
Meriti
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Cambiamenti
- Episodio 2: Il rivolo sottile
- Episodio 3: Sfide
- Episodio 4: Quei paesi che finiscono per ATE
- Episodio 5: Punti di osservazione
- Episodio 6: Nessuna ragione per non farlo
- Episodio 7: Qualcosa in comune
- Episodio 8: Non oggi
- Episodio 9: Svolte
- Episodio 10: Per la prima volta
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
- Episodio 8: La bottiglia vuota
- Episodio 9: Fotografie
- Episodio 10: Non dirlo a nessuno
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
- Episodio 3: Inciampi
- Episodio 4: Il corredo delle mie insicurezze
- Episodio 5: Buoni propositi
- Episodio 6: L’evenienza di ricredersi
- Episodio 7: Meriti
- Episodio 8: Rane
STAGIONE 1
STAGIONE 2
STAGIONE 3
Una cosa che ho omesso di riportare della salita che da Pontresina, in Svizzera, mi ha portato in cima al Passo del Bernina è che lungo tutto quel tragitto non sono mai stato solo. A portata di sguardo, più o meno vicino a seconda dei momenti, ho sempre avuto la compagnia di un altro motociclista.
A volte ce l’avevo davanti e lo vedevo piegare sulle ruote alte della sua moto da Gran Turismo, con indosso un giaccone nero e rosso in tinta con i pantaloni dello stesso materiale. A volte lo superavo mentre era fermo in qualche rientranza con il casco iper tecnico alzato sopra la testa a fare fotografie ad un panorama reso cupo dalla poca luce che filtrava attraverso le nuvole. A volte ero io a fermarmi, per fotografare a mia volta o per rispondere ai richiami della natura (perché diciamocelo, pisciare oltre la soglia dei duemila in mezzo ai monti non ha prezzo, come nelle pubblicità delle carte di credito), ed ecco che con la coda dell’occhio lo vedevo superarmi di nuovo.
Ci siamo ignorati a vicenda per tutta l’arrampicata nonostante fosse impossibile che uno non avesse notato la presenza dell’altro. Fino alla cima. Quando sono arrivato in prossimità del cartello che indica i 2330 metri di altezza del Passo l’ho visto proprio lì sotto alla scritta, in piedi davanti alla sua moto intento a rinfilarsi i guanti e salire in sella, sicuramente dopo aver scattato la foto di rito. La stessa che volevo scattare io, la stessa cosa che vogliono fare tutti quanti quando si arriva in cima, la prova di esserci stati, come se la nostra parola o i nostri ricordi non bastassero più.
Ho accostato al ciglio della strada qualche metro dietro di lui, quanto bastava per non dare l’impressione di volergli mettere fretta, e ho aspettato col motore spento che ripartisse, per potermi posizionare anch’io al suo posto.
Quando ha alzato la testa e mi ha visto, nonostante la visiera già abbassata, non mi ha chiesto se volevo che la foto me la facesse lui. In questo viaggio ho avuto come l’impressione che non si debba fare, che guidare da soli voglia dire arrangiarsi in tutto, anche in queste cose. Ma prima di montare sulla sella ha alzato il braccio verso di me e ha tirato su il pollice, come Arthur Fonzarelli.
E in quel momento mi sono sentito come se lui avesse capito tutto di me. Come se fosse a conoscenza del modo in cui avevo trascorso quell’ultimo anno e quell’ultima settimana, io che me ne stavo lassù con indosso un paio di jeans umidi e un’attrezzatura di base, a guidare una moto che avevo imparato a conoscere veramente soltanto negli ultimi giorni. Che volesse dirmi bravo, hai fatto un buon lavoro, dovrai migliorare e avrai altre salite per farlo ma adesso goditela un po’, che da qui in avanti è tutta discesa.
Io ho ricambiato il gesto pervaso dallo stesso senso di deferente gratitudine che potrebbe provare un novellino delle corse che riceve un complimento personale da Valentino Rossi, poi l’ho guardato accendere il motore e spostarsi un po’ più avanti, lasciandomi campo libero sotto il cartello affinché sistemassi la moto nella posa migliore e le scattassi la fotografia che si era guadagnata.
Il tizio è rimasto lì dov’era a fare le sue cose per il tempo che mi è servito ad immortalare il momento, ed è ripartito solo pochi attimi prima che anche io, pronto, accendessi il motore ed inserissi la marcia.
Su una strada che si srotolava verso il basso, in cui c’eravamo soltanto noi, l’ho guardato distanziarmi ad ogni curva di più. Su quel tratto d’asfalto che inquadrato dall’alto sembrava un rettile ripiegato su sé stesso, per ogni segmento della serpentina che riuscivo a conquistare lui era là sotto ogni volta un po’ più avanti; uno, due, tre tornanti di vantaggio rispetto a me, fino a quando di lui ho perso completamente traccia.
All’altezza della deviazione per Livigno mi sono tornati alla mente gli anni in cui, da ragazzino, mi ci portavano i miei genitori a settembre. Ricordando quanto mi affascinasse il fatto che fosse una zona di porto franco, dove le tasse erano più basse rispetto al resto del Paese e teoricamente le cose sarebbero dovute costare di meno.
Non saprei, forse ero troppo giovane per capire ma sulle cose che interessavano a me, come cd e giochi, non ci avevo trovato grossa differenza rispetto a casa. Un po’ la stessa cosa che succede nei duty free degli aeroporti, con quel nome che ormai non ha più senso, dove magari le tasse saranno pure più basse ma l’imponibile è talmente alto che alla fine le cose costano di più del normale. E te la pigli sempre in saccoccia.
Per un momento mi è girata l’idea di svoltare a sinistra e passarci, a Livigno, per vedere quanto fosse cambiata rispetto ai ricordi. O quanto fosse sempre uguale e fossero i ricordi ad essersi distorti.
Ma avrebbe voluto dire metterci un’ora fra andata e ritorno, virando a nord, in aggiunta all’ora che ancora mi mancava per arrivare a Cimbergo, la destinazione della giornata, e il cielo aveva iniziato a minacciare qualcosa di più di qualche sparuta spruzzata di pioggia.
Così ho proseguito seguendo il copione, fermandomi giusto un paio di volte per quelle foto con le mucche che volevo assolutamente e ancora mancavano all’appello.
E quando ho passato la dogana tra Svizzera e Italia sono precipitato in quel retropensiero da quattro soldi nel quale mi ero ripromesso di non cadere.
È che proprio non ho potuto farne a meno, sì, di guardarmi intorno. L’asfalto, la segnaletica, la cosa pubblica, e chiedermi come sia possibile che alla fine condanniamo noi stessi ad essere sempre così sciatti, indolenti, superficiali, pressapochisti, dozzinali, senza un briciolo di cura per le nostre risorse e dignità per noi stessi, da nord a sud, come se nascere e vivere all’interno dei nostri confini ci avesse marchiato irrimediabilmente con la lettera scarlatta dell’incuria. Lamentandoci di essere relegati alla base della piramide e ponendo al vertice i peggio soggetti della scala evolutiva, trasformandoci in quegli stessi soggetti quando al vertice ci troviamo noi.
Non ci meritiamo un cazzo di niente.
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Uno che scrive
- Episodio 2: La finestra sul cortile
- Episodio 3: Inciampi
- Episodio 4: Il corredo delle mie insicurezze
- Episodio 5: Buoni propositi
- Episodio 6: L’evenienza di ricredersi
- Episodio 7: Meriti
- Episodio 8: Rane
“Lamentandoci di essere relegati alla base della piramide e ponendo al vertice i peggio soggetti della scala evolutiva, trasformandoci in quegli stessi soggetti quando al vertice ci troviamo noi.Non ci meritiamo un cazzo di niente.”
Questa è la perfetta rappresentazione della verità . E, pensandoci, accade anche in altri ambiti, come sul lavoro. È molto piú semplice lamentarsi e “fare le vittime” o puntare il dito, piuttosto che rimboccarsi le maniche e fare qualcosa per il bene di tutti. È meno faticoso, e si vedono i risultati. 🙄
Sì, questo comportamento siamo bravi ad applicarlo ovunque.
Oh che bello, finale degno del Toso che piace a me!
L’incontro col motociclista, quel totale riconoscersi in un estraneo trovato per caso in cima a un monte in terra straniera, per sentrisi estranei, una volta rientrati nella nostra terra. Roba da scappare di nuovo. Dalla frontiera, da noi stessi, dalla realta…o da tutto insieme.
Applauso.
Cara Irene, se tutti i commenti fossero così verrebbe voglia di trovare altre ore oltre alle ventiquattro canoniche per scrivere ancora. Grazie di cuore.
Ciao Roberto. Quando ti leggo, immagino lunghe conversazioni fra noi su temi che ci fanno davvero incazzare. Arrivare stremati alla fine, dopo aver percorso il lungo sentiero del pensiero condiviso, e accorgerci che non siamo arrivati a niente. Semplicemente perché non cambia niente e, come dici tu, ci meritiamo di stare dove stiamo.
Ho percepito tanta malinconia in questo episodio e un senso di soffocamento, nonostante gli ampi spazi che ci hai illustrato. E ho immaginato quel tuo rincorrere il motociclista misterioso, senza mai raggiungerlo, come una sorta di metafora dell’affanno.
Splendide le descrizioni e ben scritto come sempre.
Il finale lascia l’amaro in bocca.
Mi piace sempre il modo in cui ti immedesimi nelle letture. Grazie per continuare a farlo.
Ciao Roberto, un’altra incredibile tappa del tuo tour. Cinico verso la fine, ma nella tua parola c’è molta verità .
Grazie per essere arrivata sino a qui Tiziana.
“Non ci meritiamo un cazzo di niente”, vero…Eppure 😠Quando hai passato la dogana tra Svizzera e Italia ho avuto un colpo al cuore😔 Non vedo l’Italia da 10 anni e, in questo momento, per me è il luogo più bello del mondo.
Non so, probabilmente il mio problema è il non sapere apprezzare abbastanza le cose, ma quando mi guardo intorno alla società di cui io stesso faccio parte, la bellezza dei luoghi in cui viviamo per quanto mi riguarda passa in secondo piano. Ma non mi è estraneo il tuo punto di vista.
Il gemello di strada che ti accompagna fino al cartello, il pollice su che vale più di mille parole, poi la discesa e l’Italia che ti rimette coi piedi per terra. Finale amaro ma giusto.
Altrimenti sai che palle se andasse sempre tutto bene? 😂 Grazie Lino della tua presenza costante.
Una nuova puntata appassionante, in particolar modo per un motociclista. Riguardo al rientro, a me generalmente capita l’opposto, forse è un po’ per via di quella cecità nei confronti di ciò che si ama, dove anche i difetti finiscono per diventare parte del tutto e in alcuni casi riescono loro stessi a farci provare nostalgia. Grazie molte per la lettura
Vedi che bello essere tutti diversi? Grazie a te per la lettura Paolo.
Il rientro in Italia dopo aver passato qualche giorno all’estero, soprattutto dove si parla tedesco, è sempre traumatico, quindi, se si è capaci di liberarsi dai luoghi comuni che ci dipingono come buoni (italiani brava gente), caldi, simpatici, esuberanti, accoglienti, fantasiosi, laboriosi, romantici (?) e poniamo attenzione sulla mancanza di rispetto verso persone e cose che impera, da sempre, in Italia, ecco, allora possiamo renderci conto di quanto siamo mediocri. Senza nulla togliere a quelli, e sono anche molti, che le doti elencate sopra le hanno davvero. E comunque non è vero che i tedeschi sono chiusi e antipatici, è un altro luogo comune che ci fa molto comodo. Il resto, caro Roberto, lo hai scritto molto bene tu.
Caro Giuseppe, non posso confermarti che nel tuo pensiero, con me, sfondi una porta aperta. Grazie per la lettura e per il bel complimento 🙂
@Beppe mi è sfuggito un non, “non posso NON confermarti che sfondi una porta aperta”