Il Mulo – episodio 3 Il Colombiano.

Serie: Il Mulo


Il Colombiano teneva in cassaforte più passaporti che abiti dentro al guardaroba.

Alloggiava in alberghi di lusso saldando il conto in banconote contanti e aveva l’abitudine di cambiare albergo ogni tre giorni. Nessuno di noi era a conoscenza della sua vera identità. Una volta Lally ci aveva detto che Ivàn era al secondo intervento di chirurgia facciale, glielo aveva confidato lui, aggiungendo nella sua lingua, «Un hombre con mas caras!», parlando di se stesso come di un uomo con più facce. Avevi l’impressione di trovarti davanti a qualcuno che non esisteva, eppure i suoi occhi scuri non lasciavano dubbio alcuno quando ti mettevano a fuoco. Non sapevi se a fissarti era un uomo o un cobra. 

Di lui sapevamo soltanto che ci pagava puntuale, a volte, più di quanto fosse stato pattuito in precedenza, un modo, quello, per non spingerci a fare domande.

Sasha però aveva fatto qualcosa che non doveva fare. Aveva bruciato il mulo di Ivàn e lo aveva fatto in accordo con Lally. Un mulo bruciato era peggio che morto, voleva dire avere una cosa preziosa e non poterne usufruire, inoltre, nuovi muli avrebbero faticato a fidarsi di Ivàn.

Una parola aveva preso il via dopo l’altra e tutto di nascosto a Mirko che oltre a fare il ripulitore gestiva i contatti per piazzare la merce.  Sasha aveva avuto la bella idea di concordare in autonomia un nuovo affare coi trafficanti del San Basilio, si era tenuto per sé tre dei dieci ovuli rigettati dal corpo di Alejandra.

Non potevi cercare il Colombiano, di solito era lui che veniva a trovare te, così, in un pomeriggio qualunque, aveva mandato a chiamare Lally e Sasha.

La mattina dello stesso giorno Alejandra Maria era stata fatta uscire dal reparto di riabilitazione motoria, la madre ne aveva firmato le dimissioni obbedendo all’ordine ricevuto.

Tre uomini di Ivàn erano passati in auto davanti alla porta a vetri del San Raffaele, gli stessi che ora erano a guardare le spalle del colombiano alla suite del Green Sky Hotel.

Due piantonavano la porta di ingresso alla suite, il terzo stava a fianco del Colombiano registrandone i movimenti e il respiro. Al centro della stanza dal soffitto a volta framezzato da lucernari da cui si intravedevano spicchi di cielo,  c’erano anche Lally e Sasha.

Lally piangeva, diceva che stavolta le ogive erano in tutto sette e non dieci come di abitudine. Lei aveva condotto Alejandra nel procedimento di ripulitura, e aveva contato sette boli di cocaina.  Il viso di Lally era bianco e sembrava privo di lineamenti, tirato a forza da una tensione che da lì a poco avrebbe spezzato le ossa.

La madre di Alejandra le puntava contro il braccio, batteva i tacchi delle scarpe sul pavimento producendo un rumore stonato, le vomitava addosso parole confuse e la chiamava puta.

Alejandra Maria, invece, stava in silenzio e aveva gli occhi spalancati nel terrore.

Il Colombiano continuava a fissare Lally come volesse trapassarla da parte a parte.

Il gelo era calato nella suite del Green Sky Hotel, sembrava che nemmeno i polmoni ce la facessero più a respirare. Lally muoveva il capo da sinistra a destra, in ripetizione, a sottolineare un preciso dissenso e, nel farlo, non abbassava mai lo sguardo da quello del Colombiano. Sanchez stava seduto su una poltrona, teneva le braccia abbassate lungo i braccioli, con fare rilassato, come se la cosa non lo riguardasse. 

Sasha, invece, sentiva i muscoli indurirsi a causa dei nervi.

La tensione allungò i suoi tentacoli quando Ivàn si alzò dalla poltrona, aggirò il tavolo di cristallo e afferrò per i capelli la madre di Alejandra. Avvenne in un attimo. Senza preavviso, la lama del serramanico a scatto passò la gola della donna alla velocità di una pulsione cardiaca.

Alejandra urlò e quell’urlo parve risalire dal fondo di un canyon. Poi, reclinò il capo in avanti, bloccata nel movimento dalla sedia a rotelle.

Il corpo della donna cadde sul pavimento in una posa innaturale, sembrava volesse prendersi tutto lo spazio. Ivàn lo scavalcò, muovendosi in direzione di Lally. Nonostante ciò che aveva appena fatto i  muscoli facciali del Colombiano non mutarono espressione.

Sasha sentì salire impellente l’istinto di muoversi, ma obbligò se stesso a rimanere immobile. 

Aveva appena considerato che l’uomo, a meno di trenta centimetri da lui, lo avrebbe trapassato al primo movimento. Con un rapido giro della mente si convinse che doveva creare un diversivo.

«La cocaina l’ho presa io», disse buttando fuori l’aria trattenuta fino a quel momento.

Lally strabuzzò gli occhi e il Colombiano sollevò gli angoli della bocca in un mezzo sorriso.

Sfiorò con una mano la testa di Alejandra che ancora singhiozzava e si avvicinò a Sasha, lasciando Lally pochi passi indietro.

Lally ne intravedeva la sagoma delle spalle, la vista si era annebbiata. Strizzò gli occhi per allontanare il senso di vertigine che le faceva venire meno l’assetto delle gambe sul pavimento. 

Il tempo guadagnato stava per scadere, Sasha tirò fuori dai pantaloni la pistola mirando con un movimento rapido il colombiano alla fronte, non prevedendo però che potesse essere più rapido di lui nel roteare il polso e scoccargli dritto il coltello verso il costato. Il colpo di Sasha non fece in tempo a partire.

Si piegò in avanti trafitto nella carne.

Inatteso, nella suite,  il suono ovattato da un silenziatore a canna corta, attraversò l’aria risucchiandola. 

Lally, salda sulle gambe divaricate, teneva con ambedue le mani una T.65 che aveva appena sparato due colpi in successione, uno nel cranio dell’uomo a un passo da Sasha e l’altro in mezzo ai polmoni di Ivàn. Le gambe si piegarono come tagliate da una scure, il Colombiano si accasciò a terra, ancora in vita.

«Tra pochi minuti saremo fuori da qui!», disse a Sasha che intanto si teneva le costole e cercava di capire come mai non fosse morto.

Con un movimento rapido dell’asse, Lally mise il colpo in canna della T65 e la consegnò nelle mani della piccola Alejandra, «Se fa il tentativo di chiamare i suoi uomini, sparagli», le intimò, poi raccolse da terra la pistola di Sasha e la infilò dentro al reggiseno.

Alejandra fissò a lungo Lally. La gola si era indurita e non le usciva alcuna parola. Con il labbro imbronciato e le guance bagnate da un fiume di lacrime, manifestò all’improvviso un cipiglio misto di rabbia e coraggio e fece cenno di sì col capo.

Un guizzo le attraversò gli occhi scuri.

Serie: Il Mulo


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Mi riallaccio al commento appena fatto, mantenendo il focus sui bambini. Alcuni vengono privati dell’infanzia fin dalla culla. Questa tua serie mi porta alla mente un periodo della mia vita. Venticinque anni fa ho vissuto a Cartagena de Indias, Colombia, per sei mesi: ho incontrato molti bambini senza luce negli occhi. Nei vicoli, allungavano una mano per qualche soldo che avrebbero speso comprando colla da sniffare. Gettavano in un angolo i panini che offrivo loro, indifferenti. E’ tremendo, ti chiedi se potrai mai fare qualcosa e quando comprendi l’enormità di quanto ti sta davanti perdi il fiato. A volte, vale il detto “una sola vita salvata vale il mondo”. Così anche per un racconto, in grado di tenere viva la memoria

    1. Anche io per un periodo di due mesi ho vissuto a Bogotà, nel 2007.
      Ci dimentichiamo spesso di come certe vite iniziano il loro percorso già in salita, il più delle volte obbligate a rimanere sul fondo. Ricordare a me stessa queste differenze di destino, mi fanno tenere fede alla narrazione intesa come denuncia sociale. Non solo. Ti ringrazio, Micol per il senso della tua lettura.

  2. “Alejandra fissò a lungo Lally. La gola si era indurita e non le usciva alcuna parola. Con il labbro imbronciato e le guance bagnate da un fiume di lacrime, manifestò all’improvviso un cipiglio misto di rabbia e coraggio e fece cenno di sì col capo.”
    pochi minuti fa, in un contesto differente, parlavamo di bambini. A volte vengono privati della loro innocenza fin dalla culla