Il seme della paura

Serie: Genio sovraumano


Il caso ci pone spesso in situazioni che sembrano appena uscite dalla penna di un abile sceneggiatore. Il grande Architetto che tira i fili delle nostre esistenze, sembra sempre voler escogitare le situazioni più intriganti e coinvolgenti, quasi per stimolare il suo animo brioso e soddisfare il suo sconcio ludibrio. Quella volta fu Nicaor il protagonista delle sue beffarde distrazioni.

– E così tu ora saresti Nicaor da Medellin? Niente meno che Nicaor de La Fuentes

L’uomo seduto al suo fianco se la rideva in un sentimento misto di gioia, imbarazzo e stupore. Nella sua idea quello alla sua destra rappresentava quanto di meglio potesse accadergli, colui che avrebbe potuto spalancargli le porte di una vita agiata, la sua gallinella dalle uova d’oro: Balcovich, il capo della resistenza indipendentista, il ricercato numero uno, con una taglia di un milione di dinari sulla testa. I signori della guerra avrebbero fatto carte false per averlo vivo o meglio ancora, morto.

La somiglianza di Nicaor con Balcovich rasentava invero l’incredibile. Uno spaccato della stessa mela, due gemelli siamesi separati alla nascita: quello stesso naso adunco e quella leggera stempiatura messa in evidenza dal biondo scintillante dei capelli lucidi tirati all’indietro in un ordine un po’ scompigliato. Era Balcovich, per i rapitori non poteva esserci dubbio. Mentre per Nicaor ora, il dubbio di una fine ingrata, stava per cedere il passo alla certezza che il rosso del passamontagna rigirato che gli copriva maldestramente il volto, fosse l’ultimo colore che i suoi occhi avrebbero mai più visto.

– Balcovich o non Balcovich, noi dobbiamo avere quei soldi e li dobbiamo avere oggi stesso – rifletteva ad alta voce uno dei due balordi rivolgendosi all’altro, mentre la Volswagen nera si dirigeva a sud di Split verso la scogliera ai piedi del monastero fantasma.

– Questo tipo potrebbe essere Balcovich oppure potrebbe non esserlo, il suo accento non mi convince: o Balcovich è diventato d’improvviso un grandissimo attore oppure è davvero quello che dice di essere.

I piani dei due balordi si stavano palesando agli occhi di Nicaor : presto avrebbero accostato, riposto il Maggiolone scassato in qualche rifugio di fortuna ed ahimè l’avrebbero ucciso. Sarebbe stato rivenduto al miglior offerente, come merce di scambio: un trofeo di guerra, una cosa molto preziosa. Questo ed altri pensieri sinistri agitavano la mente di Nicaor in quei momenti convulsi.

– Non deve poter parlare, non deve poter spiegare – pronunciò uno con toni sentenziosi.

– Balcovich vivo o morto, per la taglia non passa alcuna differenza.

La decisone pareva presa; certamente gli uomini di Valcik avrebbero fatto indagini troppo approfondite, avrebbero torchiato Nicaor per benino prima di sganciare quella cospicua somma e forse presto o tardi la vera identità del presunto Balcovich sarebbe saltata fuori. Non si poteva rischiare, Balcovich o no, quell’uomo per loro voleva dire molti quattrini e da morto, come un volto nudo privato del diritto di replica, sarebbe stato molto più semplice ottenerli.

Percorsero non più di cinque chilometri lungo la vecchia litoranea in direzione sud, per poi attraversare una sterrata secondaria inframmezzata da cespi e pozzanghere. Nascosta negli anfratti, ai piedi di un roccione intrecciato di arbusti si intravedeva la sagoma di un rudere abbandonato. Era il mattatoio comunale o almeno ciò che ne rimaneva che come la fogna cittadina, componeva il fantasmagorico repertorio Titiano delle opere incompiute. Il contesto pareva consono ad un’esecuzione.

Fecero per accostare il maggiolone ed imboccarono l’androne semi distrutto del mattatoio, spintonando Nicaor verso l’interno.

– Muoviti gringo, non abbiamo molto tempo da perdere.

I ganci di sollevamento del bestiame pendevano ancora dal soffitto scrostato; lunghi tratti dell’intonaco ormai divelto mostravano evidenti tracce di laterizio scoperto. I muschi e i licheni nel favore dell’umidità perenne dell’ambiente circostante avevano definitivamente preso il sopravvento, tantoché la forma originale di asettico locale laboratorio per la lavorazione e il trattamento delle carni, aveva assunto i contorni più rustici di una vecchia stamberga contadina. Sui margini delle pareti divisorie, tracce evidenti di sangue raffermo miscelato nella malta, formavano una singolare colorazione maculata che per ironia della sorte, ricordava il manto di quelle povere bestie quivi condotte per essere avviate alla macellazione.

L’opera avrebbe dovuto essere fugace e repentina, un colpo di rivoltella in corrispondenza della nuca ma ben assestato, che mai e poi mai, avrebbe dovuto trasfigurare il volto del disgraziato cliente, lasciapassare esclusivo verso il denaro facile della taglia su Balcovich.

Fu in quel momento che Nicaor, privato del drappo rosso sugli occhi, prese per la prima volta visione del luogo in cui verosimilmente avrebbe cessato di esistere. Non fece in tempo a concentrare la sua attenzione sulle brutture che lo circondavano, che d’un tratto si ritrovò scaraventato da basso con le mani cinte dalle spesse catene costrittive, un tempo utilizzate per immobilizzare i malcapitati bovini prima di essere abbattuti.

La paura è un concetto confuso, un sentimento atavico che si riconosce per averlo già provato, non si sa bene quando, non si sa nemmeno come. Risale dalle viscere e arriva dritta al cervello sotto forma di scariche tipizzate. Non si ha paura di ciò che non si conosce, ma la paura si riconosce proprio in ciò che è noto. Non si può certo essere impauriti dell’ignoto o del vuoto. Ciò che spaventa è fondamentalmente quello che si riconosce come terrificante e pieno. Pieno di tutto quello che non si vorrebbe mai possa appartenerci o in qualche modo toccarci. In quel momento Nicaor ebbe proprio quel tipo di paura, nella circostanza di non avere più alcuna apparente via di uscita: la paura del sorcio caduto in una botola profonda e levigata, da cui non può risalire aggrappandosi alle imperfezioni della parete, o la paura che può provare la vacca trascinata verso il macello, costretta da filacci a cui non può pensare di sottrarsi, perché troppo ostinati per la forza delle sue povere membra.

La paura di perdere in assoluto il controllo, perchè non ci si aspetta di poter gestire eventi dettati da dinamiche esterne dall’esito del tutto incerto, ma ciò che appartiene al libero arbitrio, si ha il diritto e la pretesa di poterlo governare. Diritto e pretesa che Nicaor sentiva di non poter più esercitare e dunque, per questo, aveva paura.

– Fallo tu Boris, muoviti cazzo non abbiamo molto tempo, la 48 andrà benissimo.

L’opera avrebbe dovuto essere chirurgica, un passaggio rapido e pulito a trapassare la corteccia occipitale e poi via verso l’agognata ricompensa.

Il destino sembrava aver tracciato per Nicaor l’esito funesto della fine indecorosa di un misero ostaggio nelle mani di vili cacciatori di taglie. Il mercimonio del suo volto esamine, come estremo atto scellerato di gente senza scrupoli il cui Dio ed unico fine versa nella prospettiva di un guadagno facile, ma fortunatamente l’incedere degli eventi assume spesso e volentieri i contorni dell’imprevisto.

Serie: Genio sovraumano


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