Nessuna ragione per non farlo

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Avrà la voce roca ed un marcato accento romano. Ovunque mi trovi, anche seduto sulla sponda dell’Adda a Trezzo.

La distanza tra Trezzo e Lecco, da percorrere quasi in linea retta, è poco più di trenta chilometri. Con estrema tranquillità, rispettando i limiti, siamo abbondantemente sotto l’ora di viaggio.

Rifocillato e raffreddato a dovere i componenti della commistione uomo-macchina che ero diventato, l’occasione si presentava ghiotta per arrivare in albergo ad un orario decente, lavarmi, riposarmi e cercare una pizzeria, magari vicino alla riva.

Ma perché rendere tutto così noiosamente lineare e non aggiungerci sopra altri cento chilometri, non andare fino a Como, non costeggiare fino su a Bellagio e da lì non scavallare scendendo lungo quel ramo del lago di Lecco raggiungendo infine la città dall’altro lato? Perché non caricarmi sulle spalle altre due ore e mazzo di viaggio? Appunto! Nemmeno io ho trovato ragione per non farlo! Così all’altezza di Brivio, invece di tirare dritto, ho piegato verso sinistra.

Per un po’ il navigatore ha provato a farmi cambiare idea, indicandomi tutti i modi per tornare indietro e rimanere sul tragitto prestabilito. Poi, attraverso la mentoniera alzata, l’ho visto alzare le braccia in segno di resa e mollarmi lì sul mio percorso ribelle.

«Sai che c’è?» mi ha chiesto visibilmente scocciato, «chiamami quando avrai di nuovo bisogno di me

«Dai, non fare l’offeso. Non sei tu, sono io che ho bisogno di qualcosa di nuovo, di uscire dai miei schemi.»

«Fa come ti pare. Tanto alla prima deviazione non segnalata tornerai da me col capo cosparso di cenere

L’idea si è rivelata tra le più infelici che potessi avere. Già a partire dai primissimi cartelli che indicavano la dogana, distante ancora trenta chilometri, quello che sino ad allora era stato il traffico regolare di una strada qualunque di un venerdì pomeriggio qualunque si è trasformato in un insieme di tante piccole code, spezzate qua e là da un semaforo o una rotonda.

Sgusciando tra le auto come un’anguilla tra le mani di un bimbo, in qualche modo sono arrivato a Como non senza provare rimorso per la decisione presa senza consultare Greta. Da lì in poi, un fracassamento di maroni senza eguali.

La strada che da Como porta a Bellagio, punto in cui i due bracci del lago si ricongiungono in una più ampia distesa d’acqua, nei primi del novecento quando è stata costruita dev’essere stata una roba mozzafiato. Con il lago che rimane sulla sinistra laggiù in basso, sale e scende restando adesa sulla destra alla roccia della montagna. Le abitazioni rimangono per lo più sulla sinistra, a strapiombo sul blu del bacino.

Capita spesso di passare sotto un arco pietroso o che un’abitazione si allarghi verso la carreggiata creando un restringimento, e immagino che negli anni settanta, quando una Centoventisette incrociava una Cinquecento, fra le due ci fosse tutto lo spazio per fermarsi, spalancare una portiera e passarsi una damigiana di vino.

Oggi la situazione è un pelo diversa. In un mondo in cui abbiamo a disposizione sempre meno spazio e sempre meno risorse, non troviamo di meglio che fabbricare auto sempre più (inutilmente) gigantesche per far immaginare agli altri quanto ce l’abbiamo grosso e possente.

Così quella strada si tramuta da percorso idilliaco a inferno delle nostre vanità, dove guidando verso nord del lago non vedi più nulla; solo lamiere abbacinanti, finestrini oscurati come i veri gangsta-rapper della West Coast, pneumatici più larghi di una corsia e motori surriscaldati, rabboniti da ventole perennemente in funzione.

E tutti, naturalmente, fermi in coda come idioti, senza poterci muovere altrimenti ci righiamo le portiere, ma col sorriso stampato in faccia, perché tanto c’ho l’aria condizionata eammechemminchiamenefotte, guarda qua che cruscotto che tengo.

Sono rimasto fermo tra le auto nonostante le mie due ruote, sentendomi un vero imbecille, parte del problema tanto quanto gli altri, rovinandomi l’immagine di quel posto. La prossima volta ce la organizziamo un po’ meglio.

A passo d’uomo ho continuato a chiedermi quando sarei arrivato sinché, miracolosamente, è comparso il cartello “Bellagio”. Ma a quel punto ne avevo avuto abbastanza di tutto quel casino e senza nemmeno un giretto di rito ho proseguito verso sud, sorpassando appena potevo autobus turistici grossi come corazzate.

C’ho messo un’altra buona mezz’ora per arrivare a Lecco, rallentato da un traffico non più consistente come prima ma sufficiente a non farmi godere appieno di uno spettacolo indubbiamente unico.

Pazienza, come diceva Captain Freedom in “The running man”, senza dolore non c’è vincitore.

Sono arrivato davanti ai cancelli dell’albergo con l’ultimo residuo di carica del telefono, pregando ad ogni svolta che non mi mollasse proprio lì nel mezzo di un posto sconosciuto, ora che mancavano poche centinaia di metri, perseguitato da chiamate spam che si accanivano contro di me e la mia batteria senza accennare ad arrendersi, anzi ben lieti di subissarmi in quel luminoso venerdì sera.

Buoni propositi per il futuro: portarsi dietro un powerbank.

Non vi avevo ancora detto che la prima notte fuori l’avevo dovuta prenotare in un ostello, in una zona della città che non saprei definire con precisione, piena di saliscendi.

Lecco dev’essere una città ambitissima il venerdì sera, ritrovo di vip e zona di smercio di varia natura, tipo i Navigli a Milano ma con molta più acqua intorno, perché l’ostello (per giunta in camerata mista) si era rivelata l’unica soluzione che ero riuscito a trovare in fase di prenotazione che avesse un prezzo sensato. A meno di non andare ad infilarmi in qualche posto in culo ai lupi non ancora raggiunto dall’elettricità.

Una struttura, però, più che dignitosa, che mi sentirei persino di consigliare se muniti di un minimo di spirito d’adattamento.

Una volta effettuato il check-in, la signorina dietro il bancone mi ha lasciato la tessera che fungeva da chiave per la mia stanza (che emetteva ad ogni apertura un suono simile a quello del citofono della Gialappa’s Band) e una consumazione di benvenuto da richiedere al bar.

Poi mi ha accompagnato al garage, dove non senza una punta di apprensione ho lasciato Greta a riposare per la notte. Dopo tutte quelle ore trascorse assieme, chissà come se la sarebbe cavata senza di me?

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. “Per un po’ il navigatore ha provato a farmi cambiare idea, indicandomi tutti i modi per tornare indietro e rimanere sul tragitto prestabilito. Poi, attraverso la mentoniera alzata, l’ho visto alzare le braccia in segno di resa e mollarmi lì sul mio percorso ribelle.” La devo citare così, mi scocciava spezzarla. Fantastica 🤣

  2. Ormai aspettoil nuovo episodio per continuare a seguire le (dis)avventure di Greta e “fantino”…
    Hai reso perfettamente l’idea del modo di concepire l’automobile nei nostri anni 20. Per non parlare del turismo.

  3. Questo episodio trasuda incazzatura, fatica e sangue. Altro che piacere delle due ruote! Ci racconti una faccia del nostro “Bel Paese” che si è trasformato in una Disneyland per pazzi furiosi, dove ciò che di bello c’è (e c’è davvero) non si riesce più a vedere (o a godere) in questa schizofrenia; tu pensa che lì c’è persino chi ancora ci vive! Mi è piaciuto tantissimo il gps senziente, antesignano degli automi che un giorno decideranno per noi, che placido ti aspetta al varco. E che dire delle dimensioni delle auto? Ingigantite, ma solo all’esterno, figlie della stessa logica che oggi ti fa mettere un casco in testa con 40°… alcuni lo chiamano progresso. Insomma, cose sempre: stimoli tante riflessioni.
    Letto davvero con piacere, grazie e a presto.
    Ps. da autentico boomer, uso ancora le cartine stradali, la batteria non finisce mai.