
La finestra sul cortile
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Cambiamenti
- Episodio 2: Il rivolo sottile
- Episodio 3: Sfide
- Episodio 4: Quei paesi che finiscono per ATE
- Episodio 5: Punti di osservazione
- Episodio 6: Nessuna ragione per non farlo
- Episodio 7: Qualcosa in comune
- Episodio 8: Non oggi
- Episodio 9: Svolte
- Episodio 10: Per la prima volta
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
- Episodio 8: La bottiglia vuota
- Episodio 9: Fotografie
- Episodio 10: Non dirlo a nessuno
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
STAGIONE 1
STAGIONE 2
STAGIONE 3
La strada in cui abitavo si chiama Geissweg. In un tedesco arcaico e dialettale vuol dire “Sentiero delle capre”. L’ho scoperto da poco, allora non lo sapevo, o forse non mi ero mai posto la domanda.
Non faccio fatica a spiegarmi perché le abbiano dato questo nome. A pensarci è perfetto.
Ci si arriva passando per una strada in salita che parte dalla Wilhelmstraße in direzione di una bassa collina. Percorrendo qualche centinaio di metri sulla destra si trova il cimitero della città, scenografico, gotico, costantemente all’ombra degli alberi che ne circondano il perimetro e interrompono qua e là file di tombe e lapidi che a volte riportano incise date prossime ad essere antiche.
Continuando la salita per qualche altro minuto, sulla sinistra si stacca una stradina che corre parallela a quella principale, di poco rialzata, separata da questa da una fitta coltre quasi boschiva. È una linea d’asfalto stretta, con una serie di abitazioni basse sulla sinistra, e ora che so cosa voglia dire il nome che porta me la immagino facilmente come poteva essere una volta, ancora più risicata, fatta di terra battuta calpestata da zoccoli cocciuti che scendevano dai pendii lì vicini.
Geissweg è un vicolo cieco, in fondo al quale c’è il mio vecchio studentato, verdissimo e isolato. Ci si arriva salendo tre gradini di cemento, ai lati dei quali ci sono piante il cui fogliame si intreccia a formare un arco, come quelli che si vedono nei film sotto i quali passano gli sposi dopo le cerimonie.
Quei tre scalini portano ad un piccolo piazzale, interno rispetto alla strada, circondato da cinque edifici a due piani dalle facciate bianche e marroni. Io stavo in quello più distante dagli scalini.
Le facciate hanno finestre bordate di un rosso Kubrick. Una di quelle finestre che dà sulla corte era la mia, ma adesso non si vede quasi più, è coperta da arbusti e fogliame ai quali andrebbe data una spuntata. Da dietro quella finestra, mentre studiavo o pensavo ai fatti miei, ho guardato ogni tipo di condizione atmosferica accanirsi sull’unico albero che sta esattamente al centro del cortile. Una pianta dai rami molto lunghi, dai quali ora penzolano, legate per le stringhe, delle scarpe. Diversi tipi di scarpe. Da ginnastica, da montagna, di pelle. Da quando ho cominciato a ritornare sono sempre state lì, non so quando abbiano iniziato ad appenderle, quando ci abitavo io non c’erano. Devo dire che un po’ mi dispiace, avrei voluto essere tra quelli a cui è venuta l’idea.
Quando ero stufo di studiare uscivo dalla mia stanza, percorrevo un corridoio corto sul quale affacciavano altre due camere e uno dei bagni, passavo davanti ad un mobiletto da poco con un telefono sopra ed andavo in cucina. Da lì, una finestra dava direttamente su un grande giardino sul retro. Non c’era un accesso vero e proprio al prato, di solito mettevamo delle casse di birra vuote all’esterno, sotto la finestra, che fungevano da scalino, e da lì passavo scavalcando.
Dal prato mi sgranchivo le gambe facendo il giro dell’edificio, ritrovandomi su un minuscolo passaggio piastrellato che mi avrebbe portato nuovamente sul piazzale con l’albero. Ma mi fermavo prima, davanti agli scalini in metallo traforato che erano l’accesso al mio edificio, su quelli mi sedevo e mi giravo una sigaretta. La fumavo avidamente sino all’ultimo tiro, e il poco che rimaneva lo facevo cadere in una delle fessure degli scalini. In quei due anni ho contribuito non poco al cimitero di tabacco consumato avvolto in carta bruciacchiata che si era formato lì sotto. Ce ne sono ancora tanti di mozziconi in quell’avvallamento, e visto che è un punto riparato dove a nessuno verrebbe la briga di dare una pulita, non vedo perché alcuni di quelli non possano essere ancora i miei.
Un paio di anni fa quegli scalini in metallo ho trovato il coraggio di salirli, per poi trovarmi nell’androne buio e fresco dell’edificio. Da lì sono sceso per altri tre gradini e mi sono fermato davanti alla porta d’ingresso del mio vecchio appartamento. Ho suonato, quasi sperando non ci fosse nessuno in casa. Mi hanno aperto due ragazzi giovani, sembravano Rod e Todd Flanders. Impreparato al successo, per qualche secondo sono rimasto lì impalato senza sapere cosa dire. Alla fine ho trovato le parole, ho spiegato loro che da ragazzo avevo abitato lì e ho chiesto se potessi entrare a dare un’occhiata. Si sono guardati, hanno alzato le spalle e mi hanno fatto segno di accomodarmi. Era tutto come lo ricordavo, la cucina ormai desueta, la finestra sul giardino, il corridoio stretto e buio. Sono rimasto pochissimo, il tempo di osservare l’ambiente, di annuire, di buttare un occhio alla porta di quella che era stata la mia stanza. Era chiusa, chi la occupava non era in casa, e io non ho voluto insistere affinché la aprissero. Ho ringraziato, ho salutato e sono andato via.
Questa volta no, non ho suonato. Mi sono limitato a passeggiare tra gli edifici per qualche minuto e sono tornato indietro. Nel farlo, come al solito ho incrociato qualcuno che mi ha chiesto se stessi cercando una persona in particolare. Ho spiegato che stavo solo dando un’occhiata, che una volta avevo abitato lì. Quel qualcuno mi ha guardato con fare a metà fra il convinto e il dubbioso, mi ha risposto con un “Also, alles klar” ed entrambi siamo tornati alle nostre vite.
Magari è successa anche a me la stessa cosa quando vivevo lì e non me lo ricordo.
Magari era vera la storia che c’è qualcosa che ti impone sempre di tornare. Magari era vera allora come lo è oggi e come lo sarà in futuro.
Magari un giorno dietro a quell’edificio, o nel cortile, o sulle panchine davanti alle quali accendevamo il fuoco alla sera, bevevamo e fumavamo e parlavamo fino a tardi, magari un giorno ci incontrerò qualcuno che ha abitato lì con me, che ha sentito la città che lo chiamava e io saprò esattamente che cosa prova.
Magari avrà anche lui qualcosa da darmi. Un pezzetto di legno, o corda, o stoffa.
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
Anch’io vorrei tornare in tanti luoghi, ad esempio vorrei visitare la casa in cui vivevano i miei bisnonni, che non vedo più
da tipo 30 anni. Sarebbe bello ❤️
Sì, è una sensazione che regala emozioni forti. Grazie per la lettura Arianna❤️
Sai cosa mi ha detto la mia figliastra anni fa? Che le scarpe appese indicano una zona in cui si spaccia droga😳 sarà vero? 🤔
Mah, non so, tutto può essere. Mi ammazza un po’ la poesia ma tutto può essere 😂
“Da quando ho cominciato a ritornare sono sempre state lì, non so quando abbiano iniziato ad appenderle, quando ci abitavo io non c’erano. Devo dire che un po’ mi dispiace, avrei voluto essere tra quelli a cui è venuta l’idea.” So che non ci conosciamo, ma dall’impressione che hai saputo darmi, se mi avessi detto che era stata una tua intuizione, non avrei avuto alcun dubbio. 🤭Anche questa “tappa” non delude. L’ho percepita più nostalgica del solito, ma è una nostalgia che scalda il cuore più che affliggerlo. Ti connette al passato e ti fa sentire in comunione con il tuo ricordo.
E’ un bel complimento quello che mi fai sull’albero delle scarpe. Lo conservo volentieri nella scatoletta di latta dei biglietti importanti. Grazie Tiziana.
“Magari era vera la storia che c’è qualcosa che ti impone sempre di tornare. Magari era vera allora come lo è oggi e come lo sarà in futuro.”
👏 👏 👏
Inchino a mani giunte 🙂
Lo vedrei bene questo racconto e tutta la serie completa, tra le pagine rilegate del tuo prossimo libro. Un viaggio nel presente e nel passato che porta a spasso anche noi lettori in luoghi che meritano di essere esplorati. E la tua voce narrante li valorizza, credo, come si deve.
Grazie Maria Luisa, un bellissimo pensiero. Ma non credo che questa storia possa suscitare interesse nell’essere stampata. Alla fine mi rendo conto che non sono che considerazioni che ho voluto condividere con chi ha la mia stessa passione per la scrittura, ma le pubblicazioni su carta sono altro. Ma indubbiamente grazie per continuare a leggermi.
A volte temo di sembrare ripetitivo o banale nei miei commenti, ma la verità è che quello che scrivi lascia sempre un segno diverso, un’emozione nuova. E ogni volta sento il bisogno di dirtelo.
Grazie Lino. E non avere dubbi, tutto quello che avrai da dirmi, io lo ascolterò sempre più che volentieri.
È vero che ho iniziato questa tua serie non dall’inizio ma, nonostante ciò, quello che racconti in questa puntata, e soprattutto il modo in cui lo racconti funzionerebbe anche come narrazione a sé stante. Ci si muove lentamente fra i ricordi e fra le cose senza guastarle con l’indiscrezione della curiosità ma lasciando che ci appaiano nella memoria come bolle che si staccano dal fondo. In modo che tutto rimanga com’era, per quanto possibile, e che ci possa essere -come fa pensare l’ultima frase- ancora un futuro per il passato
Grazie per esserti addentrata in questa storia, e per avere visto quello che avrei voluto si vedesse.
Ciao Roberto, mi è piaciuto molto questo nuovo appuntamento col tuo racconto. Anche a me è capitato di vedere scarpe appese, per lo più a fili della luce… avevo letto da qualche parte che si trattava di una nuova usanza (importata dagli States) che passa col nome di “shoefiti” (scarpa + graffiti)… Grazie per la lettura e a presto
Ps. Quando ho letto il titolo pensavo a un risvolto “giallo” e mi ero quasi preoccupato
Ma che cosa fichissima che mi hai detto! Non ci sarei mai arrivato! @Dea forse Paolo ha svelato l’arcano.
Grande @rusaniol, grazie! Devo approfondirla questa cosa, mi appassiona.
Che meraviglia anche questo episodio, passato e presente che si mescolano, un sapore dolce di malinconia. Le scarpe da tennis appese mi hanno incuriosita, ma si sa perchè sono lì?
Non ne ho la minima idea, ma la nuova tradizione resiste. Grazie dell’apprezzamento Irene!