
La casa dell’infanzia
L’immagine che più spesso torna alla mia memoria è quella della nonna e della vecchia casa, che ho finto sempre di non amare, ma alla quale in realtà sono attaccata fino all’anima.
La casa non c’è più e neanche la nonna. Tutto è andato perduto, scivolato via dalle mie mani.
Mia nonna nacque nel 1915. Più di un secolo fa e prima delle Guerre. Mi hanno sempre raccontato della sua giovanile bellezza e di come mio nonno fosse partito in gruppo con altri per andarla a conquistare, facendo a botte con i rivali del paese vicino. Lei stessa non ha mai sfatato questo mito, ma se ne è spesso compiaciuta, mostrandomi le sue fotografie a testimonianza.
Io, personalmente, ho dissentito in silenzio. Ho sempre considerato mio nonno molto più avvenente di lei. Moro, con bellissimi occhi neri e fieri. Un portamento quasi nobile, potente e carismatico. Personaggio che, nonostante la morte prematura, molti ancora ricordano, ciascuno con il proprio aneddoto da raccontare. Una sorta di benefattore, anche se non nel mio modo da adulta d’intendere le cose.
«Sei stata la preferita del nonno», mi hanno sempre detto: coccolata e apprezzata come prima nata nella famiglia ed esposta agli altri come una specie di trofeo. Sempre partecipe assieme ai “grandi” agli aperitivi in piazza oppure alle cene nei ristoranti. Mai fuori luogo e obbediente come un soldatino. Una bimba già grande che guardava e giudicava facendosi un’idea sua del mondo e della vita.
Il grigio è il colore che maggiormente associo alla mia infanzia trascorsa nella casa. Non il grigiore della noia o della monotonia, bensì il colore vero e proprio. La grande casa era grigia quasi in ogni sua parte, calcestruzzo e intonaco, inferriate comprese. Tuttavia, attorno a essa esplodeva il parco. Grande, misterioso e avvolgente, con i suoi alberi secolari e il manto di aghi di pino sotto di essi. Il gioco preferito da noi bambini era certamente il nascondino perché quelle fronde offrivano meravigliosi nascondigli. Ricordo che sugli alberi a volte ci si arrampicava, naturalmente eludendo il controllo della nonna, che poi ci metteva in punizione a causa della resina attaccata ai vestiti. I ragni erano ciò che più ci terrorizzava: ce n’erano molti, delle forme e colori svariati. Non ne ho più visti di simili.
Durante i pasti domenicali, noi bambini eravamo considerati e trattati come piccoli principi. I nostri vestiti della festa venivano scelti accuratamente da madri in ghingheri uscite da poche ore dal negozio del parrucchiere. L’unica con grembiule e ciabatte era la nonna; la mamma e le zie partecipavano invece a una specie di gara. Le zie, certamente consapevoli della loro posizione sociale, brave nel sostenere conversazione, ma pessime di carattere, imprinting della famiglia. Mia madre, figlia di fornai, molto più bella e dolce, rotonda nelle sue forme, occhi azzurri che non ho ereditato. Una vita spesa a lottare per essere considerata e un riscatto non ancora arrivato.
Degli zii ho molti piacevoli ricordi e restano vivi in me la loro gentilezza e il loro sorriso. Giocherelloni e burloni, con un buon profumo. Se focalizzo la mente su quei momenti, vedo come in una fotografia la grande sala calda dove mangiavamo e sento il profumo del cibo cucinato dalla nonna. Io sono abbracciata allo zio e guardiamo lo sci in televisione. Non che questo sport mi sia mai particolarmente interessato, tuttavia non si poteva rinunciare all’abbraccio ricevuto in quei momenti. Questo zio particolarmente sfortunato, di cui la famiglia ha da anni perso le tracce.
Di mio padre non ho ricordi. Per quanto io mi sforzi, non riesco a vederlo o percepirlo nelle domeniche in famiglia. Un uomo solo e bisognoso di aiuto, ma incapace a chiederne. Nulla in lui oggi è mutato e io ho smesso di soffrirne da tempo.
Tornando alla casa, ho sempre pensato nascondesse segreti nelle sue svariate stanze, molte di esse chiuse o comunque interdette a noi bambini. Locali pieni di oggetti personali appartenuti a parenti defunti. Biancheria raffinata, pizzi, abiti cuciti a mano. Ciò che ci attirava maggiormente erano i libri dei morti, neri nelle loro copertine lavorate in pelle. All’interno le fotografie: adulti e bambini in pose innaturali ci fissavano con i loro occhi bianchi e aperti. Il funerale del bisnonno immortalato nelle immagini di una carrozza lugubre trainata da cavalli lungo le vie del paese, seguita dalla popolazione. Come se fosse il corteo a seguito di un sovrano. Se ci ripenso oggi, la nostalgia mi prende come una mano che mi stringe lo stomaco.
Il tempo e l’incuria, figlia del tarlo della pigrizia e del disinteresse che si annida da sempre nella mia famiglia, si sono mangiati tutto; anche gli oggetti nella grande e unica soffitta, che se avevi il coraggio di percorrerla, ti portava da una parte all’altra della casa. Ogni cosa è stata arraffata da mani avide ed esperte, oppure inesorabilmente perduta.
Faccio spesso sogni in cui mi ritrovo nella casa con la viva sensazione di essermi lasciata sfuggire quasi tutto. Il mio carattere spesso troppo remissivo e accomodante, non mi ha permesso di sopravvivere nella famiglia che oggi è oramai sgretolata, segnata dalle molte morti e dai pochi figli, dall’egoismo e dalla incapacità di amare.
Io mi sono fatta la mia, numerosa il giusto. Amorevole, equilibrata, all’interno della quale ciascuno dei componenti si realizza a modo suo.
Sono però un essere dimezzato, mai capace fino in fondo di scrollarsi tutto di dosso e guardare avanti, sempre troppo legata a una famiglia di origine alla quale, tuttavia, non ho mai sentito di appartenere pienamente. Una sorta di terra di mezzo. Abito a festa e loquacità da buona conversatrice che ha studiato molto, portata in palmo di mano solo nelle occasioni e nelle circostanze di convenienza. In realtà, un animo profondamente diverso il mio, che mi ha aperto possibilità e spinta a fare esperienze che la mia famiglia di origine nemmeno immagina. Quasi tutto fatto da me, senza condivisione con chi non ha mostrato mai interesse. So di essere per loro una specie di mistero, diversa e da ostacolare o combattere a priori e a prescindere. E d’altronde, come biasimarli? Io guardo in un modo che a loro non piace e che li mette a disagio. E’ forse l’unico modo che conosco di rapportarmi a loro.
Oggi la casa non c’è più. Sulle sue fondamenta ne è sorta un’altra: colorata e chiassosa. Aperta ad amici e parenti acquisiti, un posto dove tutti possono stare bene. La fotografia della nonna l’ho messa vicino alla finestra che guarda sul giardino. Ogni tanto le parlo, ma quasi sempre lo faccio con parole dure e di rimprovero, come se ricadessero su di lei le colpe dei figli che ha generato.
Io provo a guardare avanti, ma non dimentico da dove vengo. I fantasmi sono parte di me e anche la casa lo è. Forse il tempo metterà tutto a posto. Da nipote e figlia, adesso sono anche madre e moglie. Sono un contenitore dove tutto si mescola e dove il tempo si annulla. Sono la donna nel parco che guarda la bambina alla finestra della vecchia casa.
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Chissà perché, la casa dei nonni è per tutti un ricordo indelebile. A volte mi capita di sognarla, e ci sono anche o i nonni o gli zii. Questa visione onirica si accompagna spesso a un senso di colpa, perché nel sogno sono io che ho dimenticato la loro esistenza, e non loro che sono andati via.
Credo che, di fronte ai ricordi che tu ben definisci ‘indelebili’ siamo tutti esseri ‘dimezzati’. Una parte di noi soggiorna in questa casa dell’infanzia da cui non riusciamo e nemmeno vogliamo uscire. Grazie Concetta per la tua preziosa lettura.
Un “lessico famigliare” di grande purezza, incanto, eleganza. In questo tuo scritto hai spalancato un intero mondo dentro una sola mano. La tua scrittura scorre e discorre, come una luce serale nell’acqua. E non finisce.
Grazie Luigi. Uno di quei ‘non racconti’ che restano custoditi dentro, come preziosi in uno scrigno, fino a quando l’esigenza di scrivere prende il sopravvento. Io ho la cattiva abitudine di spargere pezzi di me ovunque. Come fossero a comporre un puzzle.
Grazie a te di questo dono prezioso della tua interiorità.
Mi sono lasciato trasportare dalle dolci parole di questo racconto dentro un vortice di sensazioni, intime e calorose; mi sono sentito parte anche io della storia di questa famiglia. Racconto caldo e affabile. Mi è piaciuto. Complimenti
Grazie Giglio:)
Questo è un racconto fortemente autobiografico che, nella sua versione estesa, mi ha dato molte soddisfazioni. Io sono felice che tu ne abbia colto i colori caldi. Un abbraccio
Un racconto molto bello e molto malinconico.. una lenta pellicola grigia che scorre, assieme alla vita.. solo alla fine citi i “fantasmi” che, probabilmente, attraverseranno successive narrazioni
Grazie caro Furio. Questa è l’edizione ‘ridotta’. Se ti va di approfondire e scoprire qualcosa di più, il racconto che ho mandato al Bukowski è l’edizione estesa che qui su Open si intitola ‘Il frinire assordante delle cicale’. Un abbraccio
Molto intimo ed evocativo, sospeso tra ricordo, sogno ed il bisogno di collocarsi all’interno degli spazi familiari. Mi ha fatto venire in mente Metagenealogia di Jodorowsky
Leggendo il tuo commento mi viene un WOW grande una casa. Grazie, ma non credo di meritare un paragone simile. Un abbraccio
Leggendo il tuo racconto ho trovato molto di me fra le tue righe. Convenzioni dettate dall’apparenza, silenzi non assensi: per il “quieto vivere” imposto, si tace. Spezzare quelle catene, anche da adulto, è difficile ma riempie i polmoni d’aria fresca. Come altri autori che hanno lasciato il loro commento, mi piace che nella tua storia emerga la parte più dolce: se pur traspare un filo d’amarezza, in questi ricordi c’è molto amore.
Grazie Micol. Ho provato rancore per così tanto tempo che poi, per la mia salute fisica e mentale, ho dovuto sforzarmi di trovare una maniera diversa. Ho scoperto che la scrittura, nonostante io l’abbia intrapresa da pochissimo, mi aiuta tanto. Grazie per il tuo commento.
La famiglia. L’infanzia. Ci modellano, bongré ou malgré. E noi le nostre e quelle altrui, per imitazione o repulsione. Spaventa. Bellissimo racconto.
È vero, spaventa tanto. Grazie Curzio per il tuo apprezzamento
Bellissimo, Cristiana, questo ricordo che hai voluto condividere, senza finzioni; risparmiandoci il bel quadretto di una grande famiglia adorata e perfetta, di quelle che esistono solo in certi spot pubblicitari. Piu` passa il tempo e piu` succede anche a me di ritrovarmi in alcune situazioni che hai descritto. Scrivere ha sicuramente anche una funzione liberatoria e di un viaggio interiore per essere piu` consapevoli della nostra vita. Un canale per esprimerci nel modo in cui ci e`, forse, piu` congeniale. Sei riuscita a farlo con uno stile elegante, in modo coinvolgente e confortante. (Quante ante!😀 Beppe Severgnini mi bacchetterebbe). Grazie Cristiana.
Questo racconto è nato da una sorta di sfida in cui mi sono buttata volentieri e sono riuscita ad aprirmi, forse per la prima volta. Sento che c’è un mondo che vuole venire fuori e ci devo lavorare sopra. Sicuramente è stato liberatorio. Mi fa piacere che tu abbia utilizzato l’aggettivo “confortante” perché non volevo che passassero sentimenti negativi. Dobbiamo accettare il nostro passato e rivederlo con occhi nuovi. Astio e rancore non fanno altro che complicarci il presente e condizionare il nostro futuro. Grazie ancora per aver letto.
Molto bello questo racconto. Ormai si riconosce il tuo stile ma qui lo vedo più “grigio” , più malinconico. Le descrizioni mi sono veramente piaciute, calde e leggere come dei ricordi d’infanzia. Mi hai proprio trasportato in uno di quei pranzi domenicali. Poi viene la parte dell’analisi introspettive che mi ha ricordato la figura di una eroina di Isabel Allende. La casa, la saga familiare, lo stile, tutto mi ricorda “La casa degli spiriti”. Brava!
Grazie Carlo per il tuo prezioso commento che mi ha fatto riflettere. E’ proprio vero che il nostro trascorso fa parte di noi, così come le letture che più ci appassionano. Credevo di essermene staccata per un attimo e invece mi accorgo che comunque gli elementi affiorano. Il paragone che fai è qualcosa di troppo grande e lontano, però ti ringrazio di averlo fatto. Mi dà molto coraggio!
“Una vita spesa a lottare per essere considerata e un riscatto non ancora arrivato” una frase bellissima che dice tutto del tormento interiore di un’anima vissuta in gioventù in mondo troppo stretto. Neanche il tempo può cancellare ricordi così sofferti che riaffiorano a volte senza un perché. Per tutto il resto concordo con quanto ha scritto Roberto, un librick da allegare a questo librick.
Vorrei fare di più per mia madre, ogni giorno e ogni momento. Tuttavia mi resta sempre l’amarezza di non farcela abbastanza. Vorrei lottare al posto suo che adesso è stanca. Questo mi dà una forza incredibile. Mi è piaciuto condividerlo, anche se in una breve frase. Dietro c’è il mondo. Grazie per aver letto.
Sempre bello leggerti 🙂
Grazie Kenji, direi che ce la caviamo tutti molto bene sia come scrittori che come lettori!
“Sono un contenitore dove tutto si mescola e dove il tempo si annulla. Sono la donna nel parco che guarda la bambina alla finestra della vecchia casa”
Conclusione bellissima di un racconto molto intimo e personale. Grazie
Grazie a te Stefano per averlo letto. Non è stato facilissimo condividerlo
Perchè scriviamo? Chi di voi, con cui condivido questa genuina passione, può affermare che no, non se l’è mai chiesto?
Ed ecco la nostra Cristiana, pura nell’intento, limpida nella narrazione, che ci viene in soccorso.
Perchè lei ci racconta, con semplicità e profondità, una storia che si rispecchia in tutti noi.
Sono fermamente convinto che nella declinazione dei verbi di ogni autrice/autore che si rispetti, ci debba sempre essere posto per tutte le persone, dalla prima “Io” all’ultima “Essi”.
Così leggevo e Cristiana mi parlava. Poi si rivolgeva a te che stai scorrendo qeste righe, che ricordi proprio “quella” stanza chiusa. E ancora a noi, che siamo saliti di nascosto sui rami. Un Amarcord di una infanzia che resta vivida, forse più nel sentimento, fermo sui suoi cardini, che nel visuale soggetto all’usura del tempo.
Una casa, una mamma e un papà. Ci chiediamo, da grandi, perchè hanno fatto, forse ancor di più perchè non hanno fatto. Quello che è stato detto e quanto taciuto. Ci sono cose che fanno male per una vita intera, inutile nasconderlo. Ma non sapremo mai tutto fino in fondo. E che non sia questo il discorso “buonista” o, come si dice a Roma, del “volemose bene” a tutti i costi: ci sono storie che fanno drizzare i capelli. Episodi che hanno segnato, senza ma e senza se, la fine di un rapporto.
Ho amato tanto, ma tanto, quel concludere non sconfessando il proprio passato. Sentirsi comunque parte di un mondo da cui poi, misteriosamente, ne è derivato un altro. Eppure chissà che parole e gesti, inconsapevoli, ci portiamo dietro. Uno sguardo, il movimento delle mani, un sorriso. Frammenti di acido desossiribonucleico che formano un filo sottile, invisibile ai più – ma non a chi sa.
Bello, bello questo racconto. Consiglio all’autrice di lasciarlo aperto a una futura rivisitazione. Siamo delle astronavi che viaggiano veloci verso la luce di nuove stelle.
“Brava!” non basta: c’è l’inchino, alla maniera orientale, da parte di chi ha ricevuto a colei che ha donato.
Che posso dire? Mi hai chiesto un racconto, e io ero un po’ tra il “giù” e l’arrabbiato. Così è venuto fuori e mi ha aiutata a stare meglio. Il finale lo regalo a te. Grazie