso mi trovavo senza volere a far di conto di quanti di loro stavano sul primo gradino, quanti nell’ultimo, basandomi sulla corporatura media dei primi tre della fila fino a dedurne il numero complessivo.

Nel bilocale, il cerchio si era fatto stretto come un’asola.

Le ore ci marcavano. Ivàn ci avrebbe tirato fuori da lì a forza come topi dal buco.

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Discussioni

  1. Molto bella la descrizione dei ruoli dei personaggi nella macchina del Colombiano, e formidabile la descrizione del meccanismo degli ovuli, o ogive. Per una serie di coincidenze mi sono trovato in passato a leggere con attenzione dalla cronaca nera come funzionava questo tipo di traffico.
    Complimenti, come sempre. Tecnica e contenuti attentamente studiati fanno il loro lavoro egregiamente!
    Non commento su Alejandra, arriverei ultimo e direi ovvietà. In certi ambienti una disabilità rende inutili o più utili degli altri, ma la vita ha comunque lo stesso, scarso, valore.

  2. “D’altro canto la madre aveva pensato che Alejandra, essendo nata a quel modo, cioè a dire storpia, a qualcosa doveva pur servire e l’aveva consegnata al cartello come bodypacker.”
    terrificante come solo la realtà può essere

  3. “Non c’era pavimento sporco di sangue che Mirko non riuscisse a tirare a lucido, il padre gestiva i macelli comunali e al sangue c’era abituato.”
    Confesso che con “ripulitore” avevo inteso tutt’altro

    1. Grazie a te. Lo so, è desolante pensare a una bambina come bodypacker, purtroppo molto vicino alla realtà. Sono migliaia i bambini/e al servizio del narcotraffico e, più in generale, al servizio della criminalità organizzata. Grazie per la lettura.