RUSTICO BIFAMILIARE (NELLA RIDENTE BASSA PARMENSE)

Ho sempre vissuto in questa casa. Sempre. Senza alcuna interruzione. Come se le pareti fossero state costruite attorno a me, e ogni volta che ho provato a immaginare un altrove ho finito per capire che no, l’altrove non esisteva, perché tutto ciò che ero, tutto ciò che sono, si è impastato con queste pareti. Il principio – il principio della mia condanna alla permanenza – è stato mio fratello, che a tre anni trovai sdraiato sul pavimento della cucina, soffocato da una mollica. 

Un collasso del suo stesso minuscolo esofago, dissero, tragico ma naturale, anche se io non ci credetti mai davvero, perché già allora la casa aveva mostrato la sua tendenza a reclamare chi non era pronto a restare, e io sì, io ero pronto. Io restavo.


Il cancello era aperto.

Lei l’oltrepassò, fiutandone l’odore lieve di metallo ossidato. 

Il vialetto stretto, chiuso da due muri di vegetazione rinsecchita, li costrinse a procedere in fila indiana, senza spazio per l’esitazione.

«Vediamo di sbrigarci», disse lui, spingendo delicatamente la collega verso la porta d’ingresso.

Lei annuì, estrasse il taccuino aprì la porta senza bussare.

«È di sopra», sussurrò l’uomo, come se temesse di disturbare qualcuno.

La casa li accolse entrambi, con lfissità di un predatore in attesa.


Molto tempo dopo venne il turno di mio padre, che già da anni era un uomo diminuito, un uomo che viveva seduto, che annaspava come se ogni respiro gli fosse soffiato nel petto da un demone assetato di agonia. “Capisci di essere vecchio quando inizi a fare l’amore con la luce spenta”, diceva sempre, mentre ascoltavo i medici dire che il cuore era stanco, che il ritmo era irregolare, e sapevo già come sarebbe finita: col mio ritorno da scuola e la porta del bagno accostata, quasi a invitarmi a vedere ciò che il tempo aveva deciso per lui. Ed ero entrato senza accovacciarmi, senza gridare, perché il corpo capovolto nella vasca non suscitava alcuna sorpresa, semmai una conferma: anche quella volta era spettato a me trovare… e restare.


I corridoi erano bui, il soffitto troppo basso.

I muri erano a una distanza tale da costringerli a camminare senza poter allargare le braccia.

In cucina regnava un ordine impeccabile.

Il tavolo apparecchiato per uno.

La sedia spinta sotto, fino a farne aderire lo schienale al bordo, come se quel posto volesse negarsi.

«Andiamo su», disse lei.

In quella scena di caffè raffreddato e biscotti da discount c’era qualcosa che la rattristava.

Non voleva rimanere un secondo di più a immaginare tutta la solitudine di quella colazione.


Infine venne l’ora di mia madre, che non aveva più forze, non aveva più resistenze, e viveva in un corpo che sembrava rincorrere il tramonto, con la pressione che oscillava come una corda allentata, la vista che sbiadiva, la mente infranta come una notte stellata, e la osservavo consumarsi un giorno dopo l’altro, fino a quando non la trovai: io che entravo nella sua stanza per l’ennesima volta e capivo subito, immediatamente, dall’immobilità dell’aria, che tutto era finito, e che la casa, ancora una volta, s’era presa ciò che non sapeva restare.


Le scale erano di una ripidità vertiginosa: ogni gradino sembrava richiedere un equilibrio che non dipendeva dal corpo, ma dalla casa.

La ringhiera aveva un’unica traccia netta nel punto in cui mani familiari l’avevano carezzata molte volte, sempre nello stesso modo. Lei la evitò. Lui la sfiorò appena e sentì un freddo improvviso, asciutto, fuori stagione.

Al primo piano, il tratto di corridoio era ancora più corto del previsto. 

Le porte sbarrate, identiche, perfettamente parallele, davano l’impressione di essere state chiuse tutte nello stesso istante. Nessuno dei due provò ad aprirle: non era necessario. Dietro c’era solo assenza, non mistero.

Sotto alla botola, il soffitto era così basso che lui dovette piegare leggermente il capo.

La cordicella pendeva dritta, senza oscillare.

Lei la tirò.

La scaletta metallica scese obliqua, componendosi di fronte a loro.


Poi l’anno scorso è toccato a mia moglie, che portava in sé l’abisso di una sensibilità insondabile: un taglio interiore, come una smorfia nascosta dal sorriso, che s’è allargata fino a inghiottire lei e i bambini, perché le crepe non si fermano, non fanno marcia indietro, e quando ho aperto il garage, quella mattina, ho visto nell’auto accesa ciò che non avrei voluto vedere, ciò che vedevo da anni anche quando non era ancora accaduto, prima che i fumi densi dei gas di scarico mi graffiassero gli occhi, aprendomeli, e ancora una volta ero io, solo io, a entrare nella scena finale. Il testimone perfetto di tutto ciò che cedeva, di tutto ciò che crollava, e dopo quel giorno la casa è diventata così piena di loro che era impossibile restarci, e impossibile andarsene.


La mansarda era uno spazio unico, perlopiù oscuro. Ogni oggetto era disposto con un’intenzione che non lasciava dubbi: tutto era rivolto verso la botola, come per assistere al loro ingresso.

Qualche scatolone, fotografie in bianco e nero, una chaise longue consumata, due canterani, un tavolino graffiato: organi vestigiali di un’anatomia estinta.

La poca luce entrava da un abbaino.

«Non c’è nessuno», disse lui.

Ma la donna non rispose. S’era fermata di colpo.


Ieri guardavo un vecchio film degli anni ‘30 del secolo scorso, pieno di uomini e donne che ballavano e cantavano e facevano l’amore. L’unico pensiero che non smetteva di battermi in testa era che nessuno di loro fosse sopravvissuto.

È bastato meno di un secolo.

Oggi, dopo trentotto anni passati in una casa più simile a un sepolcro che a un guscio, dopo aver tentato di convincermi che avrei potuto lasciare questa dimora in qualunque momento, ho deciso di venderla. Finalmente. Perché non posso più sopportare il peso della memoria. E la casa non ha più spazio per restare in piedi con me dentro, mentre io non ho mai avuto spazio per restare in piedi fuori da lei, e dunque ho pensato che il solo modo di sbarazzarmene è diventarne parte: un frammento di ciò che la casa conserva, uno dei suoi reperti, uno dei suoi silenzi.


L’uomo fece un passo avanti.

Seguì lo sguardo della collega.

«Ha fatto in modo che fossimo qui. 

Esattamente qui», mormorò lui.

La sua voce sembrò rimbalzare contro il soffitto tornargli addosso.

Lei s’accorse di un dettaglio: la polvere sul pavimento formava un cerchio attorno ai loro piedi, 

come uno spazio destinato, in previsione del loro arrivo.

tutto il resto – l’ordine, il silenzio, la densità dell’aria – non era casuale.

Erano entrati in una stanza che esigeva la loro presenza.

Il mondo fuori era scomparso nel momento in cui avevano messo piede sulla scala.

ora la mansarda li teneva lì, fissare ciò che li aveva convocati.

Non c’era sorpresa.

Solo rassegnazione.


E così, quando ho chiamato l’agenzia immobiliare e gli ho detto che li avrei aspettati in mansarda, ero già pronto, pronto come non mai, perché sapevo che sarebbero saliti stanza dopo stanza – come ho fatto io per tutta la vita – e che avrebbero trovato ciò che doveva essere trovato. 

Era inevitabile. 

Era giusto. 

Dopo una vita intera passata trovare gli altri.


Immobile. Silenzioso. Definitivo.

Il cadavere era appeso una trave inghiottita dall’oscurità.

Rigido come un cappotto su un attaccapanni, sembrava galleggiare in quell’area di locale in cui il soffitto era più alto.

Non oscillava, ed era questo renderlo irreale. 

Come se fosse sempre stato lì.

La corda tesa, la figura scalza, verticale, il volto inclinato verso di loro come se li avesse visti arrivare già da tempo.


Oggi, finalmente, qualcuno avrebbe trovato me.

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Discussioni

  1. ​Se ho ben capito, il protagonista fa in modo che nessuno possa acquistare la sua casa perché è l’unica dimora che desidera per sé, ed è l’unico abitante che la casa accetta: si tratta quasi di un matrimonio. Dopotutto, molte credenze popolari vogliono che la casa abbia uno spirito, quasi sempre femminile. A Napoli, ad esempio, questo spirito si chiama “Bella ‘mbriana” ed è benigno nei confronti di chi la ama. Bravo come sempre, Nicholas!👏👏👏

    1. Ciao Concetta! Grazie mille per la lettura!🙏 Il racconto resta volutamente al confine fra lo psicologico e il parapsicologico. Quello che mi interessa è il legame fra le nostre vite e i luoghi che le ospitano, quanto di noi quei luoghi si prendono e quanto di loro noi ci prendiamo.🤗