Rane

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Lamentandoci di essere relegati alla base della piramide e ponendo al vertice i peggio soggetti della scala evolutiva, trasformandoci in quegli stessi soggetti quando al vertice ci troviamo noi. Non ci meritiamo un cazzo di niente.

Se è vero che ogni cosa ha un prezzo, quello per aver goduto di un tempo splendido all’andata e clemente nei giorni successivi l’ho pagato nell’ultima ora di viaggio di quel mercoledì, una volta svalicato il Passo dell’Aprica e per quasi tutto il tragitto sino all’albergo.

Quel Passo non mi ha lasciato in bocca il sapore di un vero Passo. Piuttosto, quello delle frittelle zuccherate comprate mentre si passeggia fra le bancarelle di un festival o ad una sagra.

Al culmine della salita, spartiacque tra la Valtellina e la Val Camonica, c’è l’Aprica, un vero e proprio paese che si snoda lungo la statale 39. È un’ambientazione urbana, edificata, zeppa di negozi per turisti, che ho visto una marea di volte in televisione nel mio scorrerne annoiato i canali, senza sapere di cosa si trattasse. È un arrivo di tappa di molte gare ciclistiche, non ultimo del Giro d’Italia. In vetta alla salita c’è un’installazione fissa, un arco di ferro che nasce e muore ai due lati della strada e la sovrasta, che ricorda un po’ le scenografie delle premiazioni negli eventi sportivi.

Sotto quell’arco ho scattato a Greta l’ultima fotografia della giornata. Una volta risalito in sella, non appena è iniziata la discesa che porta ad Edolo, il tempo ha cominciato a guastarsi irrimediabilmente.

Il tutto è cominciato come una pioggerella accennata, inequivocabile ma gestibile, di quelle che quando stai camminando per strada e la senti arrivare ti permetti ancora di domandarti se sia il caso di tirare fuori l’ombrello dallo zaino e bagnarlo per quel poco che ti manca ad arrivare a destinazione.

Avevo già, sopra la giacca, il rivestimento antipioggia, ma ho pensato che sarebbe stato meglio indossare anche i copriscarpe, e così ho fatto. Mi sono fermato, li ho calzati velocemente e sono ripartito.

Da quel momento, la pioggerella ha subito una metamorfosi viva, consapevole, intransigente e sorda ad ogni supplica. È passata, in un crescendo inarrestabile, dall’essere una pioggia moderata ad un rovescio consistente ad uno scroscio imponente ad un muro d’acqua che non ricordo di avere mai sperimentato in vita mia, pedone automobilista o motociclista che fossi. Un crescendo rabbioso che precipitava a terra e che pareva non avere limiti d’intensità, una potenza da maledizione biblica, che faceva dire Ok, ho capito, ho pestato una merda e non me ne sono accorto, se mi dici dove proviamo a vedere se riesco a metterci una pezza, però adesso basta. E che cazzo. Lungo un tratto di strada privo di ripari in cui restare fermo sul ciglio non avrebbe portato alcun beneficio.

È stato come guidare attraverso il getto di un numero incalcolabile di idranti azionati da una polizia repressiva e brutale per disperdere la folla durante una manifestazione pacifica, da qualche parte in Sudamerica.

Quello è stato il momento in cui ho compreso l’importanza dell’attrezzatura. Che ci sono cose che puoi lasciare a casa e cose che non puoi, lo spazio in valigia lo devi trovare. Ad esempio: i coprigambe, di quelli non puoi proprio fare a meno. Oppure ti compri un paio di pantaloni impermeabili senza fare tanto il pidocchioso.

Io invece, com’è facile intuire, li avevo lasciati a casa, nella convinzione che la cosa importante fosse la giacca (vero) e qualcosa che tenesse i piedi all’asciutto (altrettanto vero ma non esaustivo). A mia parziale discolpa, credevo che una pioggia del genere fosse illegale.

La copertura per il busto ha tenuto benissimo, non è passata una goccia. Ed anche i copriscarpe di per sé avrebbero fatto il loro lavoro. Il problema sono stati, appunto, i jeans.

Per un po’, inspiegabilmente hanno tenuto. Poi è stato come avere un palloncino di gomma sui quadricipiti, che si gonfia si gonfia finché alla fine esplode.

Una volta che l’acqua aveva impregnato ed occupato ogni millimetro della trama dei pantaloni, quella in eccesso ha cercato un varco per defluire. E dato che, al pari della matematica, nemmeno la fisica è un’opinione, è scorsa verso il basso.

Così, l’acqua accumulata sulle ginocchia e sulle cosce ha iniziato a fuoriuscire dall’orlo dei pantaloni (zona di per sé protetta dai gambaletti impermeabili, così come le calzature) per infilarsi all’interno delle scarpe, col risultato paradossale che una volta impregnate completamente l’acqua ha trovato sfogo nello spazio vuoto fra le scarpe e l’interno dei gambaletti, formando una sorta di piscina che, questa volta, non ha trovato modo di uscire se non tracimando verso l’alto.

Così, ogni volta che cambiavo o frenavo col piede, sentivo chiarissimo lo sciaf sciaf provenire dalla piscina interna e i piedi più leggeri per via del Principio di Archimede.

Non paga (perché le colpe si espiano fino in fondo) la Vita mi ha piazzato davanti anche una deviazione dalla già secondaria strada sulla quale mi trovavo per catapultarmi sul saliscendi di una mulattiera a mezza corsia.

Volontari con indosso un impermeabile giallo, in mezzo alla Provinciale, reggevano in mano cartelli con una freccia che puntava verso destra ed una scritta “Attenzione, strada sconnessa”. E solo dopo pochi metri ho capito che la strada sconnessa non era quella da cui stavano allontanando me e tutti gli altri automobilisti, ma quella verso la quale ci stavano indirizzando, per ragioni che non è stato dato di sapere.

Buche grosse come vasche termali si aprivano sull’asfalto nascoste dai fiumi di pioggia che le riempivano, sommergevano e rendevano invisibili, salvo individuarle nel momento in cui ci cadevo dentro con l’acqua che arrivava all’altezza delle pedaline.

Tutto questo con una fila interminabile di auto dietro di me che di quando in quando mi sparavano gli abbaglianti negli specchietti retrovisori perché, secondo i loro canoni, non mi stavo destreggiando con la giusta velocità attraverso quel cataclisma fitto come gli scrosci di rane che cadevano giù violenti dal cielo di Los Angeles in “Magnolia”.

L’Apocalisse è terminata non appena varcati i confini municipali del Comune di Cimbergo, salutata come niente fosse dall’ultimo raggio di sole della giornata.

O forse, a giudicare dal quesito scocciato che mi ha rivolto la padrona dell’albergo quando mi sono presentato davanti alla reception – Piove fuori? No perché sa, mi sta bagnando tutto il pavimento – lì non è mai arrivata.

Serie: Il solo modo che conosco


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Discussioni

  1. Porca miseria Roberto che sfortuna! 😭
    Ti faccio i miei complimenti per non essere andato nel panico, nonostante, se non ricordo male, questo è il primo viaggio lungo con Greta.
    Spero di non leggerti con un febbrone da cavallo nel prossimo capitolo! 🥲

  2. Ad un certo punto ho controllato prima il soffitto, poi i miei jeans: hai descritto talmente bene la sensazione di essere zuppi, che per un attimo ho pensato di essere sotto un acquazzone anch’io!
    Mi è caduto l’occhio su un particolare della fotografia: il cartello rosso appeso all’arco di benvenuto. “La bici incarna il mito dell’uomo libero”. E Greta, a pochi passi, in primo piano, sembra sfidare e smontare questa teoria. “Puah. La bici? Eh no, cari amici Aprichesi (Apricani? Apricoli? Chiedo perdono, nella mia ignoranza non so come si scrive). L’uomo libero lo porto in giro io!”
    Non so se questo paragone è voluto, ma secondo me è venuto benissimo!

  3. Non lo so se ero più divertita o preoccupata che non ti succedesse niente in una situazione così pericolosa! Come a essere lì.
    La citazione di ‘Magnolia’, la leggerei al contrario. Personalmente, ho sempre percepito la calma esasperante di quella pioggia di rane, non tanto come la fine di una apocalisse spaventosa, quanto l’inizio di una peggiore. Fortunatamente per te non è stato così.
    Un episodio scritto benissimo. Condurre un testo in prima persona, nella testa del protagonista, senza stancare mai il lettore ma, al contrario, tenendolo con il fiato sospeso è davvero da maestri.

    1. Interessante questa interpretazione della pioggia di rane, penso che il film lo rivedrò a breve e quella scena la guarderò sotto il tuo punto di vista. Grazie di tutto Cristiana.

  4. “Piove fuori? No perché sa, mi sta bagnando tutto il pavimento”
    😂 Credo che il pragmatismo bresciano, nonché il matematico calcolo di ogni possibilità possibile, stia tutto racchiuso dentro a questa apparentemente innocente domanda.

  5. Ciao Roberto.
    Devo ancora leggere alcuni episodi e lo farò con calma. Ma questo non può farmi tornare alla mente il ritorno da un viaggio in moto di molti anni fa, quando potevo stare per ore in sella a una Ducati senza necessità che qualcuno mi aiutasse a raddrizzare le ginocchia una volta giunti a destinazione. Tute in pelle… non antipioggia. Risultato? a parte la sensazione che hai descritto benissimo degli stivali pieni di acqua, una volta a casa qualcuno dovette aiutarmi a sfilare la tuta che era diventata parte del mio corpo. E che aveva lasciato anche un leggero colore indefinito “tatuato” sulle gambe.
    Però, diciamola tutta: questa è la moto! E quanto sei in moto le piogge legali non esistono!
    Adesso torno agli episodi lasciati indietro.

  6. Racconto tragicomico che fa rabbrividire all’idea di quello spaventoso nubifragio addosso.
    Complimenti doppi: per la narrazione che potrebbe diventare la sceneggiatura di un film d’avventura, e per esserti destreggiato con la moto, in quell’inferno di acqua e fango, ed essere arrivato sano e salvo fino alla signora “fuori dalle nuvole”.

  7. Talvolta, a ripensarci dopo, vien da ridere… ma non sempre; certe volte riaffiora l’incazzatura. Ché la pioggia in moto non è solo acqua che bagna, ma può trasformare la passione in un inferno, da cui viene da chiedersi come si è usciti. Grazie per la perentesi… letta con solidarietà

  8. Quando smetterò di ridere tenterò di sembrare dispiaciuto per tutta l’acqua che hai preso ahahaha. Ti capisco, l’effetto jeans fradicio l’ho provato in montagna e non è piacevole: all’inizio il calore del corpo scalda le gocce che ti bagnano, ma dopo pochi minuti la pioggia, che è gelida anche d’estate, arriva a provocarti brividi di freddo. Comunque ti chiedo scusa per la scarsa empatia che ho dimostrato ridendo del tuo splendido racconto.