La sala da pranzo

C’era una tavola così lunga che ci si sarebbero potute fare cinquanta capriole senza arrivare dall’altra parte. Naturalmente sopra le tavole come quella non ci si possono fare le capriole, ma è soltanto per immaginarci quanto fosse grande. Non ci si poteva saltare sopra o giocare perché era tutta imbandita come se fosse stata la tavola di un re. C’erano tanti piatti apparecchiati d’argento che scintillavano, bicchieri di cristallo così limpido e trasparente che la luce ci faceva mille arcobaleni. C’erano brocche d’acqua così fresca e pura da far venire sete soltanto a guardarle. La tovaglia era lunga quasi fino al pavimento, di un colore crema morbido ed elegante. Insomma, proprio una tavola meravigliosa.

Ma dove mai sarebbe potuta stare una tavola del genere? Forse in una casa qualunque? Certo che no. Nella maggior parte delle case non ci sono stanze abbastanza grandi da ospitarla. In effetti la stanza era ancora più lunga della tavola, e ancora più lussuosa. Le pareti erano tappezzate di specchi alti fino al soffitto, e il soffitto era così alto che quasi non potevi vederne la cima. Tra uno specchio e l’altro stava un candelabro dorato con una candela leggermente profumata. Ogni piccolo pezzetto di muro, piuttosto che lasciarlo libero, era decorato con stucchi e statue di animali e di piccole figure danzanti. Un vero spettacolo, una festa. Ma era tutto così grande che, a meno che non fossi un gigante, rischiavi di sentirti un po’ troppo piccino, quasi schiacciato.

I posti a sedere saranno stati decine, forse perfino un centinaio. Ma la sala era vuota. Ed era così grande che bastava il più piccolo rumore perché si potesse sentire un grande rimbombo tutto intorno. Chissà che bei pasti si svolgevano lì. Chissà che genere di persone aveva l’onore di mangiare in quel lusso regale; dovevano proprio essere dei giganti.

Giovannino non era un gigante. Anzi, era piuttosto piccino anche tra la gente normale, che lo chiamava apposta con quel soprannome. Era nato piccolo e piccolo era sempre rimasto. Ma non era mai stato un problema prima di allora. Adesso che si trovava in una sala così grande, davanti a una tavola così lunga, adesso sì che era un problema. Per la verità da quando si trovava lì aveva la netta sensazione che si stesse avvicinando l’ora di servire da mangiare, e la cosa lo terrorizzava. Certo, era affascinante vedere quel luogo, perdersi in quei decori e in quel lusso. Ma era indubbiamente troppo piccolo per farsi trovare lì all’ora in cui gli ospiti venivano a mangiare. Era un estraneo, un intruso, e pure piccolo.

Con questa sensazione addosso Giovannino iniziò a guardarsi intorno per cercare di capire come togliersi dall’impiccio. Tutti questi specchi e queste candele, tutto questo oro e rosso, facevano sì che non sapesse bene orientarsi. La sala era rettangolare ma ci si poteva perdere come in un labirinto. Gira che ti rigira alla fine trovò un ampio varco che conduceva a una sala di disimpegno. Guardingo, oltrepassò la soglia. La stanza era più piccola di quella da pranzo, e quadrata. Alle sue spalle adesso stava la sala da pranzo. Ai suoi lati vedeva due grosse porte a doppia anta, di legno chiaro. Di fronte un enorme portone di legno più scuro e spesso che doveva essere sicuramente quello d’ingresso di tutta l’abitazione. D’ingresso e d’uscita, s’intende.

Al centro della stanza stava un bel tappeto rotondo dai toni caldi e scuri che ammorbidiva il rumore dei suoi passi. Giovannino tirò un respiro di sollievo. Adesso che nessuno poteva sentirlo avrebbe rischiato meno. Piccolo com’era forse sarebbe persino passato inosservato. Ogni volta si cacciava in un pasticcio e ogni volta non sapeva come tirarsene fuori. Chissà poi come era arrivato in questo posto; la memoria non gli veniva in aiuto. Ma dopotutto, si disse, che importanza aveva. Piuttosto, ora bisognava capire come uscirne. Dietro alla porta alla sua sinistra gli parve di sentire dei rumori di stoviglie e di lavoro, qualcuno doveva essere lì. I preparativi fervevano e presto i commensali sarebbero arrivati a invadere quella sala lussuosa che si era appena lasciato alle spalle. E se mai fosse stato presente in quel momento e l’avessero invitato a unirsi al pasto, allora si che sarebbe morto di paura. Un pranzo con dei giganti, in una sala tanto vasta da soffocare, seduto a una tavola tanto lunga da non vederne la fine. Con delle posate tanto grosse da doverle tenere con entrambe le mani e un bicchiere in cui ci si sarebbe potuti fare un bagno. Rabbrividì soltanto al pensiero.

Preso dal panico di questi pensieri si guardò intorno nella speranza di escogitare qualcosa. La sala sembrava non offrirgli nessun aiuto. Vide la porta alla sua sinistra aprirsi e alcuni domestici e domestiche affaccendarsi verso la sala da pranzo. Come aveva sospettato la sua presenza non destava scalpore. Era una casa così grande che forse lo avevano scambiato per un nuovo ragazzino della servitù. Cercò di darsi un’aria disinvolta e di mantenere la calma, sicuro che prima o poi sarebbe riuscito a far aprire il portone principale e da lì riconquistare la libertà.

Non dovette aspettare a lungo. In questo viavai di servitù capitò presto che a una anziana cuoca si rovesciasse un secchio di rifiuti per terra. Giovannino le si avvicinò prontamente offrendole il proprio aiuto. Che si lasciasse aiutare, le disse, ci avrebbe pensato lui a portare i rifiuti fuori. Li avrebbe dati agli animali, se ne sarebbe occupato volentieri.

Con suo grande sollievo vide che, dopo una breve esitazione, la vecchina sembrò d’accordo e acconsentì ad affidargli il compito. Pareva che la sua presenza non fosse stata smascherata. Non era sicuro di come avrebbero potuto prendere il fatto che lui, lì, non v’era mai stato prima. Che era un estraneo, un intruso. Che quel lusso, quello sfarzo, quei colori e quelle decorazioni non erano le sue. Gli avrebbero tagliato una mano? O lo avrebbero soltanto cacciato fuori di casa a pedate? Non avrebbe saputo dirlo, ma l’angoscia del dubbio lo rendeva ancora più spaventato e vulnerabile.

Giovannino si chinò per terra felice di poter nascondere il proprio volto al suolo, felice di poter diventare una piccola schiena irriconoscibile e anonima. Piccino com’era si mise in ginocchio e quasi quasi non lo si vedeva più. Sembrava uno dei rifiuti che stava raccogliendo, piccolo, abbandonato per terra. Dopo qualche minuto, finito di raccogliere, si alzò e si fece aprire il portone d’ingresso, sicuro di avere un’ottima ragione nel farlo. Nessuno poteva sospettare di nulla. Le ante si aprirono poco alla volta, entrambe. Nessun rumore, nessun cigolio. Erano così pesanti che il tutto avvenne lentamente, con i tempi lenti dei giganti.

Quando Giovannino uscì rimase sorpreso. Era buio e freddo fuori, era notte. Si era immaginato di trovarsi al sicuro una volta uscito da lì. Soltanto adesso si rendeva conto che la sua situazione non era migliorata poi tanto. Una brezza fredda lo colse sull’uscio della casa mentre il portone si richiudeva alle sue spalle. Lento e silenzioso. Era fuori. Non vedeva bene cosa ci fosse oltre lo spiazzo di terra battuta che gli stava davanti. Sentiva i topi aggirarsi tra i rifiuti abbondanti e maleodoranti che circondavano l’edificio. Oltre non vedeva nulla.

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