La caduta

Serie: La donna con l'aquilone


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Una donna aspetta l'arrivo dei nemici che ha combattuto per tutta la vita. Il racconto è basato su fatti veri, ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente casuale.

L’elicottero passò così vicino al palazzo che le finestre sembrarono stessero per infrangersi. Aida diede appena uno sguardo fuori e tornò subito a scrutare preoccupata il monitor del computer. Cliccò sul simbolo del telefono nella schermata di Skype ma non successe niente. Riprovò ancora ma la chiamata non voleva partire. La donna, agitata, provò altre due volte prima che la schermata divenne completamente buia, spenta.

«No no no…» sussurrò preoccupata.

Diede uno strattone al cavo dell’alimentazione. Riattaccò la presa ma il computer non dava segni di vita.

Premette l’interruttore della luce della stanza. Niente luce. C’era un blackout.

«Merda!» urlò Aida sull’orlo della disperazione.

Si accasciò al muro in preda ad un pianto isterico. Il suono dei suoi singhiozzi fu coperto dalle eliche di un altro elicottero.

«Mamma?»

Una bambina toccò la spalla di Aida.

«Mamma perché stai piangendo?» le chiese con uno sguardo spaventato la bambina.

Aida si asciugò in fretta le lacrime e cercò di sorridere alla figlia. Le tirò, dietro l’orecchio, una ciocca di capelli corvino, come i suoi. Gli occhi azzurri della bambina la scrutavano in attesa di una risposta che la madre non era in grado di dare.

«Non c’è la luce, tesoro» le disse accarezzandola.

«Io non ho paura del buio.»

Aida strinse la figlia in un lungo abbraccio e si abbandonò in un nuovo silenzioso pianto. L’oscurità, la vera oscurità, stava arrivando, e bisognava essere forti e coraggiose.

Un altro elicottero passò radente il palazzo.

Aida prese in braccio la figlia e si affacciò alla finestra. Il suo appartamento si trovava nel centro di Kabul, vicino al palazzo della Corte Suprema, dove lavorava come uno dei pochi giudici donna della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Dalla finestra vedeva il fumo nero alzarsi dagli uffici dell’enorme complesso dell’ambasciata statunitense. Gli elicotteri atterravano sul tetto, rapidamente imbarcavano il personale e poi ripartivano diretti verso l’aeroporto. Fuggivano. L’Occidente era in fuga, pressato dall’avanzata della nebbia nera dei talebani che minacciava di riportare il Paese nell’oscurità. Aida guardò la figlia che osservava con curiosità gli elicotteri, ignara del pericolo che avrebbe corso se la capitale fosse caduta in mano agli studenti coranici. Lei se lo ricordava bene il periodo della prima occupazione dei talebani. Aveva l’età di sua figlia, ma ricordava il coraggio di sua madre che insegnava clandestinamente a lei e alle altre bambine del villaggio in una scuola di fortuna. Ricordava il momento in cui le misero per la prima volta il burqa, si sentì imprigionata e allo stesso tempo al sicuro, non vista, ma incapace a sua volta di vedere lucidamente il mondo esterno se non attraverso le fessure nel tessuto. Vedeva il mondo come i talebani volevano lo vedesse, e vide l’esecuzione di suo padre e dei fratelli.

La suoneria del cellulare squillò prepotente nel silenzio della casa.

Aida vide il nome e la foto del profilo e rispose seccata.

«Dove eri finito?» chiese in inglese.

«State bene? Siete a casa?» rispose una voce maschile dall’altra parte nella medesima lingua.

«Chi è?» chiese la bambina.

«È papà.»

«Aida ascoltami, stanno evacuando tutti i cittadini americani, collaboratori e altre persone che possano essere bersaglio dei talebani.»

Aida sbuffò scandalizzata.

«Bersaglio? Will ma che caz…» si interruppe perché la figlia la guardava preoccupata.

Si piegò sulle ginocchia e accarezzò la piccola.

«Tesoro vai di là a giocare» le disse dolcemente.

La bambina incrociò le braccia contrariata.

«Vai, ho detto» disse la madre con tono più severo.

La bambina pestò un piede e uscì dalla stanza.

«Will che cazzo stai dicendo? Bersaglio? Mi spareranno appena entreranno in città, sono in cima alla loro lista cazzo!» disse velocemente. Voleva sembrare calma ma non lo era affatto.

«Lo so cosa rischi, ma devi mantenere la calma.»

«Non dirmi di stare calma, Cristo!» urlò e questa volta non si curò di far sembrare di non essere spaventata.

Will non rispose e Aida frenò alcuni singhiozzi, nuovamente in preda al terrore.

Un elicottero passò vicino alla finestra e riportò entrambi ai problemi pratici delle circostanze.

«Aida ascolta attentamente» disse Will. «Prendi la bambina e vai all’ambasciata, mostra il passaporto della bambina, non il tuo, solo quella della bambina, fai vedere che è americana.»

La donna scosse la testa incerta.

«M-mi fermeranno» balbettò.

«Non la possono separare dalla madre, ti faranno entrare.»

Aida guardò il fumo levarsi dall’ambasciata e crollò sul muro, disperata.

«Aida…Aida ascolta…» continuò Will, ma si interruppe sentendo i singhiozzi della donna. «Aida andrà tutto bene…te lo prometto.»

La donna sbuffò.

«Lo avevate promesso anche vent’anni fa…»

Will non rispose, sapeva che Aida aveva ragione.

«Senti…qui è il delirio, sto provando a contattare Johnny ma non è raggiungibile, forse Zack ha il contatto di qualcuno che lavora nella nostra ambasciata, provo a chiedere.»

Aida si mise una mano sulla fronte e scosse la testa divertita. Era tipico del suo ex compagno. Trovava la calma in ogni situazione. Freddo e glaciale non si lasciava mai trasportare dagli eventi, sapeva sempre cosa fare, restando distaccato ed emotivamente indifferente. Era un aspetto di lui che aveva odiato per lungo tempo, ma che ora amava come non mai.

«Hai ancora il contatto di quella giornalista della CNN? Potrebbe aiutarci. Io provo a chiedere anche a Jimmy…suo fratello è nei Marines…Aida? Aida mi senti?»

«Will?» disse la donna. «Will?» guardò il monitor dello smartphone. I tre pallini della chiamata in corso continuavano a tamburellare davanti ai suoi occhi ma dall’altoparlante del telefono usciva solo il suono della chiamata in attesa.

«Aida?» di nuovo la voce di Will si fece viva.

Un elicottero passò e il rumore sovrastò ogni cosa. Quando passò Aida vide che Will aveva interrotto la chiamata.

«Merda» sussurrò mentre impaziente ticchettava sullo schermo per richiamare.

Il suono della chiamata in attesa.

«Merda!» gridò e la paura rimontò dentro di lei.

Con le dita tremanti richiamò Will. Squillava. Continuò a squillare finchè non partì la segreteria. Chiuse la chiamata esasperata. Guardò il monitor del telefono e vide che non c’era campo. Si accasciò a terra in preda ad una nuova crisi di pianto.

Fece lunghi respiri e con enorme sforzo si calmò. Non poteva abbattersi. Doveva salvare sua figlia.

Si alzò, determinata e risoluta a fuggire da quella città. Si asciugò le lacrime con le mani tremanti e si avviò a prendere la bambina quando suoni dalla strada si mescolarono al crepitio delle pale degli elicotteri.

Un brivido di paura le corse lungo la schiena. Lentamente si avvicinò alla finestra. Sentiva il rumore sempre più chiaro. Urla, clacson e spari. Raffiche di mitra. L’inno inconfondibile dei talebani. Si forzò ad allungare il collo, e quello che vide la terrorizzò:

colonne di pick-up bianchi con le insegne talebane sfilavano alternate ad Humvee catturati all’esercito afghano. Dietro i pick-up e fuori dai finestrini i guerriglieri imbracciavano M16 americani e AK-47 di fabbricazione sovietica. Aida si allontanò dalla finestra, col respiro affannato, spaventata. Tra spari e urla, tutto il suo mondo era crollato così.

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