Qualcosa in comune

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Una volta effettuato il check-in, la signorina dietro il bancone mi ha accompagnato al garage, dove non senza una punta di apprensione ho lasciato Greta a riposare per la notte. Dopo tutte quelle ore trascorse assieme, chissà come se la sarebbe cavata senza di me?

Nonostante la camerata fosse vuota quando sono entrato, i costumi da bagno e i vestiti appesi qua e là hanno fatto tramontare definitivamente le speranze ingenuamente riposte in un alloggio tutto per me. Ho approfittato allora di quella momentanea solitudine per occupare il bagno e farmi una doccia, prima che lo facesse qualcun altro al posto mio. L’ostello non è un luogo fisico, è uno stato mentale tanto quanto la provincia, dove ci si muove col coltello perennemente fra i denti.

Dismessi i panni da Jeeg Robot D’Acciaio e indossato qualcosa di meno omino Michelin, ho buttato un occhio al ripiano dove avevo mollato tutta la roba eventualmente sacrificabile al dio dei borseggiatori lacustri e subito mi è saltato all’occhio la cosa più importante fra gli oggetti sparsi: la consumazione di benvenuto.

Afferrata e scese le scale per il piano terra, ho fatto prima una sosta dalla signorina della reception, ponendole una domanda per la quale immaginavo già la risposta.

«Salve, per caso avreste un lucchetto per chiudere il mio armadietto?»

Lo sguardo eloquente della signorina ha sottinteso chiaramente: se eri meno pezzente ti pigliavi una stanza tua e non ti serviva il lucchetto (gli errori grammaticali erano parte integrante dello sguardo). Poi, dopo avermi dato il tempo di elaborare il biasimo che trasudava dai suoi occhi, ha tirato fuori una cartina e col tono più accomodante di quello che usava Gerald Olin al Dolphin Hotel mi ha mostrato una serie di ferramenta in zona, dove comprare un lucchetto che alla fine del soggiorno avrei potuto tenere. Bontà loro.

«Grazie, va bene così, facciamo che mi sento fiducioso» ho risposto salutando con la mano e dirigendomi verso il bar.

«Come preferisce. Non entri nella 1408.»

Mi sono voltato per farmi ripetere l’ultima parte, ma la signorina era già sparita.

Al bancone del bar una giovane ragazza di colore mi ha sorriso appena mi sono avvicinato, ed io ho tirato fuori dalla tasca il gettone di benvenuto.

«Ciao, cosa posso avere con questo?»

La ragazza, paziente, ha iniziato a ripetermi quell’elenco che chissà quante volte avrà dovuto snocciolare nel corso della sua carriera.

«Posso offrirti una birra, un succo di frutta o una Coca. Cosa ti do?»

«Ti sembrano domande da fare?»

La ragazza mi ha sorriso divertita, ha fatto ciò che andava fatto e due minuti dopo ero già seduto ad un tavolino fuori con una birra in mano. Qui, ho assaporato per l’ennesima volta, come fosse stata la prima, il piacere conturbante che regala il primo sorso ghiacciato a stomaco vuoto, quello che per un attimo ti convince che l’universo stia marciando in tuo favore.

Osservando una miriade di ragazzini seduti attorno ai tavoli, ognuno col telefonino davanti agli occhi mentre discutevano di questo e quello, mi sono perso a ragionare su come non sia vera la storia che i giovani non parlano più fra di loro; è solo che lo fanno in modo diverso da come lo facevamo noi. Ho anche considerato che probabilmente, quella notte, avrei dormito poco.

Ho cercato su internet una pizzeria da raggiungere a piedi senza dovere scomodare Greta, che immaginavo già immersa nei suoi sogni di officine scintillanti e olii da motore di prima qualità, optando per una distante circa venti minuti. Così ho prenotato, ho finito la mia birra e me ne sono tornato in una camera ancora piacevolmente vuota, con l’intenzione di sonnecchiare un’oretta.

Non ricordo quanto abbia dormito, sicuramente non l’obiettivo prefissato. So solo che ad un certo punto il citofono della Gialappa’s ha iniziato a suonare come quando da bambino affondavo le mani sui campanelli dei portoni di tutti i palazzi che incontravo per strada. A quel punto una mandria di giovani americani di ogni forma e dimensione è entrata in stanza ed io mi sono arreso all’evidenza.

«Hey man» mi ha salutato uno, probabilmente come fa col portoricano che gli cura il giardino sul retro della villa in New Jersey dove abita con i genitori.

«What’s up dude?» gli ho risposto io, come un vecchio che vuole fare il giovane e del quale è chiaro non ci si debba fidare. Nessuno, ad ogni modo, mi ha degnato di ulteriore considerazione.

Sveglio per sveglio, li ho lasciati a trangugiare confezioni da otto (ciascuno) di merendine industriali e me ne sono uscito con qualche minuto di anticipo rispetto ai piani, scegliendo il giro largo per arrivare in pizzeria.

Faceva ancora caldo nonostante della luce del giorno non fossero rimaste che le briciole, come quel poco di eredità che rimane da assegnare al ramo povero della famiglia quando tutti gli altri già si sono spartiti le fette più grosse. Camminare con la mia polo a maniche corte, leggero come deve sentirsi un palombaro dopo che gli hanno levato lo scafandro, mi ha fatto apprezzare quella porzione di città fatta di palazzi alti e case vecchie ma non ancora antiche che si arroccano verso le montagne, lontano dal lago e dalla zona turistica, quella che cerco sempre di evitare ogni volta che viaggio per non sentirmi piantato come una comparsa in un set cinematografico.

Ho trovato la pizzeria incassata in un’ubicazione oggettivamente infelice, in quelli che sembravano essere i fondi al pian terreno di un condominio popoloso e popolare, con le decalcomanie alle vetrine al posto dell’insegna inesistente; zeppa però di persone che arrivavano senza sosta, cosa che ho preso come un buon segno.

Mi sono lasciato guidare da una cameriera giovane e occhialuta che mi ha fatto accomodare ad un tavolo all’aperto, dove ho consultato il menù accompagnato dalla cantilena di accenti che non conosco.

Ha catturato in particolare la mia attenzione una giovane coppia seduta davanti a me nell’inequivocabile atteggiamento da primo appuntamento, quelle situazioni che ti saltano agli occhi lampanti anche se non sapresti dire perché.

Lei con lo sguardo accondiscendente ma evidentemente annoiato, ascoltava il ragazzo spendersi in una dettagliata esposizione sulla formazione degli Slayer dal 1981 ad oggi.

Ho provato un forte senso di comunanza con quel ragazzino bianchiccio e magrolino, avendo intuito che entrambi, quella notte, saremmo andati a letto da soli.

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. 😂😂😂Non posso che iniziare così questo commento. Ma quante chicche ci sono in questo episodio? Dai borseggiatori lacustri allo sguardo sottotitolato della ragazza in albergo, l’arrivo dei tuoi compagni di stanza e il finale. Molto, molto divertente, bravissimo Roberto. Alla prossima tappa!

  2. Dopo il percorso infernale dell’episodio precedente, la desolazione dell’ostello, coi suoi vezzi che dipingi amabilmente, mi dato un senso di gratitudine per non aver mai avuto l’occasione di frequentarne uno. O forse mi hai fatto semplicemente pensare a quanto sia invecchiato. Carino il quadretto finale sulla coppia in pizzeria, dove gli Slayer, insieme all’inserviente incontrata prima al bar, mi han fatto tornare alla mente (roba di parecchi anni or sono…) quando, proprio in quel posto, scoprii che c’era un locale per gli extracomunitari, cose d’altri tempi? Letto come sempre con piacere, grazie e alla prossima.

    1. Grazie Paolo, nei tuoi commenti trovo sempre una visuale a cui non avevo pensato e che mi fa apprezzare la magia dello scrivere e del leggere. Quando dici “proprio in quel posto” vuoi dire che conosci Lecco?

      1. Ciao Roberto, Sì. Vivo a Milano e il Lario è sempre stata una meta delle escursioni su due ruote, specialmente in apertura di stagione… Poi, per vicende di lavoro, un mio parente finì per abitare a Lecco alcuni anni e ebbi occasione di conoscerla meglio, che non di passaggio. A presto