Recensione di “Pied de Femme” di Ribda

Serie: ATLANTE DELLE TERRE SOMMERSE


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: FRAMMENTI DALL’ARCHIVIO DI GIORGIO TRAÜBER

a cura di Giorgio Traüber


Inizia quasi in sordina, come una confidenza sussurrata al lettore, il controverso Pied de Femme, in cui l’enigmatico Ribda affronta ossessioni intime e simbolismi corporei, trasformando la podofilia in un pretesto narrativo per esplorare vulnerabilità, controllo e desideri inespressi. 

Personalmente mi trovo in*

*Chiedo perdono per la brusca interruzione: presto capire­te questa mia impellenza di abbandonare la continuità del testo, perché ciò che sto per rivelarvi mi riguarda troppo da vicino e, temo, riguarda anche voi. 

Sì, voi let­tori: senza saperlo, siete diventati infatti complici di mio fratello Giorgio. 

Non so ancora come sia possibile. 

Non so nep­pure se ciò che sto scrivendo sia reale o immaginato. 

Ma devo raccontarlo, almeno una volta, prima che tutto sfug­ga.

Era sei giorni fa – il ventisette giugno – quando decisi di fare visita a Clara Böhm.

La casa si trovava alla fine di una strada ai bordi del cen­tro storico: un quartiere di palazzine d’inizio Novecento dall’intonaco color ocra, poroso come pelle antica, e le imposte azzurre, chiuse a metà, che davano l’illusione di trattenere un respiro.

Entrai nel cortile di una delle abitazioni. 

Giorgio aveva sempre parlato di quella casa come di un’apparizione im­possibile, una sorta di spazio in più nella geografia della città: diceva che al suo posto, anni prima, aveva trovato un epitaffio, inciso su una lapide isolata, con un nome che non aveva mai sentito – Marisa Tantagruel

Eppure, ora che ero lì, la casa esisteva eccome: solidissima, quasi ostinata.

Clara Böhm mi ricevette con un sorriso cortese un buon caffè. 

Era una donna dai movimenti tranquilli, che nella mia testa cozzavano con la sua presunta inesisten­za. 

Mi spiegò, senza che dovessi chiederlo, come avesse conosciuto Giorgio: “Eravamo amici d’infanzia”, disse. 

“Veniva spesso qui a giocare. Da bambino.”

La sua voce aveva una calma che non mi rassicurava.

Esitai. 

Poi, seguendo il filo assurdo che da giorni mi tira­va come un uncino, chiesi se conoscesse, per caso, una certa Marisa Tantagruel.

Clara sorrise, forse attraversata da un’idea buffa.

“Certo!” ammise, “era la precedente proprietaria di que­sta casa. Pensa la coincidenza: aveva lo stesso cognome di un vecchio programma della Rai che guardavo da pic­cola. Ma è passato tanto tempo: ha venduto tutto, di fret­ta, e se n’è tornata nella sua terra natale, in Germania, per… come dire… morire nel suo villaggio.”

Fu allora che chiesi, senza alcun motivo logico – ma con la certezza di conoscere già la risposta – se quel luogo si chiamasse Drebenwald.

Clara rimase ferma.

Poi annuì, quasi compiaciuta del mio intuito.

«Esatto. Drebenwald.»

In quel momento, davanti alle finestre socchiuse e al fru­sciare appena percettibile dei tigli nel cortile, compresi di essere entrato nel meccanismo degli indizi che Gior­gio mi aveva segretamente lasciato intendere… e capii di dover procedere per istinto.

Non so quando decisi davvero di partire. 

Dopo aver la­sciato la casa della Böhm, cominciai semplicemente a camminare, come se qualcuno avesse disposto per me una serie di movimenti inevitabili: verso la stazione, ver­so il confine, poi oltre ancora. 

Era un gesto naturale al punto da sembrarmi preordinato, quasi che il mio corpo sapesse già cosa doveva fare prima ancora che io formu­lassi un pensiero.

Avevo scolpito dentro una sola certezza: Drebenwald non esisteva. 

Giorgio lo aveva ripetuto più volte, con quella precisione trasparente che metteva in ogni suo scritto.

E dunque cosa significava trovarmi proprio davanti a un cartello stradale – una lamiera arrugginita, un nome stampato nell’identica maniera in cui la mia fantasia l’immaginava, senza errore: Drebenwald?

Mi fermai a lungo, prima di proseguire per il sentiero che affondava nella boscaglia. 

Il villaggio apparve d’un tratto, con quella qualità delle cose che non esistono fino a quando non le guardi: case basse, tetti scuri e una piaz­za che ricordava certi caotici dipinti fiamminghi. 

L’aria aveva un’immobilità peculiare.

Avanzai fino alla casa al centro della piazzetta, ricono­scendola senza sapere come: tetto inclinato, persiane ver­di, un reticolo di graticci che ne sezionava la facciata, scomponendola in poligoni asimmetrici. 

Sul cancello, una targhetta d’ottone riportava un nome che mi paraliz­zò.

AURELIA VON BERNAYS

Provai un fremito, quasi un capogiro. 

Aurelia: la quarta moglie di Giorgio, sparita nel nulla, dissolta in un silen­zio inspiegabile. 

E ora di nuovo lì, quel nome, come se avesse seguito un percorso alternativo alla storia, ripre­sentandosi a me con la testardaggine di un segno inevita­bile.

La porta si aprì prima che potessi bussare.

Una donna giovane, molto giovane, mi apparve davanti. 

Non era la Aurelia che conoscevo: troppo fresca nell’età, troppo luminosa nei tratti. 

Eppure le somigliava. 

Come la versione di un sogno che ti rimanda una persona rea­le.

«Ciao, Giulio.» 

La sua voce era limpida. 

Non sorpresa, non interrogativa.

Le chiesi per quale motivo mi conoscesse, incapace di contenere lo sconcerto.

«Non ti conosco. Ma so chi sei.»

Fece un piccolo cenno verso l’interno.

Seguii il suo passo nel corridoio. 

La casa odorava di resi­na, cera d’api e qualcosa di più tenue, certamente cibo. 

Ogni oggetto, là dentro, sembrava appartenere a epoche diverse, come se decenni – o vite – si fossero accumulate lì senza cozzare tra loro.

Aurelia mi portò in una stanza inondata di luce. 

Sul tavo­lo, perfettamente centrata, c’era una busta avorio, chiusa da un sigillo di ceralacca blu.

«L’ha lasciata per te», disse lei, porgendomela. 

«Mi ha detto che non dovevo aprirla. Che avresti capito.»

Posai un dito sul sigillo: era tiepido. 

Questo mi inquietò più di tutto il resto.

Le domandai chi gliel’avesse data.

«Tuo fratello, naturalmente.»

Lei arretrò di due passi, quasi dissolvendosi nella cornice della porta. 

«Apri. Capirai più di quanto vorrai.»

Restai così solo.

Il silenzio era cambiato: aveva un peso, una consistenza morbida e insieme minacciosa, come di attesa.

Ruppi il sigillo, che si sfaldò come gelatina.

All’interno c’era un foglio ripiegato in quattro. 

Riconob­bi la grafia di Giorgio: minuta, inclinata, tesa.

Prima di leggere, ebbi la certezza – una certezza fredda, totale – che quella lettera non parlasse di lui, ma di me.

Del motivo per cui Drebenwald, contro ogni logica, era apparso al mio arrivo come un sogno che aspettasse il suo sognatore per esistere davvero.


Caro Giulio,

ti scrivo con la cautela che si deve alle cose che non hanno mai avuto inizio. 

Ho rimandato a lungo questa lettera, come si rimanda una parola quando non si sa dove farla cadere. 

Ora so che non esiste un luogo giusto, ma solo un momento possibile.

Devo dirti una verità che ti riguarda e che, allo stesso tempo, ti nega: tu non sei mai esistito, Giulio.

Non nel modo in cui hai creduto di esistere. 

Non come fratello che cresce, che scrive, che dubita. 

Sei parte di un romanzo che ho scritto io, lo stesso romanzo che tu hai pensato di star scrivendo. 

Ho finto di cedere te la penna perché non avevo altro modo per avvicinarmi.

La verità più semplice è anche la più dura: non ti ho cancellato dalla mia biografia.

Io sono cresciuto figlio unico, ma con una stanza in più e un nome che veniva pronunciato due volte, una per chiamarmi e una per ricordare chi non c’era. 

Di te mi è rimasto solo il suono, Giulio, una possibilità interrotta che non ha mai avuto un volto. 

Non ho mai saputo come saresti stato, che vita avresti avuto, quali linee avrebbe seguito il tuo viso se il tempo avesse avuto il coraggio di continuare.

Ma te ne sei volato in cielo prima ancora di aprire gli occhi.

Per questo non ho osato inventarti: non volevo costruirti una vita che ti stesse stretta, né costringerti in un carat­tere arbitrario.

Ho fatto la sola cosa che m’era conces­sa: ho ribaltato le parti. 

Ho lasciato che fossi tu rap­presentare me, perché me solo conoscevo.

Tu potevi abitarmi senza essere deformato.

L’Atlante è nato così. 

Non come libro, ma come scusa. 

Un tentativo di mettere insieme un cosmo minimo, semplificato, abbastanza piccolo da poter essere attra­versato da una creatura che non è mai nata. 

Le teorie strampalate, le leggi imperfette, le analogie che imitano concetti più grandi: tutto questo non era ingenuità, ma prudenza. 

Non sapevo abbastanza del mondo per rac­contarlo davvero, forse non volevo. 

Pensavo bastasse un universo sommerso misterioso, un luogo dove po­terti muovere senza dover crescere.

Poi mi è servito il mistero. 

Ho inscenato la scomparsa del mio io letterario perché era l’unico modo per avvici­narmi senza toccarti. 

Non avrei saputo descrivere un in­contro tra noi due, non avrei trovato le parole giuste per un abbraccio che non può avvenire. Così ho lasciato che fosse questa lettera fare il lavoro al posto mio.

Non ti chiedo perdono. 

Non saprei a chi chiederlo. 

Ti scrivo solo per dirti che ogni pagina è stata un tentativo di contatto, ogni storia una carezza trattenuta. 

Se hai avuto l’impressione di esistere, anche solo per un mo­mento, allora forse non ho fallito del tutto.

Questo libro tanto assurdo, che parla di te e descrive il rivelarsi della tua coscienza a se stessa, è in realtà quanto di più semplice possa esistere.

Ora voglio che torni all’inizio dell’Atlante e che tu legga la prefazione con altri occhi – i miei occhi – così da ca­pire lo sforzo fatto per modellarti attorno un mondo su misura. 

Un universo in cui tu possa perderti e ritrovarti, centinaia di milioni di volte, fino a provare l’illusione di un’esistenza. 

Questo è il mio regalo, Giulio, e lo dedico a te. 

Ovunque tu sia.

Serie: ATLANTE DELLE TERRE SOMMERSE


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Discussioni

  1. Non conoscessi Trauber per come ho avuto modo di conoscerlo, mi sarei commossa anche io. Cioè, mi sono pure commossa. il punto è un altro: io credo non si sia commosso lui. Credo abbia scritto questa storia per l’esatto contrario. Trauber non ha provato sentimenti, fino a qui. Non che non li abbia, li ha eccome. Ma ha una certa predisposizione a sfuggirgli, vuoi l’incapacità, vuoi la paura. Non so. Avesse voluto sentirlo, questo dolore che spunta nel finale e che noi abbiamo sentito bene, ci avrebbe raccontato la storia di questo fratello mai vissuto in modo lineare, per quella che è. Parecchi scrittori lo fanno. Lui invece lui ha creato tutto questo. Si è affidato a una finzione che desse la garanzia di non correre rischi, che lo restituisse a se stesso intero. Perchè “finiamo inglobati dalle nostre narrazioni”, e per Trauber narrare è costruire intorno a sè una sorta di gabbia, un posto riparato dal quale guardare la sua vita, il vuoto del fratello, senza però doverci fare i conti davvero. Secondo me. Poi magari sbaglio. La verità la sa soltanto lui (e questa è un’altra cosa bella dell’arte dello scrivere. Non solo lo scrittore, ci si mette anche il lettore a interpretare la propria realtà 😊)

    1. 👏🏻 E hai ragione. Credo tu abbia imparato a conoscere Traüber meglio di me.😂 In effetti Giorgio è un egocentrico indefesso (o almeno è così che s’è presentato, dando sempre un’idea di sé alquanto negativa, “simpaticamente negativa”, se vogliamo. Insomma: è uno stronzo😂) e la tua analisi rende ancora più coerente ciò che ha scritto di sé (fingendosi il fratello) e smussando solo in parte certi spigoli con una mimetizzata autocritica. Traüber quindi potrebbe benissimo essere un uomo impaurito alle prese con un bilancio esistenziale (ma incapace di superare i propri limiti) che in qualche modo ha tentato di crearsi un alibi (l’Atlante) così da edulcorare un eventuale e inevitabile giudizio di sé.🤗

  2. “Per questo non ho osato inventarti: non volevo costruirti una vita che ti stesse stretta, né costringerti in un carat­tere arbitrario”
    bellissima. come i sogni che aspettano di essere sognati per essere qualcosa. qui un essere umano non viene inventato, per poter essere (forse) più di una cosa.

    1. Ciao Irene! Esatto! La serie lavora per sottrazione: si sommano informazioni a informazioni, ma alla fine la storia nasce e germina negli spazi vuoti fra quelle informazioni☺️

  3. “un sogno che aspettasse il suo sognatore per esistere davvero.”
    a ben pensarci tutto esiste, in potenza. Ma ogni cosa inizia ad esistere quando siamo noi a iniziare a pensarlo, o comunque porci la questione.

  4. Ciao Nicholas, complimenti per un finale che ribalta magistralmente ogni prospettiva. Quella che sembrava una ricerca fisica si rivela una meditazione malinconica e raffinata, che usa la finzione come strumento per esplorare il dolore e l’amore: il “dove” si trasforma in un “chi sono io”. La lettera di Giorgio è un atto d’amore straziante e sublime. Costruire un intero universo di carta per dare un’esistenza al fratello mai nato. Stupendo! Il colpo di scena non annulla il viaggio, ma lo eleva, trasformando ogni indizio in un tassello di un regalo commovente. Davvero un gran bel lavoro.

  5. Questo pezzo mi dà l’impressione di uno che ti prende per mano con gentilezza e poi, senza alzare la voce, ti sposta il pavimento sotto i piedi. All’inizio sembra solo atmosfera e piccoli dettagli strani, ma poi capisci che è una trappola costruita benissimo: ti fa affezionare a Giulio e, quando arriva la lettera, ti costringe a rimettere in discussione tutto.

    1. Ciao Lino! Grazie per la lettura!🙏🏻 È stata una serie veramente difficile (da leggere e da scrivere) e questo episodio vuole racchiudere in sé tutta la parte narrativa ed emotiva che è stata negata ai 13 episodi precedenti (esclusa l’introduzione)🤗

    1. Ciao Arianna! Grazie mille per la lettura e per tutti i bei commenti😂 Sono felice che questo episodio sia riuscito a stravolgere completamente il punto di vista del lettore. Volevo proprio qualcosa di emozionante, che ripagasse il lettore dello sforzo fatto per seguire questa (non facile) serie🤗

  6. Che dire, mi hai commossa. La lettera di Giorgio è struggente. Il tentativo di dare vita al fratello nato morto, rendendolo protagonista di un racconto, rivela il desiderio di Giorgio di ricreare quella simbiosi con il suo gemello che si è spezzata alla nascita. Complimenti, Nicholas!👏👏👏

  7. Ciao Nicholas, è pazzesca la svolta che la storia prende a questo punto. Sono sincera, già dalle prime righe avevo notato una sorta di cambio di registro stilistico, come se la narrazione si facesse più intima e personale.
    Si percepisce con chiarezza la doppia anima del racconto, quasi fossero due testi che si tengono per attrazione più che per continuità.
    La prima parte procede per accumulo; un’indagine lenta, ipnotica, costruita su spazi ambigui, nomi che funzionano come esche, dettagli architettonici e corporei che radicano l’inquietudine nel reale.
    Trovo che qui, il piacere, stia tutto nel differimento, nel camminare insieme al narratore dentro un mistero che sembra esterno, geografico, quasi poliziesco nella sua logica di indizi.
    Poi arriva la lettera, e lì il testo cambia natura con una vera sferzata. Non è una semplice spiegazione, ma una torsione improvvisa che ribalta la narrazione. L’esterno collassa nell’interno e il viaggio diventa rivelazione.
    La scrittura si spoglia dell’atmosfera per farsi necessaria, quasi urgente, e da lettrice mi sono sentita trascinata da una dimensione di suspense a una di vertigine emotiva. È in questo scarto netto che il racconto trova la sua forza maggiore, perché la lettera non chiude, ma costringe a rileggere tutto ciò che precede in una sorta di gioco narrativo. E l’invito, oltre che essere per Giulio è, secondo me, anche per noi lettori.
    Bravissimo Nicholas.

    1. Ciao Cristiana! Grazie mille per la lettura e per il bellissimo commento!🙏🏻 È proprio come dici: il testo invita alla rilettura proprio perché stravolge tutta l’ottica di partenza, facendo collimare gli indizi sparsi fra un episodio e l’altro. Purtroppo il testo è lungo, e questa ultima parte raccoglie i vari nomi finti che poi diventano reali (nella finzione di Giulio), e ho pensato che fosse importante suggerire una rilettura chiarificatrice del tutto. Grazie come sempre, Cristiana!🤗