María del agua 

Serie: MITI E LEGGENDE D'AMERICA LATINA


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: I miti e le leggende sono l'anima e l'ossatura di un continente in cui, per secoli, i popoli si sono trasmessi canti e racconti che racchiudono in sé credenze e valori, insegnamenti e paure.

Si narra che molto tempo fa, prima dell’arrivo dei missionari e prima ancora che il Venezuela si chiamasse così, nei territori umidi e montuosi che si adagiano ai piedi del monte Sorte, i popoli originari venerassero il fiume Yaracui come un essere vivo.

Gli indigeni Caquetíos e Jirajaras, che abitavano le pendici del monte, credevano che l’acqua avesse occhi, memoria e volontà. Credevano anche che nel fondo del fiume vivesse un grande serpente sacro, spirito guardiano, capace di concedere fertilità o maledizione.

Nel tempo, tra racconti tramandati attorno al fuoco e preghiere mormorate tra le foglie degli alberi, prese forma una leggenda. Quella di una bambina nata da un’unione considerata pericolosa. La piccola era figlia di un potente cacique, uomo rispettato e temuto e di una donna venuta da un’altra tribù, portatrice di saperi erboristici e storie che parlavano la lingua degli animali. Alcuni dicevano che la donna non fosse del tutto umana, ma che avesse sangue mescolato con qualcosa di più antico.

La bambina venne al mondo con occhi color del miele, così chiari da sembrare liquidi. La chiamarono Yara, nome antico che evoca l’acqua e la selva.

Uno sciamano Jirajara, vecchio come la terra, consultò le foglie di yagrumo e le viscere di un pesce. Disse che la bambina era una hija del agua, predestinata a legarsi allo spirito del serpente. A meno che non venisse tenuta lontana dalla corrente del fiume e dagli sguardi del mondo.

Il cacique fece costruire per lei un rifugio in una grotta umida, sul versante orientale del monte Sorte, il cui ingresso era protetto dalle fronde di un grande albero.

Fu affidata a una vecchia che parlava poco e conosceva i nomi nascosti delle piante.

Yara non conobbe altri bambini, né giochi, né riti. Ma imparò a distinguere il tempo dal respiro della terra. A leggere le vene sulle foglie, a curare l’argilla, a tagliare le spine senza ferirsi.

Non c’erano specchi nella grotta, né ciotole per mettere l’acqua. A Yara era proibito contemplare la propria immagine.

Ogni sera, la voce del padre le giungeva da lontano, come una cantilena: «Non ti avvicinare al fiume. Non lasciarti vedere. Non rispondere se lui ti chiama.»

Ma il fiume chiamava, e lo faceva nelle notti di luna piena.

Quando Yara ebbe dodici anni, o forse cento, nessuno lo sa con certezza perché il tempo aveva smesso di contare, uscì dalla grotta per rispondere al richiamo del fiume.

Al suo passaggio i colibrì si posarono tutti nella stessa porzione di cielo, le rane tacquero e il vento soffiò dalla parte sbagliata.

Yara scese lungo il sentiero fangoso, mentre il suo corpo cresceva nell’ombra. I suoi passi attirarono le farfalle notturne e nessun animale fuggì al suo passaggio.

Quando giunse al fiume, il firmamento era latteo e l’acqua si fermò.

Yara si chinò e vide un volto riflesso che la guardava con curiosità e stupore. Conobbe per la prima volta la propria immagine.

Poi l’acqua si increspò: dapprima lentamente, e infine in cerchi sempre più ampi.

Il serpente salì in silenzio.

Non era una bestia qualunque. Il suo corpo era lungo come un tronco caduto, ricoperto di scure lamelle, verdi in certi punti e grigie in altri. Gli occhi erano dorati, verticali. Aveva le fauci chiuse, ma la lingua usciva e tornava, odorando l’aria.

Yara restò immobile, come in attesa. Il serpente allora la avvolse, cominciando dai piedi, non con violenza, ma con una forza che non lasciò scampo alla bambina.

Le squame scivolarono sulla pelle, lasciandole addosso un’untuosità viscosa e ardente. Il contatto fra i corpi fu crudo, carnale, eppure familiare.

Il serpente le si strinse intorno al ventre, alla vita, ai seni appena pronunciati. La sua bocca le sfiorò una spalla. La lingua le toccò la guancia.

Yara non urlò, si limitò a trovare il proprio respiro. Il collo piegato, gli occhi chiusi.

Il serpente le si accostò alla bocca e morì nei suoi occhi liquidi. Infine, affondarono insieme nell’acqua.

Nel villaggio nessuno pronunciò più il suo nome. Il padre la cercò a lungo e inutilmente e, dicono, impazzì per il dolore.

***

Col passare degli anni, María Lionza* divenne dea mestiza, simbolo di fusione tra femminilità e natura. La sua leggenda viaggiò per le valli di Chivacoa, si radicò nei riti sincretici con elementi africani e cattolici e raggiunse Caracas, dove ancora oggi si erge una sua statua monumentale. María Lionza è raffigurata nuda, in perfetto equilibrio su un tapiro, con le braccia al cielo e il bacino offerto ai venti contrari.

Ogni dodici ottobre, alle pendici del Monte Sorte, i pellegrini arrivano scalzi, portando offerte. Alcuni entrano in trance, altri danzano fino a cadere. Altri ancora cercano visioni, chiedono guarigioni e parlano lingue mai imparate.

*Solo molto tempo dopo, quando gli dei furono travestiti da santi e gli spiriti degli alberi scacciati dalle chiese, Yara fu ribattezzata María Lionza: María, in omaggio alla madre di Cristo; Lionza, deformazione forse di “La Onza” — la dea selvaggia del monte e degli animali, padrona dei felini e delle acque profonde. Ma nei tempi antichi, per chi sapeva ascoltare i sussurri della foresta, la bambina era ancora solo Yara dagli occhi di fiume.

Opera di Alejandro Colina, 1951

La statua rappresenta l’energia femminile e la forza ancestrale, incarnando il sincretismo tra spiritualità indigena, culto popolare e mito nazionale.

Il tapiro raffigura la connessione con la foresta e la potenza terrestre.

La donna tiene fra le mani ed espone ai venti le pelvi che diventano simbolo di fertilità, maternità, forza generatrice e sacralità del corpo femminile, celebrato come ponte tra terra e spirito.

Il serpente, schiacciato dal tapiro, rappresenta le forze sotterranee della natura che vengono sottomesse dalla divinità.

Dedico questo racconto a @carla amica di sempre, che mi ha suggerito la leggenda e mi ha raccontato la sua America.

Serie: MITI E LEGGENDE D'AMERICA LATINA


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Discussioni

  1. Interessante questa leggenda, densa di signifcati. Bellissima la tua narrazione che, di volta in volta, ne accresce il valore e il fascino della storia in sé, attraverso uno stile non solo scorrevole ma anche armonioso. Un racconto vivido che trasmette sensazioni contrastanti dovute alle forza misteriose e oscure della natura e dello spirito femminile, con l’ intensità dovuta alla spiccata sensibilità d’ animo che ti appartiene.

  2. Questa storia mi ha conquistato dalle prime battute. Non poteva essere altrimenti! Ci trovi tutti gli ingredienti di una leggenda: magia, mistero, riti ancestrali e memoria collettiva. Hai mescolato questi ingredienti in modo impeccabile e ci ha hai trasportato in una terra lontana. Descrizione evocative e personaggi credibili nella loro unicità. Come al solito, con la tua voce discreta e chiara, ci hai accompagnato sino alla fine. Brava.👏👏👏

  3. I tuoi racconti stanno componendo una enciclopedia del Sudamerica magico e misterioso.. direi che anche la tua scrittura scivola e sibila tra la vegetazione umida e lussureggiante, come un serpente inquieto

  4. Non so bene quando ne perché l’uomo abbia smesso di considerarsi parte integrante della natura, al pari degli alberi, delle piante, e il resto. Perché è questo che in fondo siamo, e il nostro pensare, la nostra forza di volontà non è dissimile dalla forza dei venti o lo scorrere delle acque. Solo, ce ne siamo scordati. Ma quando ci sdraiamo lungo un fiume per sentire la pace, ricordiamo che è vero. Ci siamo affidati a noi stessi, alla nostra ragione , e abbiamo smesso di affidarci alla Terra che ci appartiene e alla quale apparteniamo, convinti sia la strada, ma non è così. Non ha funzionato. Infatti, torniamo sempre. Con i riti, le credenze, le visoni. E questa bellissima leggenda me lo ha ricordato. Yara si affida al destino del suo nome, non ha paura. In riva al fiume ha tutto ciò che le serve per compiersi. Mi è sembrata un’immagine meravigliosa, paragonata al nostro ostinato capriccio di piegare eventi e destini come vorremmo noi.

  5. Cara, credo sia il primo racconto che leggo di questa serie e come sempre sono deliziata dalle forme della tua narrazione. Con qualcosa di più: il senso di potenza che hai saputo dare a questa leggenda, si confronta (e vince, direi) con il mito maschile di Narciso, tutto preso dalla sua propria immagine. Lui muore, Yara vive.

  6. Sono affascinanti questi racconti che si portano dentro credenze e costumi antichi. Vestigia di espressioni umane che, poi, la storia ha mescolato, irrispettosa, con con l’arroganza di impuniti conquistatori. A volte, mi domando come sarebbe stato se i grandi navigatori fossero naufragati e di quanta ricchezza in più disporrebbe il pianeta se certe culture avessero avuto la possibilità di sopravvivere. Grazie molte per la lettura stimolante e le riflessioni suggerite.

  7. Non appena le tue opere verranno tradotte in spagolo rientrerai tra i miti e le leggende d’America Latina. Meritatamente. Eso espero, Cristiana de las maravillas.