Incontri inevitabili

Serie: DEA


Cortili e giochi segnano l’infanzia, ma l’adolescenza divide. Dea, ruvida e appassionata di calcio e motori, segue la corrente verso una vita ordinaria. La musica diventa invece un rifugio solitario. I legami si spezzano, i sogni prendono strade opposte, lasciando un silenzio tra loro.

Frequentavo la seconda media e il professore di musica — “professore”, chissà da dove arrivava —, stanco di farci suonare “Fra Martino” con il flauto, portò a scuola la sua chitarra. Ci mise in cerchio: eravamo pochi, perché molti genitori più accorti avevano iscritto i rispettivi figli altrove, evitando loro un destino già scritto. Dopo aver suonato qualche accordo, ci invitò a provare uno alla volta.

La chitarra passò di mano in mano, tra risate e tentativi goffi di produrre almeno una nota. Quando arrivò a me, avevo osservato il professore pochi istanti prima e, senza sapere davvero cosa fare, riprodussi fedelmente ciò che avevo visto. Tra lo stupore generale, interpretai quei gesti con naturalezza, come se lo avessi sempre fatto. Io non dovevo imparare a suonare quello strumento: lo sapevo già fare. Era parte di me.

Presi coscienza che quello poteva essere il mio futuro, la mia via di uscita da una situazione che sembrava segnata. Purtroppo non fu così per i miei genitori. Nonostante le mie capacità artistiche — ero bravo anche nel disegno — e gli sforzi dei professori, mio padre aveva già deciso: bisognava “portare fieno in cascina”. Un buon meccanico, secondo lui, era un futuro sicuro.

Così finii all’istituto tecnico. Venivo dalle scuole sperimentali, frequentate dalle elementari alle medie, dove si teorizzava l’insiemistica prima ancora di saper fare una divisione e dove la didattica si perdeva tra giochi e astrazioni. Arrivai alle superiori senza basi, disorientato, incapace di affrontare le materie classiche. Il risultato fu inevitabile: abbandonai presto la scuola. Un’uscita precoce, figlia di un progetto educativo fallimentare e di uno Stato colpevole, che aveva scelto le scuole di periferia per un esperimento destinato a fallire. Una scelta consapevole, che ha costretto chi, come me, a pagare il prezzo di una follia educativa. Molti dei miei compagni, non a caso, sono finiti tra le braccia dell’eroina e hanno pagato con la vita scelte non loro.

Dea aveva trovato il suo equilibrio nella normalità, nelle sue aspettative di sempre. Un lavoro qualunque, un fidanzato motorizzato al meglio e qualche weekend fuori porta. Aveva raggiunto quella forma di benessere che, da ragazza, le era sembrata il punto d’arrivo della vita. Io invece inseguivo l’arte, combattendo i miei mulini a vento. Il tempo e le diverse visioni della vita ci avevano allontanati, entrambi alla ricerca del nostro posto nel mondo, come due linee destinate a non incontrarsi mai più.

La mia passione per la musica cresceva a dismisura. Iniziai a frequentare luoghi dove finalmente potevo esprimere il mio talento. La prima chitarra la “rubai”, non nel senso stretto: la acquistai da un amico, promettendogli di pagarla poco alla volta, cosa che poi, in pratica, non feci del tutto. Era uno strumento da due lire, non valeva davvero il prezzo richiesto. Nonostante i miei sforzi, capii presto che “la musica non portava denaro”, come ripeteva mio padre. Poco alla volta, tentativo dopo tentativo, in assenza di prospettive, smisi di crederci e mi orientai verso una vita più disincantata, tenendo per me quella forma di espressione.

Intorno a me e ad altri vecchi amici del quartiere si creò un ritrovo spontaneo. Più che un gruppo, era un punto d’incontro. Anime diverse per età e visione del mondo si ritrovavano ogni sera al parchetto. C’era chi arrivava per organizzare la serata e chi restava semplicemente a parlare: un po’ di tutto e un po’ di niente. Come una piazza di paese, quel luogo era diventato uno spazio libero dove ognuno trovava il proprio modo di esserci.

Ritrovai Dea una sera. Scese dalla moto del suo fidanzato, si tolse il casco ed esibì la sua chioma riccia, con quell’aria da donna sicura di sé. Lui sembrava lì per caso, quasi un accessorio al suo fianco. Non mi riconobbe, credo. Io invece feci finta di nulla, come se non esistesse. Avevo i miei pensieri, i miei giri, le mie serate. Di lei, in quel momento, importava poco. Però la notai.

Col tempo, come spesso accade, si crearono legami più stretti. Alcuni nascevano da affinità precise, altri da dinamiche casuali. E così, quasi senza volerlo, Dea e il suo ragazzo iniziarono a gravitare intorno a noi. Il nostro gruppo, con qualche anno in più sulle spalle, sembrava offrire equilibrio, maturità e una certa stabilità. Eravamo dispensatori di consigli per tutti, ma anche attenti osservatori dei rapporti che si intrecciavano attorno a noi. Ciascuno dei single aveva la propria strategia per conquistare il cuore di qualche nuova fanciulla. Forse anche per questo, tra una chiacchiera e una birra, ci si ritrovava spesso insieme.

Non volevo essere io a farmi avanti. Così, quando mi disse: «Ma io ti conosco, sei quello delle cantine», riferendosi al posto dove ci ritrovavamo da piccoli, feci finta di nulla. «Sì, può darsi, non ricordo», risposi, mentendo con consapevolezza. Avevo i miei scheletri nell’armadio, piccole cose da ragazzini per cui provavo un filo di vergogna. «Sì, forse mi ricordo di te… la ragazzina che giocava con i maschi». «Ah, però sei cresciuta bene, vedo», aggiunsi. Lei mi ricambiò con un mezzo sorriso, sufficiente a ridurre ogni distanza. Alla fine, le nostre energie dovevano trovare un punto di contatto. Era inevitabile.

Diventammo un gruppo stabile all’interno della comunità del parchetto. Ormai adulti, fidanzati, ciascuno con il proprio progetto futuro. Durante la settimana ci si ritrovava lì, mentre nel weekend ci si organizzava diversamente. Si passava la serata con le rispettive compagne in uno dei locali abituali e poi, riaccompagnate le donne, si tirava mattina in qualche modo.

Continua...

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