
Reale come l’amore
Serie: Il secondo bacio
- Episodio 1: La prima cosa
- Episodio 2: Lo sguardo altrove
- Episodio 3: Reale come l’amore
STAGIONE 1
Algida aveva avuto una sorella. Di qualche anno più grande, morta quand’erano ancora bambine.
«Chi era?»
Indicavamo la fotografia in fianco al suo letto, le rare volte in cui riuscivamo a infilarci dentro la sua stanza.
«Non sono fatti vostri.» Capovolgeva la cornice sopra il comodino. «Non sono fatti di nessuno.»
Ma in un paese i fatti di uno sono quelli di tutti, stesi al balcone insieme ai panni. I nonni dei nostri compagni di scuola conoscevano Algida, sapevano tutto. Alcuni addirittura dicevano di aver visto. Lo avevano raccontato ai nipoti e i loro nipoti a noi.
«Non è vero!» era l’unica risposta che riuscivamo ad alternare al silenzio.
Gli altri bambini ci mimavano le scene di un terribile incidente avvenuto con un fucile da caccia, lasciato incustodito forse dal padre, per errore.
«Sì, che è vero» ci sfidavano. «Chiedetele del dito.»
Non ci azzardammo mai.
La sera a cena capitava ci scambiassimo sguardi, risolini d’intesa, ma nessuno tra noi osò mai spingersi oltre. Eravamo soltanto bambini, eppure nel gesto di quella cornice capovolta intuivamo il limite di un dolore ch’era meglio non scomodare.
La sorella morta di Algida riposava oltre il cancello del camposanto insieme ai morti di tutto il paese. A noi Algida non lo disse mai. Io lo so perché l’ho vista.
Dopo la sosta al parco percorrevamo il viale alberato assaporando quello che avremmo fatto poi.
«Fate ciò che vi pare, ma restate nei paraggi.» Ferma sul cancello Algida ci vietava di oltrepassarne la soglia. «Ho da farmi gli affari miei.»
Ma il suo mistero già non ci attirava più, era più forte la voglia di libertà.
I grandi sedevano sulle panchine lungo il viale scherzando ad alta voce e chiedendo sigarette ai passanti. I piccoli giocavano a nascondersi tra gli alberi e nei campi d’intorno. Mi univo a loro oppure gironzolavo sola.
Fu così che trovai Peter. In una domenica di particolare disobbedienza decisi di varcare la soglia del cancello per seguire Algida. La osservavo da dietro, di nascosto. L’andatura lenta, la giacca enorme carta da zucchero.
Portava con sè una piccola rosa bianca. La vidi proseguire tra le lapidi e i marmi per fermarsi di fronte a una tomba color ruggine, screziata di grigio oliva e verde, che spiccava per colore e dimensione dalle altre. Tra le fotografie riconobbi il volto pallido della bambina capovolta sopra il comodino.
Non avevo mai visto nessuno pregare dal vivo i suoi morti. Era faccenda da libri, film nella televisione. Scovai una lapide alta e mi ci nascosi, per meglio guardare. Mi sarei aspettata si facesse curva sulle ginocchia o muta, del sapore del marmo che avevamo intorno, ma no. Algida sedeva. Sul fianco, le gambe accavallate e le spalle aperte, la posa di una ragazzina. S’era sciolta la crocchia, con le dita giocava ad attorcigliarsi i capelli e un sorriso le apparve sul viso.
«Ciao.»
Iniziò a parlare, serena. Le mani alla bocca per modulare la voce, o mosse nell’aria ad accompagnare le parole. Sotto i miei occhi smise di somigliare alla signorina Algida per come la conoscevo, quella dei rimproveri e dello zoccolo alzato. Di fronte a quel piccolo visino morto la vidi perdere ogni spigolo, abbandonare il suo nome, farsi di panna proprio come il gelato.
Mi sistemai in giù la gonna, allungai il collo. Cosa le stava raccontando? Forse ricordi, fiabe inventate. Cos’altro avrebbe potuto esserci nella sua vita di così di bello, cos’altro avrebbe potuto portarle il sorriso in mezzo a tutti i suoi guai?
Persi l’equilibrio in un tonfo e quando Algida si voltò corsi via.
Scappai con la gonna levata e il cuore in gola, non saprei dire per quanto. Quando mi fermai a riprendere fiato non sapevo più dov’ero. I sentieri, le pietre, le croci incise. Tutto era sconosciuto e uguale a sé stesso.
Algida ci aveva addestrati. «Se vi perdete, ditelo a qualcuno.»
Cercai, ma non veniva nessuno. Di fronte a me si alzava la parete piatta dei colombari. Una fila ordinata di volti muti e immobili, già vissuti. Sembravano gli abitanti di un buffo condominio e quel pensiero mi fece ridere. Dietro di me un labirinto di fiori recisi e tombe. Il muro di cinta correva ma non scorgevo il cancello che mi avrebbe salvata. Non sapevo che fare ma non avevo paura, così mi arresi. Mossi qualche passo in avanti, mi misi a giocare con la punta delle scarpe e le formiche a terra. Quando alzai gli occhi Peter era lì. Vestito da soldato. I capelli scuri pettinati da un lato e lo sguardo buono. Sul petto qualcosa di simile a una medaglia. Lo guardai. Ricordai ciò che avevo visto fare poco prima ad Algida e sul volto mi apparve un sorriso.
«Ciao.»
Non rispose. Come avrebbe potuto?
Quella sera stessa con la paglia a pungermi il sedere e una fame boia a tormentare lo stomaco decisi che Peter sarebbe stato il mio fidanzato.
Algida mi aveva riacciuffata pochi minuti dopo il nostro incontro e messa in punizione.
«A letto. Senza cena. Dentro il granaio, per una settimana.»
Il manico della scopa a indicarmi la via.
«Io ti odio.»
«Ah si?»
Le settimane erano diventate due. Il chiavistello richiuso senza lasciarmi scampo.
Quella notte, e per l’intera durata del castigo, sognai Peter. Veniva dal finestrone sul soffitto, la mano tesa e lo sguardo buono, era lì per salvarmi. Lo raggiungevo e mi portava con sè. A un certo punto mi baciava le labbra.
«Può bastare.» Quando Algida decise di liberarmi prima del previsto fu quasi un dispiacere. «Però prometti di non farlo più.»
Alzai la mano al petto, là dove stava il viso dolce di Peter. «Non lo faccio più.»
Lo rifeci invece. Lo rifeci eccome. Aspettavo la domenica soltanto per sfuggire al controllo e correre da Peter.
«Chi è il tuo fidanzato?»
Quando a scuola me lo chiedevano, mentivo.
«Nessuno.»
Dentro il mio cuore Peter, il nostro segreto. Sotto la pancia il prurito invisibile che mi faceva provare. Sconosciuto, nuovo e reale, com’è reale sempre l’amore quando lo provi.
Fu un amore lunghissimo silenzioso e devoto e come tutti gli amori credevo davvero sarebbe durato per sempre. Invece, pochi mesi dopo l’arrivo di Patrizio, Algida morì.
Serie: Il secondo bacio
- Episodio 1: La prima cosa
- Episodio 2: Lo sguardo altrove
- Episodio 3: Reale come l’amore
Algida mi ricorda la signorina Genevieve del romanzo “Il ballo delle pazze”, di Victoria Mas; soprattutto per il carattere. Anche a lei era morta una sorella e controllava un istituto. Un libro interessante come lo é anche questa tua serie. La storia d’amore della bambina con Peter, é bellissima, dolce, tenera e ribelle. Spero non vorrai fermarti qui. Morta un’Algida se ne fa un’altra… Motta, Nuii, Sammontana…
Non puoi lasciarci orfani troppo presto di queste piacevolissime letture. Il riscontro, attraverso i numerosi commenti positivi, credo indichi la via maestra da seguire, salvo nuovi sentieri da esplorare per nuove avventure.
Continuo a sentirmi dentro al racconto: la descrizione dei luoghi, i personaggi con il loro carattere che viene fuori ad ogni riga. Se qualcuno mi chiedesse cosa significa “show, don’t tell” gli farei leggere questa serie…
Il primo amore, quasi sempre non ricambiato, perché magari non può: come Peter, un giovane soldato morto. Tuttavia, quel sentimento diventa sempre più grande perché vive solo in noi, protetto da noi, come un bambino che vorremmo far nascere. Ed è amore che non risponde, anche quello di Algida per la sorella, morta forse per causa sua. La vita per lei si è fermata al giorno dell’incidente; ritorna a vivere e a mostrarsi ancora come una bambina spensierata solo davanti all’immagine della sorella. Complimenti, Irene.👏👏👏
L’impegno e lo studio che stai mettendo in questa storia si percepisce chiarissimo ad ogni riga, l’immagine del dito mozzato ne è la prova e il culmine, ed è un dono che ti invidio tantissimo.
Cara Irene, devo assolutamente recuperare tutti i tuoi precedenti racconti, e di questa mia mancanza me ne dispiaccio. Comunque, restando al testo, mi è piaciuto come sempre il tuo stile nel raccontare. Complimenti davvero
P.S: non mi crederai, ma devo recuperare ben 335 racconti ahah
Per definire la tua prosa mi viene in mente il termine “armonia”. È come ascoltare un brano fatto di accordi in minore che non risolvono mai sulla tonica, lasciando sempre in primo piano la dominante. E cioè la malinconia, il rimpianto, l’incanto dell’ amore, il ruvido tocco di Algida (davvero algido e non esente da una certo brutale affetto da madre-padrona) e poi una leggerezza che perdona tutto. Cose umane, cose vere. Molto, molto bello.