
Impronte
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Cambiamenti
- Episodio 2: Il rivolo sottile
- Episodio 3: Sfide
- Episodio 4: Quei paesi che finiscono per ATE
- Episodio 5: Punti di osservazione
- Episodio 6: Nessuna ragione per non farlo
- Episodio 7: Qualcosa in comune
- Episodio 8: Non oggi
- Episodio 9: Svolte
- Episodio 10: Per la prima volta
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
STAGIONE 1
STAGIONE 2
Quando mi sono incamminato verso l’albergo, il cielo sopra Dornbirn era completamente spento.
Li ho lasciati tutti al loro vociare rumoroso, ai loro lunghi sorsi consumati su alti sgabelli, alla loro confidenza conquistata col lavoro del tempo.
Il chiacchiericcio della piazza ha perso intensità a mano a mano che mi allontanavo per poi scomparire del tutto, sostituito prima dall’incedere ozioso dei miei passi sul selciato, poi dallo sporadico brusio di pneumatici che percorrevano in entrambe le direzioni il lungo rettifilo da cui ero arrivato qualche ora prima; il silenzio tutt’attorno si strappava momentaneamente per poi ricucirsi da sé un secondo dopo.
Visto dalla prospettiva del ponte il parco si distingueva appena, lo illuminava come poteva la luce fioca di radi lampioni che ammorbidiva i contorni del fogliame.
Per un breve tratto di strada, a camminare sul marciapiede siamo stati solo io e una coppia adulta, poco più avanti a me. Si sono tenuti per mano tutto il tempo, senza dire una parola. Eppure era evidente che si stessero raccontando un sacco di cose. Poi la coppia ha oltrepassato le porte vetrate di un hotel a quattro stelle, inghiottita dalla luce calda di un atrio vasto ed elegante, e sulla strada sono rimasto soltanto io, a guardarmi intorno e a riconoscere quell’amalgama equilibrato di urbanità e vegetazione fatto di case basse e cancelletti di legno, che sa talmente tanto di posti che mi mancano durante l’anno da darmi l’impressioni di non averli mai davvero lasciati.
Arrivato in albergo, il Biergarten sul retro era già vuoto, rimanevano accese solo le applique alle pareti del corridoio. Mi sono infilato in stanza prendendomi cura di me lo stretto necessario. Una volta a letto, non ci ho messo molto ad addormentarmi. Non ce ne metto mai.
Mentre la mattina successiva consumavo una colazione come Dio comanda seduto ad un lungo tavolo marrone, lucido e grezzo nei suoi intagli, mi è sembrato oggettivamente impensabile che entro quello stesso pomeriggio sarei arrivato a Tübingen. Ho pianificato tutto il percorso facendo in modo che quella tappa fosse la più breve, duecento chilometri, quattro ore se non mi fossi fermato. L’ho fatto per poterla percorrere davvero rilassato, come a volerla guidare con una mano sola sul manubrio, l’altra abbandonata sulla coscia per guardarmi con calma intorno. Da quel momento in poi montagne da scavallare non ce ne sarebbero più state.
Lasciata la Gasthaus ho recuperato da un cassetto della memoria il pin di apertura del garage e una volta issata la serranda Greta ha ammiccato con il suo grande occhio ciclopico. Un’altra partenza al primo colpo nonostante l’aria ancora frizzante.
Entusiasti di esserci ritrovati, siamo rientrati in un territorio svizzero insolitamente pianeggiante rispetto al mio immaginario predefinito, e a passo tranquillo abbiamo costeggiato tutto il versante meridionale del Lago di Costanza.
Questo tratto di strada non mi ha riservato le emozioni esplosive del giorno prima, una serie di piccoli centri balneari in un contesto vagamente datato, come fosse evidente il loro lustro di un tempo ma anche l’opacità delle cromature di cui sono adornati oggi.
Ma va tutto bene, ogni metro percorso ha la sua storia da raccontare.
Il momento per il quale ho consumato tutto quel battistrada mi è piombato addosso senza darmi il tempo di arrivarci preparato, sbucato da dietro una curva come potrebbe fare un cervo lungo uno sterrato di montagna. Quasi mi è balenata l’idea di tornare indietro e ripercorrere daccapo gli ultimi chilometri, tanta era la voglia di gustarli meglio.
È successo tutto così in fretta che un attimo prima ero a Kreuzlingen, nel Cantone Thurgau, e l’attimo dopo, svoltato l’angolo, mi sono ritrovato a marciare a passo d’uomo sotto una tettoia bianca, lievemente opprimente, oltre la quale un cartello sottodimensionato mi ha dato il benvenuto a Costanza, la prima città tedesca che ho incontrato sul mio percorso.
Le due località sembravano essere la stessa identica cosa, un tutt’uno praticamente indistinguibile se non fosse stato per i cartelli di un carattere e una tonalità diversa. Una conurbazione che si espande dal centro verso i quattro punti cardinali. Ma quel piccolo appezzamento di prato è Svizzera, mentre le finestre della casa che lo guardano sono Germania. Così come succede con la siepe e i lampioni che di notte la illuminano, con gli alberi e la gru che si muove di fronte, con la facciata del negozio del kebabbaro e il parcheggio pubblico che si allarga sul retro dove, per pagare la sosta, delle stesse monetine che utilizzavi fino a un metro prima non te ne fai più niente. Di qua sono una cosa e appena un passo più avanti sono un’altra. Non mi ci abituerò mai.
E potrà sembrare incredibile ma nonostante ciò la differenza l’ho percepita tutta, dopo pochi istanti. L’ho respirata nell’aria, l’ho notata nella diversa intensità dei colori, nel giallo della segnaletica e nelle lettere sottili che la marchiavano, nel modo che aveva la gente di guidare, di camminare, di portare a spasso i loro figli, mentre li teneva per mano e spiegava loro che non si passa col rosso.
Costanza ha avuto giusto il tempo di allargarsi ancora un po’ verso nord, come potrebbero fare i lembi più estremi di una pozza d’acqua che ce la mette tutta per occupare un ultimo centimetro di terreno; per poi arrendersi all’evidenza e lasciare nuovamente spazio alla natura che la tollera.
In quei boschi fitti, in quelle corsie immense, in quelle strade secondarie riparate dalle fronde degli alberi, in quelle piazzole con i tavolini puliti e le panche fissate a terra, in quelle piste ciclabili infinite che tagliano in due i campi, in quelle colline ondulate e nei meli che affondano le radici nella loro terra, in quelle curve che sembrano interminabili, tenui, che invitano il motore ad osare di più, appena un po’ di più, in questo ho riconosciuto le impronte del posto che mi ha ospitato per tanto tempo, verso il quale provo una inesauribile gratitudine e uno smisurato affetto. In quel sole che lo illuminava mi sono perso e ritrovato.
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
Un episodio silenzioso, non so perché mi è venuto qiesto aggettivo. Come ha già notato Tiziana, intimo. Un po come la coppia che cammina in silenzio, raccontandosi un sacco di cose, ho avuto la sensazione che tu abbia scritto questo episodio nello stesso modo.
Beh, sì, in effetti è un’impressione azzeccata, in questo diario/racconto che mette a dura prova la vostra pazienza c’è molto di mio ma anche una profonda voglia di condivisione. Grazie di farne parte.
” Si sono tenuti per mano tutto il tempo, senza dire una parola. Eppure era evidente che si stessero raccontando un sacco di cose.”
Bellissima questa immagine
Grazie Irene
Questo episodio mi dà l’idea di un preludio verso il paragrafo conclusivo. La descrizione di Costanza secondo il punto di vista di chi l’ha vissuta e sognata, e le rivolge un sincero tributo! E poi gli U2…
Ciao Antonio, non so se questa sia una notizia buona, cattiva o neutra, ma il viaggio è ancora lontano dalla conclusione. In realtà Costanza è solo una città di passaggio, a dire il vero non c’ero nemmeno mai stato. La mia metà è Tübingen ed è più su. Grazie per la lettura e per l’apprezzamento della colonna sonora😊.
Sì, sapevo che la tua meta non era Costanza, ma più a nord. Non ho considerato le “impronte”, quel tipo di paesaggio naturale e urbano in cui ti inizi a riconoscere e che ti guida verso la meta del lungo viaggio.
E perché mai dovrebbe essere una cattiva notizia? 🙂
“i qua sono una cosa e appena un passo più avanti sono un’altra. Non mi ci abituerò mai.”
…noi che abbiamo vissuto la “lira” dovremmo esserci abituati!😃
Come mai proprio Tübingen? C’è un motivo particolare che ti ha spinto ad andare lì? (Scusa la domanda forse troppo personale, è che ormai sono curiosa😅)
No, figurati, anzi. Ne accenno nel primo episodio di questo diario, è una città dove ho vissuto un paio d’anni quando ero studente all’università, alla quale sono molto legato, in cui ho mancato di tornare per molto e dove ora invece cerco di farlo una volta l’anno, una specie di tradizione che ho iniziato qualche tempo fa. Questa volta, per la prima volta, in moto.
Hai ragione, l’avevi già detto (colpa mia, sono rincoglionita, abbi pazienza 😅).
Ma va 😂
Ciao Roberto,
di solito l’ironia accompagna ogni tua relazione, ma questa volta lasci spazio a una voce diversa, più intima. L’episodio ha l’aspetto di un “diario di viaggio interiore”, dove i luoghi non sono solo tappe ma stati d’animo.
La descrizione dei paesaggi, delle strade non sono solo fisiche, ma hanno più l’aspetto di ricordi che respirano ancora.
Dornbirn, il Lago di Costanza, il confine tra Svizzera e Germania, tutto raccontato con quella lentezza che fa percepire i chilometri non come distanza, ma come tempo vissuto.
Molto bello.
Che bella riflessione ti ha suscitato qualcosa che hai letto di mio. Sono molto orgoglioso di questo. Grazie!
Forse meno d’impatto questo pezzo, mi è parso più introspettivo. Il varcare di quell’ultimo confine come la metafora di tornare in un posto familiare (se non casa) dopo essere stati altrove. Hai messo giusto un accenno alla comunicazione muta, nell’ossrvare la coppia che si tiene per mano, che ho trovato poetica, non hai lasciato modo di affezionarsi a quel momento, ma come si suol dire: la dose giusta di pastasciutta è la tua fame meno una forchettata. Ciao Roberto e grazie per la lettura
Meraviglia: sta storia della pastasciutta, della fame e della forchettata in meno è pura poesia. Grazie a te di avermela fatta conoscere.