
Panta Rei
Serie: Genio sovraumano
- Episodio 1: Il linguaggio dell’amicizia
- Episodio 2: Voce del verbo “sentimentare”
- Episodio 3: Il valzer dei talenti
- Episodio 4: Il lato oscuro e il lato giusto di Dio
- Episodio 5: Daimonion
- Episodio 6: La rosa dei venti
- Episodio 7: Panta Rei
- Episodio 8: Al cader della giornata
- Episodio 9: Yin e Yang
- Episodio 10: Strane combinazioni
- Episodio 1: Le strade della solitudine
- Episodio 2: Il seme della paura
STAGIONE 1
STAGIONE 2
Che cos’ è l’uomo se non la sintesi di bene e male ? Che cos’è la vita se non lo scenario di uno scontro e che cos’è la morte…? Che cos’ è la morte… ? A questa domanda in realtà Dèjan non aveva mai saputo rispondere, non dubitava invece dell’esistenza di Dio: l’Ideatore, il grande Architetto. A dire il vero non lo scorgeva nei dogmi o nei profeti. Diffidava delle teologie: scienze di contrabbando in indole artefatta, diffidava delle istituzioni e dei templi eretti in suo nome. Era solito più che altro vederlo sotto le sue unghie, nelle scanalature del soffitto della sua stanza da letto, nella brezza mattutina, attraverso il vento che scuote il fogliame, nel vagito di un cucciolo, negli occhi delle persone che amava, in quelli di coloro che odiava… PANTA REI tutto è materia: tutto è in Dio, Dio è in tutto. Ma alla domanda “che cos’è la morte…?”, non era stato mai stato capace di dare una risposta, confidando forse nel fatto che ahimé, morendo l’avrebbe certamente scoperto e su questo senza angosciarsi oltremodo contava.
Split in quei giorni era in subbuglio. Un viavai ininterrotto di caravan blu intasava il centro cittadino, un terriccio informe e fangoso rivestiva i viali un tempo coperti di ciottoli levigati e adorni di cedri, cipressi e palme rigogliose. Al recente clamore degli spari era seguito lo strepitio diuturno dei cingoli delle ruspe che, nel tentativo affannoso di cavar qualcuno o qualcosa dalle macerie, intossicavano le già appannate menti dei reduci, intenti da par loro a recuperare alla vita le poche cose delle quali si potessero considerare ancora padroni. Il clima appariva insolitamente mite per quella stagione, quasi stimolato da gentile concessione del Sempiterno, a parziale indennizzo delle atroci sofferenze patite in quegli ultimi mesi di una sanguinosa guerra civile.
Le forze di pace al comando del colonnello Hunt erano ormai entrate in città e da cinque giorni occupavano stabilmente gli avamposti della resistenza Serba in ritirata a nord di Brnaze.
A Dèjan non era rimasto niente se non il ricordo di ciò che era stato ed una rabbia repressa, tipica di chi non può significare in gesti e riversare in azioni l’orrore ingabbiato in immagini di repertorio, ma ben vivo nella mente. Era poco più che un bambino ed in un solo anno aveva visto cose che la gente al di là del mare non avrebbe veduto per generazioni a venire.
Cosa avrebbe potuto fare per impedire che suo padre e sua madre venissero fucilati? Cosa avrebbe potuto fare per impedire che suo fratello venisse barbaramente martoriato dai mercenari al soldo di Vàlcik?
Aveva trascorso gli ultimi giorni nelle rovine del vecchio Monastero.
“Vai, rifugiati nel monastero sopra la collina e rimani lì finché tutto sarà finito, non ti troveranno!”, così gli disse il papà prima di essere arrestato e così lui aveva fatto, non prima però di aver assistito inerme allo eccidio dei suoi genitori.
Il ricordo di quel giorno aleggiava nei suoi pensieri in una dimensione onirica: un ricordo sfumato ma assolutamente plausibile.
“Scappa, scappa noi ce la caveremo non aver paura”. esclamò il padre.
“Vai amore, vai e non aver paura, io e tua madre sappiamo badare a noi stessi”.
Dèjan ne era persuaso e fondava il suo convincimento sul fatto che per tutte le volte che il suo Papà l’aveva levato di impaccio in situazioni complicate, nondimeno quella volta, avrebbe salvato se stesso e gli altri da un destino ineluttabile.
Quel giorno i soldati di Vàlcik l’avevano colti di sorpresa. In genere il loro arrivo, era precorso da strali di insulti e improperi. Quella volta furono insolitamente silenziosi.
Non erano ben visti in città né dalla minoranza serba, ne dai croati stessi. Strani uomini d’armi si diceva di loro; mercenari: combattono sotto un’unica bandiera: la scacchiera croata, ma sono tutto tranne che croati: serbi, albanesi, rumeni, kossovari. Lo facevano per soldi e per soldi avrebbero impiccato finanche le loro madri. Gente senza scrupoli dicevano, senza dignità.
Quel mattino Dejan fu destato da uno schianto repentino. Bastò un colpo di Kalashnikov ben assestato a scardinare la stanca resistenza del portoncino dello scantinato dove erano confinati da mesi.
“Avanti tutti fuori”, intimò quella che sembrava il capo.
” Che volete, chi siete”, replicò Sinisa . “Piuttosto chi siete voi” rispose quello.
< Sono il Maggiore Rusla Klasnovic, a capo della seconda divisione del corpo scelto agli ordini del generale Vàlcik ….>
“Ci è giunta voce che ratti serbi infestino ancora la nostra città, la cosa non piace molto al nostro capo, siamo qui affinché leviate il disturbo e stavolta per sempre”.
< Sono più Croato di te, gran puttana!!> ribatté il padre.
“Non me ne vado, questa è casa mia”. “Bene se è così, ci mostri i documenti”:
Il papà di Dèjan si chiamava Sinisa Brankovic, ed era nato a Podgorica in Montentegro quarantre anni prima. Era arrivato a Split per far fortuna e lì aveva aperto una piccola botteguccia. Vendeva souvenir per i turisti, in special modo Italiani e Tedeschi che d’estate prendevano d’assalto il litorale sud-est dell’Adriatico: per il mare, per la buona cucina, per le donne bellissime. Era un uomo poderoso.
Da giovane aveva temprato il suo fisico scaricando pedane nei cantieri navali della vicina Bar. La sua prestanza non lasciava certo indifferenti.
”Sinisa Brankovic, nato a Podgorica, il 15 maggio 1947, siamo conterranei amico mio!!”
“Purtroppo per te, Split è croata e qualcuno vuole che qui ci vivano solo croati”,
esclamò Klasnovic
“Sei una bastarda venduta, lasciateci in pace”, gridò .
Mentre quello asseriva, la Klasnovic fece segno ai suoi uomini di ammanettarlo.
“Bastardi, Dio vi maledica, pagherete per il male che ci fate, pagherete”, sospirò.
Dèjan trasalì, in quel momento ebbe l’esatta percezione di ciò che avrebbe dovuto fare, ma la ferma consapevolezza, che non sarebbe mai stato quello che avrebbe realmente voluto. Tutto accadde rapidamente: il fratello Edin spalle al muro con una rivoltella piantata alla tempia. Vide sua madre implorante, china ai piedi del Maggiore. Poi sentì una mano che energicamente lo trascinava fuori, si sentì issare, era suo padre Sinisa.
< Non ti devono prendere!!> .
Percorse diverse centinaia di metri tra le possenti braccia del padre, prima di essere lasciato.
” Vai dove ti ho detto, passerò io a riprenderti”.
Avrebbe voluto tornare indietro, ricongiungersi con il papà, avrebbe voluto ucciderli quei bastardi, cavargli gli occhi dalle orbite e cibarsene, ma contava sulla perizia del padre e dapprima segui le sue istruzioni.
Quella cittadina era il suo mondo, Dèjan ne conosceva ogni spigolo, ogni viuzza, ogni nascondiglio, sapeva come muoversi inosservato e per questo confidava che non l’avrebbero mai stanato. Trovò posto nel patio di una vecchia bicocca nei pressi di ciò che era rimasto dell’antico palazzo municipale. Una piccola apertura nel tramezzo gli dava una visione completa. La scena che da lì a poco gli fu offerta, non sarebbe stata dimenticata.
Vide suo padre e sua madre tirati a calci e spintoni lungo la retta della strada principale. Riconobbe Klasnovic dietro a un corteo di uomini armati.
Il suo sguardo ansimante cercava invano tracce di Edin, il fatto che non ci fosse non lo tranquillizzava affatto. Piuttosto vide un altro che brandiva quello che a lui sembrava un panno nero.
“Bendateli spalle al muro”, comandò Klasnovic.
Sinisa si dimenava energicamente. Pensò che il padre avesse di certo una soluzione, non concepiva la possibilità che potesse non averla, pensava che avesse già preso accordi con quei criminali e che in qualche modo ne sarebbe uscito. Pensava che insieme sarebbero presto tornati alla vita di tutti i giorni.
Il successivo decorso degli eventi, gli fece al contrario intendere che nulla sarebbe stato più come prima. Udì un sibilo, poi uno schianto, disegnò nella sua mente la traiettoria del proiettile che dapprima cadde sulla madre, poi vide Sinisa.
Sobbalzò. Il terrore di quegli attimi si mescolò nel dolce ricordo di un recente passato, prima che quella sporca guerra insudiciasse le loro vite, quando era solito con il padre e suo fratello prendere il largo in piena notte per pescare al riverbero di una lampara. In quei momenti erano soltanto loro ed il vuoto sterminato: l’uno affidato alla cura degli altri. Avrebbe voluto ridare forma a quella dimensione, plasmare una condizione più consona al suo intervento ed infine volare via lontano, ma ben presto l’improcrastinabile incedere degli eventi lo riconvertì nel fragore del tormento che stava vivendo.
Alla maniera di un burattino condotto dai cavi, scorse Sinisa dapprima immobile, animato d’improvviso da una trivella di colpi a scuotere il suo corpo in un moto isterico ed ancora una lamella di sangue colare lungo le piastrelle del cavedio municipale. Poi più niente. Il Dio in cui credeva calò il sipario.
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