Inciampi

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Magari un giorno dietro a quell’edificio, o nel cortile, o sulle panchine davanti alle quali accendevamo il fuoco, bevevamo e fumavamo e parlavamo fino a tardi, incontrerò qualcuno che ha abitato lì con me, che ha sentito la città che lo chiamava e io saprò esattamente che cosa prova.

Non lo so perché mi ostini a tornare tra quegli edifici ogni volta. È come se mi aspettassi che prima o poi debba succedere qualcosa, e anche se quel qualcosa non accade ho la sensazione che io abbia fatto ciò che andava fatto nell’essere lì, e me ne torno indietro soddisfatto.

Mi fa venire in mente Cassiopea, la tartaruga di Momo che riusciva a vedere trenta minuti nel futuro. Quella storia sul fatto che certi gesti vadano compiuti e basta. Anche se hai la certezza che quella singola azione non ti porterà al risultato, va comunque portata a termine, perché è il presupposto indispensabile affinché l’evento, quando è pronto ad avverarsi, si avveri.

Magari, invece, è soltanto che nella vita non mi basta mai, che quando ottengo qualcosa ne voglio di più e ancora.

Oppure una cosa non esclude l’altra.

Quando ho percorso la strada che porta al cimitero e alla Wilhelmstraße in senso inverso non c’era più l’ombra di una nuvola in cielo, tutto era terso e libero come i tavolini dai quali toglievo a colpi di spugna le macchie di caffè e i residui dei tramezzini.

Arrivato in fondo mi sono fermato in un’altra caffetteria di un altro edificio universitario, dove ogni tanto facevo dei turni supplementari quando mancava del personale. Quello era stato il posto dove avevo chiesto per la prima volta se fosse servito qualche studente dietro ai loro banconi. Avevo parlato con Frau Buchs, un donnone di origini rumene dall’aspetto materno che lavorava lì dentro, che mi aveva spiegato a chi dovessi rivolgermi. Probabilmente preoccupata dal mio aspetto oltremodo magro mi aveva regalato un paio di panini rimasti invenduti. Quello era stato un gesto non scontato e non comune, che avevo onorato trangugiandoli entrambi seduto con la schiena appoggiata al tronco di un albero sul prato antistante la caffetteria.

Anche qui, oggi, niente prodotti freschi senza la tessera da studente, così ho infilato qualche moneta in un distributore automatico e ho comprato un sandwich avvolto nella pellicola trasparente, che ho consumato mentre ad un tavolo prendevo ancora qualche appunto sul block notes.

Dopo quel momento basta, fine dei compiti. Ho chiuso il blocco, l’ho infilato nello zaino e per il resto della giornata non ho pensato a nient’altro che non fosse girare e girare ancora per la città.

Ho fatto il turista, comprese quelle robe nelle quali mi ero sempre ripromesso non sarei caduto.

Sono andato in riva al fiume e ho affittato una barchetta, una di quelle che come motore hanno i pedali e il timone di coda è manovrato da un volante. Per non so quanto tempo sono andato su e giù lungo il Neckar, circumnavigando la lunga isola che si trova nel mezzo, passando sotto i salici e distorcendo l’ombra che i platani proiettano sull’acqua, guardando la città da un’altra prospettiva ancora, sorprendendomi di avercela sempre avuta lì sotto gli occhi, come mi succede anche a casa mia quando un amico ogni tanto mi porta a fare un giro in barca a vela lungo la costa.

Ho camminato fuori e dentro le vie del centro, facendo la conta di tutte le Stolperstaine, le Pietre d’Inciampo, in cui sono riuscito a imbattermi. Per me sono una novità recente, ma in realtà esistono già dai primi anni Novanta, partorite dall’idea di un’artista tedesco. La prima è stata posata a Colonia nel 1992. Ora ce ne sono più di 130.000 in tutta Europa, qualcuna anche in Italia.

Sono mattonelle quadrate incise, conficcate nel terreno come normali sanpietrini, ma si distinguono per il fatto di essere di ottone dorato; è impossibile non notarle.

Si trovano in prossimità dei luoghi in cui hanno abitato, lavorato, vissuto donne e uomini vessati, deportati o uccisi dal regime nazista. Ne riportano il nome, la data di nascita, il destino e l’anno di morte, quando noto.

Ce ne sono circa 120 in tutta Tübingen, ma io sono inciampato soltanto su una ventina.

Sono andato alla ricerca di un posto che, scoperto da ragazzo, mi è sempre rimasto impresso. Una casa dello studente ricavata in quello che un tempo era stato un convento di suore. Ci avevo trascorso una serata in occasione di una festa, per poi non tornarci più. Non ero mai riuscito a ritrovarlo, sino ad ora; forse ingannato dal fatto che a fianco c’è la stazione di Polizia, e la mia mente deve aver fatto fatica ad allocare come contigui due luoghi idealmente così distanti fra loro.

Sono riuscito finalmente a cenare in un ristorante che puntavo da tempo ma avevo sempre trovato pieno, e questo mi ha fatto riflettere su come mi stia costruendo piano piano dei ricordi assieme a questa città che sono legati non solo alla giovinezza ma, ora, anche all’età adulta. Non so dire perché, ma è una cosa che mi riempie di gioia.

Quando infine è stato buio del tutto sono uscito dal ristorante e ho girato intorno ad angoli e consumato le suole lungo vie che sono state quasi esclusivamente mie, che mi sono state regalate da tutta la gente a casa intenta a leccarsi le ferite inferte dal primo giorno della settimana e che probabilmente non sarebbe più uscita se non per tornare al lavoro il giorno dopo.

Ho sfruttato tutta quell’abbondanza per fare breccia nei locali che ho trovato aperti che mi piacevano di più, partendo da quello più distante fino ad arrivare a quello più vicino al mio albergo, in un percorso metodico ed inarrestabile che avrebbe reso fiero di me ogni abitante di questo Paese.

In ambienti fatti di luce fioca e mobilio scuro, fra discorsi altrui sussurrati a quattr’occhi in confidenza, ho letto pagine e pagine del mio libro del momento disegnando sui tavoli un numero imprecisato di cerchi perfetti con il fondo imperlato di tutti i bicchieri di birra che mi sono bevuto.

Nonostante questo, posso affermare con tranquillità di esserne uscito tutto sommato sobrio e consapevole.

È anche vero, però, che il momento in cui sono rientrato in albergo restituendo l’ombrello e mi sono infilato sotto le coperte mi risulta tutt’ora confuso.

Continua...

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace7 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

        1. Credo proprio di sì, ma le Stolpersteine sono dedicate a tutti coloro che in qualche modo il regime nazista lo hanno subito, non solo ai deportati. Ad esempio, sono dedicate anche a chi è dovuto fuggire per evitarla la deportazione, e sulla pietra in quel caso è indicato in che Paese è fuggito.

  1. Il tuo modo di descrivere fa sorgere gli elementi del paesaggio umano come in uno di quegli antichi album per bambini che, una volta aperti, drizzavano navi, castelli, alberi e scenari d’ogni genere. Ne ho visto uno a casa di un amica e avrei voluto comprarne altri per me, ma non se ne fanno più. Richiedevano una dose di meraviglia ingenua, io credo, e in qualche modo erano simili ai ricordi prima di essere ricordati, quando ancora giacciono come fogli nell’anima.
    Mi ci hai fatto pensare.
    A Roma, dove vivo, e soprattutto nella zona del ghetto, si incontrano molte pietre d’inciampo. Sono di ottone e quand’ero bambina mio padre mi spiegò di cosa si trattava. Mi disse che non c’era nulla di irrispettoso a camminarci su, perché quello era un modo per ricordare che su quei morti -non solo ebrei ma anche partigiani e combattenti della Resistenza – noi stessi ci fondavamo e che il dolore non può essere dimenticsto solo facendo un passo di lato.
    Grazie, Roberto, per la tua scrittura così vigorosa e dolce.

  2. Interessante, scoprire, grazie a questo tuo racconto, delle pietre di inciampo.
    E bravo nel fare concorrenza a Giotto, in modo originale e moderno.😂.
    Ho l’ impressione che tu beva volentieri la birra; 😊 anch’io, soprattutto d’estate; peró, di solito, solo la nostra, che ha l’antico nome della Sardegna.

  3. Tra tanti “inciampi” mi ero perso questa lettura…ed è un peccato, perché è uno di quei testi che non raccontano solo luoghi, ma il modo in cui ci si appartiene. C’è una dolcezza disarmata nel tuo vagare: tra pietre d’inciampo, tavolini scompagnati e ricordi che si saldano al presente, trasformi la geografia in memoria, e chi legge finisce per sentirsi lì, a camminare piano accanto a te.

  4. “Mi fa venire in mente Cassiopea, la tartaruga di Momo che riusciva a vedere trenta minuti nel futuro. Quella storia sul fatto che certi gesti vadano compiuti e basta. Anche se sai già che quella singola azione non ti porterà subito al risultato, va comunque fatta, perché è il presupposto indispensabile affinché l’evento, quando sarà pronto, possa avverarsi.”
    Con questo passaggio mi hai conquistato 🤣🤣 Prima per la citazione (adoro Michael Ende) e poi perché riesci a dire in modo semplice quella che, per me, è proprio una filosofia di vita. Potrei aggiungere tanti altri passaggi che ho adorato👏👏 Questo per il momento è l’episodio che mi è piaciuto di più.

    1. Questa roba che viene fuori dallo scrivere mi lascia sempre a bocca aperta. Per le impressioni che genera intendo. Ti giuro che tutto avrei potuto pensare tranne che questo potesse essere un episodio gradito quanto lo hai gradito tu. Grazie di avermelo fatto sapere.

  5. Un altro episodio dove scopro una cosa nuova. Ammetto di non sapere nulla di queste pietre dell’Inciampo, e mi riprometto di approfondire l’argomento. Mi piaciuta molto la citazione da Momo in fase iniziale, ha dato all’intero racconto un valore aggiunto. Forse è proprio vero che tutto, anche i gesti più piccoli, hanno il compito di portarci a qualcosa.