
Non dirlo a nessuno
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Cambiamenti
- Episodio 2: Il rivolo sottile
- Episodio 3: Sfide
- Episodio 4: Quei paesi che finiscono per ATE
- Episodio 5: Punti di osservazione
- Episodio 6: Nessuna ragione per non farlo
- Episodio 7: Qualcosa in comune
- Episodio 8: Non oggi
- Episodio 9: Svolte
- Episodio 10: Per la prima volta
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
- Episodio 8: La bottiglia vuota
- Episodio 9: Fotografie
- Episodio 10: Non dirlo a nessuno
STAGIONE 1
STAGIONE 2
Il tragitto per tornare all’albergo è stato più lungo di quello che ho percorso all’andata. Sono uscito dalla zona pedonale e sono passato attraverso il grande parco della città, non distante dagli edifici universitari, che a quell’ora tarda è illuminato a chiazze, come pozzanghere di luce giallognola che asciugheranno a terra durante la notte e delle quali alla mattina non resterà più niente. C’è una varietà tale di alberi in quel giardino, secolari, che di giorno i sentieri che lo intessono se ne restano al sicuro sotto il giogo di un’ombra densa e fitta anche quando, sopra il fogliame, il sole batte nel punto più alto. Quando piove, invece, l’acqua è capace di rimanere sospesa ancora per molti minuti prima di fare breccia tra le fronde.
In mezzo al parco c’è un prato aperto con al centro un platano gigantesco. I rami più bassi si allungano dal tronco per metri fino a sfiorare terra. Quello è uno dei punti designati della città in cui spero che qualcuno mi porterà di nascosto il giorno in cui sarò leggero come tufo sbriciolato in un sacchetto di stoffa.
Oltrepassati i confini del parco ho attraversato una Wilhelmstraße deserta, le auto parcheggiate nei garage o davanti casa, in attesa di essere risvegliate di lì a poco per tornare al lavorare il lunedì mattina.
Ho tagliato attraverso quelle vie che non si fanno mai, che ci passi solo se ci abiti o vai a fare visita a qualcuno a cui vuoi bene; un amico, un parente, magari un amante. Non sono riuscito a perdermici, ma almeno posso dire di avere provato.
Alla fine di una di queste sono comparsi i primi riflessi delle luci sul Neckar, viste da un’altra prospettiva. E allora sì che mi sono arreso e ho puntato in direzione dell’hotel.
Non c’era nessuno nell’atrio quando sono arrivato, solo una ragazza alla reception che mi ha sorriso e mi ha augurato buonanotte; la stessa che mi avrebbe detto buongiorno quando sarei sceso dalla camera la mattina dopo.
Per il lunedì avevo pianificato la prima metà della giornata in sella a Greta alla ricerca di qualche castello nella campagna attorno, ma mi ha svegliato il ticchettio caotico di goccioloni che sporcavano i vetri puliti delle finestre, così ho dovuto rivedere il programma.
Ho fatto colazione mangiando molto e senza fretta, in compagnia di una brocca di caffè nero che ho svuotato con metodo, davanti alle vetrate che danno sul fiume, domandandomi come sia possibile che la gente mi squadri compassionevole quando dico che mi piace la pioggia. Poi mi sono fatto prestare un ombrello dalla ragazza della reception e sono uscito.
Di nuovo sul ponte. Ma questa volta, invece di tagliare per il centro come la sera prima, ho proseguito dritto. Ho camminato per un quarto d’ora senza deviazioni e sono arrivato al Brechtbau, una delle strutture dell’Università dove, assieme alle aule di studio e alla biblioteca, c’è la caffetteria in cui lavoravo quando ero studente.
Bau in tedesco vuol dire edificio, e questo è dedicato a Bertolt Brecht, drammaturgo del secolo scorso. Non vi dirò che ne conosco le opere; solo il nome, e solo perché ci sono incappato.
È una costruzione moderna, fatta di ampie vetrate, luminosa anche nelle giornate grigie, circondata da un prato attorno al suo perimetro. Sono quasi tutte così su questa strada, che appare più come un viale in divenire.
Al Brechtbau ci passo tutte le volte che vengo in città. Mi faccio un giro al piano terra e quello superiore, dove c’è la biblioteca e il pavimento è ricoperto di moquette, così come i divanetti squadrati e le sedute rettangolari sparse ovunque. Poi torno giù, entro nella caffetteria e mi siedo ad uno di quei tavoli che ho pulito innumerevoli volte con uno straccio prima di ogni chiusura serale. Sono sempre gli stessi, in tinta con le seggiole, legno più chiaro il ripiano rotondo, di un tono più scuro il legno delle sedie, stondate sulla parte alta dello schienale. Anche le tazze da caffè solo le stesse di allora, bianche con il bordo vinaccia. Non potrei dimenticarlo nemmeno volendo, ne ho ancora una a casa. Avevo avuto il permesso di portarmela via, quando ero tornato in Italia, direttamente da Frau Golmer, la direttrice che mi aveva preso in simpatia.
Al contrario delle volte precedenti, quando avevo trovato in funzione solo i distributori automatici, la serranda del chiosco era alzata, e personale si muoveva dietro il banco.
Mi sono avvicinato con il portafoglio in mano e mi sono appoggiato al divisorio, dalla cassa, oltre la quale ho potuto sbirciare direttamente la cucina lunga e profonda in cui allora lavoravo io. Non lo facevo da più di vent’anni. Parte del mobilio è stato sostituito ma il nucleo è rimasto lo stesso, con la vecchia lavastoviglie a chiusura verticale sempre nella posizione in cui la ricordavo.
Ho ordinato una tazza di caffè ad una ragazza giovane e corpulenta, con il viso tondo pieno di lentiggini, i capelli rossastri ricci e lunghi che le arrivavano oltre le spalle.
«Mi dispiace» mi ha risposto, «il chiosco è solo per gli studenti, serve la tessera per ordinare.»
«Anche soltanto per un caffè?»
«Sì, anche solo per quello. Però se vuoi puoi servirti agli automatici. Mi spiace» mi ha ripetuto lei. E sembrava realmente dispiaciuta.
«Ma io sono stato uno studente. Solo, vent’anni fa. E lavoravo qui.»
La ragazza mi ha guardato con fare sospeso, come se non sapesse cosa rispondermi.
«I barattoli di Kartoffelsalat li tenevamo lì sotto e le confezioni di Ritter Sport là sopra» ho continuato io. «La lavastoviglie è sempre stata lì. Però non avevamo le divise come le vostre.»
La ragazza si è guardata alle spalle in direzione di una collega, una studentessa di colore con un cappellino a visiera, come per controllare di non essere vista. Ha aperto un cassetto, ha tirato fuori una tesserina bianca e l’ha passata accanto alla macchina del caffè.
«La tazza prendila tu laggiù» mi ha fatto segno, «ma non lo dire a nessuno.»
Serie: Il solo modo che conosco
- Episodio 1: Coriandoli
- Episodio 2: Privilegi
- Episodio 3: Finestre
- Episodio 4: Il cerchio intorno alla preda
- Episodio 5: Impronte
- Episodio 6: Equilibrio
- Episodio 7: Abitudini
- Episodio 8: La bottiglia vuota
- Episodio 9: Fotografie
- Episodio 10: Non dirlo a nessuno
Ho percepito, in questo e in altri episodi, la nostalgia di un tempo passato, di un’etá forse più spensierata e di tante esperienze che hanno contribuito alla crescita di un ragazzo che é diventato un uomo. Un uomo che ha raggiunto, anche con lo spirito di volontà e di sacrificio (studiando e lavorando), molti traguardi importanti.
Grazie Maria Luisa, fin troppo buona con me 🙏
Ciao Roberto, questo episodio ha un retrogusto autunnale. Malinconico e nostalgico. Bello!!
Eh belin, è la mia natura meteoropatica 😂. Grazie per averlo letto Tiziana!
Ciao Roberto, grazie per questa nuova passeggiata tra i ricordi di gioventù. Vale almeno un caffè! A presto
😂Meno male, dopo la fatica per arrivare!😂 Grazie Paolo.
Questo episodio mi ha colpito per il tono malinconico ma al tempo stesso leggero con cui racconta i luoghi e i ricordi, e per le descrizioni così ricche di particolari. Poi quella frase sul “giorno in cui sarà leggero come tufo sbriciolato in un sacchetto di stoffa” è una botta al cuore: crudele e delicata insieme. Forse mi ha colpito tanto perché la condivido, e mi ci riconosco a pensarla.
Ciao Lino, grazie per questa condivisione e per esserti immedesimato in quella parte di racconto. A presto!