Per la prima volta

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Siamo ripartiti all’unisono, io leggermente indietro per evitare l’effetto Hell’s Angels, maledicendo una carovana che avrebbe ucciso ogni poesia. Poi gli Hell’s Angels hanno svoltato a sinistra verso il Passo Spluga. Ed io a destra, solo, verso il confine ed il Maloja.

Ho perso l’abitudine ai confini. Pensare che da piccolo, eppure, li amavo così tanto.

Non capitava tutti i giorni di passare una frontiera. In vacanza con i miei genitori, sempre a settembre, ci si muoveva perlopiù in Toscana, Umbria, a volte Lazio o Marche.

Ma qualche volta siamo stati in Valtellina, e un giorno lo si dedicava sempre a sconfinare in Svizzera.

Ricordo come fosse ieri l’emozione della notte precedente la mia prima volta all’estero, il faticare a prendere sonno per il desiderio che fosse già l’indomani, la testa piena di pensieri e aspettative su come sarebbe stato dall’altra parte, le cose che avrei visto, le responsabilità che mi sarei dovuto prendere. Ripetevo a me stesso che avrei dovuto essere bravo, comportarmi bene, perché in uno Stato diverso anche le regole dovevano essere diverse; altrimenti, che senso avrebbe avuto uno Stato diverso con regole uguali. Non si poteva mai sapere cosa fosse permesso e cosa no, se i poliziotti sarebbero stati intransigenti o magnanimi, se ci avrebbero fatti passare alla dogana dopo averci controllato i documenti o ci avrebbero rispediti indietro.

Ricordo storie che avevo sentito raccontate dagli adulti, di gente che trasportava di qua e di là troppo tabacco, troppa cioccolata, troppi alcolici. Di un signore che non volevano fare passare perché aveva con sé troppe stecche di sigarette. Allora lui per ripicca, piuttosto che arrendersi a quell’ingiustizia, era rimasto fuori dalla macchina nello spiazzo in cui lo avevano controllato. Appoggiato al cofano, aveva iniziato a fumare sigarette una dietro l’altra, perché erano sue e se non volevano fargliele portare a casa, lui di certo non voleva lasciargliele. Non lo conoscevo quel signore, ma avevo provato una sorta di ammirazione per chi aveva osato sfidare quelli che comandavano, per chi era riuscito a rimanere entro i limiti del consentito pur buttando oltre un pezzetto di piede.

Oltrepassare il confine era una cosa seria, mica roba da tutti i giorni, e quando succedeva restavo incollato al finestrino per controllare se era vero che si vedevano i cartelloni pubblicitari delle Marlboro.

C’erano di mezzo racconti che avevo ascoltato, pagine che avevo letto sui libri di scuola, canzoni di notti e di colline. Colpi di cannone sparati nel buio che illuminavano i boschi e rimbombavano fra le pareti di roccia. I confini erano pezzi di terra da difendere, erano uomini in divisa e berretto, con un fucile sulle spalle.

Nonostante gli anni, quel brivido che mi fa alzare la peluria sulle braccia non se n’è mai andato, sta sempre lì a riposare con una coperta distesa sopra. E al momento giusto si rifà vivo, come un piede che si muove sotto le lenzuola preso di mira da un gatto.

Ancora oggi, nel mio immaginario il concetto di confine non è la strada costiera che da Ventimiglia mi porta a Mentone, né quella che da Trieste mi porta in Slovenia e in Croazia, tantomeno la linea dell’orizzonte con tutto quello che ci può essere dietro. Il confine è qualcosa di montuoso, gelido d’inverno e piacevolmente fresco in estate, a prescindere.

Ultimamente sono sempre più rare le occasioni in cui posso attraversare una frontiera, per lo meno nel senso che le attribuisco io. Troppo assuefatto da tutti quegli aeroporti fatti di gate, check-in, duty free, che mi ritrovo sempre ad essere o ancora di qua oppure già di là, nel passato o nel futuro senza che ci sia mai un presente; che già solo il fatto di essermi abituato a chiamarli in inglese me li rende dozzinali e privi di carattere come la San Miguel che trovo nello scaffale più in basso delle birre al supermercato.

Oppure, le poche volte che passo un confine che non sia in volo, peraltro senza nemmeno accorgermene, lo faccio con la macchina in autostrada. Dove tutto è impersonale, caselli anonimi piazzati lì per convenzione; ammesso che ancora ce ne siano. Una pennellata di vernice bianca per terra a cui nessuno presta nemmeno più attenzione.

Sulla strada tutto mi sembra diverso. Qui avvengono esplosioni che non fanno male, immagini, lampi brevissimi quanto abbaglianti, che per un attimo mi sembra di capire il disegno che sta sotto a nuvole grigie cariche di pioggia che se ne restano lì a galleggiare, indecise se dare libero sfogo a sé stesse o lasciarmi ancora un po’ in balia dell’incertezza.

In alcuni punti, sui confini, si può ancora vedere un universo preesistente, che di quei confini non se ne fa niente ma li accetta comunque, come per fare contenti quelli che li hanno tracciati.

Mi succede a volte di incontrarci delle costruzioni, delle case lungo quei confini, una da un lato e una dall’altro. E non posso fare a meno di domandarmi come sia successo che qualcosa di così astratto sia riuscito a separare qualcosa di altrettanto concreto, come membri di una stessa famiglia divisi da un muro di mattoni che per puro caso è stato eretto lì, quando invece avrebbe tranquillamente potuto non esserlo.

Mi viene da domandarmi se chi ci abita è felice di com’è, di dove si trova. Se ci sono giorni in cui vorrebbe fare a cambio con quel vicino lontano un’altra nazione. Se si ritrovano ogni tanto smarriti a chiedersi come sarebbe andata la loro vita se quella linea immaginaria l’avessero tirata un po’ più in su o un po’ più in giù; o a rimpiangere di non avere indirizzato loro stessi il corso della propria vita, invece di lasciarlo fare a chi di certe cose non ne capisce niente.

Se ancora gli capita di guardarsi a vicenda dalla finestra, dirsi quelli là son italiani, quelli là son svizzeri, c’è mica da fidarsi di quelli, gente strana loro.

Ho attraversato il confine dove finisce Villa di Chiavenna e inizia Castasegna. L’ho fatto accompagnato da tutti questi pensieri. Mi è venuto istintivo guardarmi intorno, controllare le insegne dei locali, le pensiline degli autobus, i manifesti appesi nei punti più in alto. Nel caso avessi visto la pubblicità delle Marlboro, come è successo a quel bambino quando ha attraversato un confine per la prima volta.

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Meravigliosa la scelta della canzone (stavo quasi accantonando la faccenda tedeschi/guerra e tu me l’hai fatta tornare, splendidamente però questa volta…)
    Questi confini mi sono apparsi prima fisici per poi diventare “mentali”, il simbolo di qualcosa di più ampio. Io da bambina, quando si passava un confine insistevo per far fermare l’auto e giocavo a saltare, un piede qua e uno la. Poi mi sono abituata. Un po come quegli abitanti che aprono la finestra e fuori vedono il vicino abitare in un altro Stato e probabilmente non ci pensano neppure più. Molto bello questo episodio. Un “passaggio” in tutti i sensi.

    1. Non ci crederai ma è la stessa cosa che avrei voluto fare io. Piazzarmi davanti al confine, pinzare col freno davanti, dare gas a manetta portando il peso da un lato e produrmi in una serie di cerchi sull’asfalto sconfinando in Svizzera con la ruota posteriore per poi farla rientrare in Italia. Per una decina di volte almeno. Ho chiesto ai doganieri se si poteva fare, mi hanno invitato a provarci ma ho sentito fosse meglio desistere. Così ho proseguito dritto. Che noia.
      Grazie per la lettura e per quello che ne è venuto fuori Irene.

  2. Devo dire che ti ho trovato davvero coinvolgente, la descrizione, i luoghi, il tuo modo di narrare mi ha trasportato dentro il viaggio della tua lettura, davvero complimenti anche per la scelta di copertina di questo episodio!

  3. Ciao Roberto. Ho recuperato tutti gli episodi che avevo lasciato indietro e devo farti i complimenti per la scrittura evocativa che mescola descrizioni, riflessioni e ironia. Stai costruendo un diario di viaggio che permette al lettore di ritrovarsi in tante situazioni che descrivi, intercettando i suoi stessi pensieri e impressioni.

  4. Hai reso molto bene l’immagine di noi ‘ragazzi’ che ricordiamo le aspettative del viaggio, della scoperta e della sorpresa in un mondo che oggi ha forse banalizzato alcune piccole emozioni che la vita ci regalava gratuitamente…

  5. Ho letto l’episodio. Poi alla fine ho visto il link a Generale… Quindi l’ho riletto con la musica in sottofondo, a volume molto basso per non essere distratto dal testo.
    Mille parole dedicate alla parola “confine”: notevole.

  6. Affascinante come i ragionamenti articolati che sanno fare i bambini, con la loro capacità di sorprendersi e domandarsi, ad esempio, come possono vivere dei vicini separati dai confini. In quel passaggio, mi è venuto in mente il muro di Berlino. Tornando allo sguardo da bambini, è qualcosa da difendere e coltivare anche da adulti, sia in viaggio che nella vita di tutti i giorni.
    Bellissimo episodio Roberto, alla prossima tappa!

  7. Decisamente interessante la digressione sui confini. Stimoli una riflessione che, nel presente, purtroppo porta a pensare a quelle popolazioni che “le cannonate” le sentono davvero e alle vicissitudini che hanno portato “qualcuno che non ne capisce niente” a tracciare quelle linee immaginarie…
    Ma anche, meno inquietante, a una visione romantica della diversità fatta di costumi e cultura, ma anche di appartenenza… “Il confine è qualcosa di montuoso, gelido d’inverno e piacevolmente fresco in estate, a prescindere”. Grazie Roberto per la lettura