
Saikebon (2/2)
Serie: Le Disillusioni (serie di racconti)
- Episodio 1: Le disillusioni
- Episodio 2: Stupida
- Episodio 3: Andreas
- Episodio 4: Requiem
- Episodio 5: Balla per me
- Episodio 6: Saikebon (1/2)
- Episodio 7: Saikebon (2/2)
STAGIONE 1
La morte è come l’amore. Quando prende la mira e decide che il bersaglio sei tu, non c’è nulla da fare.
Carlo è morto in piazza Duca d’Aosta, a un passo alla stazione centrale, colpito alla nuca da uno skateboard sfuggito al controllo di un ragazzino.
Guya camminava qualche metro avanti, il passo accelerato per la fretta di raggiungere i binari.
Un colpo sordo, nessun grido. Quando si è voltata suo marito era a terra, un burattino scomposto al quale sono mancati i fili. Al suo fianco era già accorsa una donna: gli teneva il polso, invocava aiuto, frugava in cerca del cellulare per chiamare i soccorsi. Un’immagine che Guya non scorderà mai. Si sveglia ancora sudata nel cuore della notte, odiandola, se possibile, più della sorte. Maledetta, perfetta sconosciuta. A piangere la morte di suo marito prima che possa farlo lei.
Carlo è morto sul colpo, non c’è stato nulla da fare. Hanno recintato il perimetro, gettato segatura sopra il sangue. Il treno per la costiera Amalfitana è partito senza nulla saperne e il mondo è diventato un posto ostile, ridotto alle pareti grigie della sala del commiato, il ronzare del trapano a sigillare la bara chiusa.
Venivano amici, parenti, conoscenti e colleghi. Ognuno, insieme alle strette di mano, portava la propria versione.
«Inspiegabile» sussurravano. «Una vera tragedia.» E ancora «dobbiamo essere forti, andare avanti.»
«Avere fede» azzardava qualcuno. «Accettare l’insondabile disegno di Dio.»
Guya si beveva ogni parola senza la forza per replicare. Si vergognava di quella morte irrispettosa e un poco stupida, più simile al pasticcio di un deficiente che al disegno divino. Avrebbe voluto urlare, chiedere scusa per aver trascinato tutti in quella follia, stracciar il copione, prendere a calci e pugni le ghirlande di fiori soltanto per vedere cosa si prova a impazzire davvero. Immobile, taceva. Un puledro mutilato al quale hanno infilato il paraocchi. La fotografia scelta di fretta, un poco sfocata. Le valigie in anticamera ancora da disfare. Qualsiasi cosa. Non doveva guardare. Non doveva impazzire.
Nei giorni seguenti il funerale i vicini si prodigarono per non lasciarla sola. Suonavano alla porta portando torte, pasta al forno, panzerotti ripieni, ragù.
Guya declinava: «grazie, non posso».
«Sforzati» la esortavano. «Qualcosa devi pur mangiare.»
«Il cuore.»
«Ce la farai.»
«No. Il cuore.» Indicava il promemoria delle pastiglie appeso al frigo. «Queste cose non le posso mangiare.»
Che cosa assurda l’istinto a sopravvivere, pensava. Che cosa stupida avere un cuore.
Lei e il suo Carlo si erano presi tanta cura di qualcosa che ora non serviva più a niente. Un vecchio dinosauro stanco, una spugna secca incapace di assorbire.
Rimasta sola Guya si muoveva come un robot, i gesti dettati dall’automatismo delle vecchie abitudini. Sul terrazzo bagnava a casaccio il basilico, che il pollice verde era da sempre stato del marito. In cucina preparava la moka per due. Si voltava, la sedia di Carlo era vuota. In salotto passava l’aspirapolvere senza preoccuparsi di dover far alzare i piedi a nessuno, scansando le pantofole scordate fuori posto, ai piedi del divano.
Tornavano vicini, parenti, amici. Portavano brodo vegetale, orata al forno, libri e consigli pratici sull’ elaborazione del lutto.
La rassicuravano: «il tempo è la cura migliore».
Guya riservava loro lo sguardo assente di uno scolaro ottuso. Le sembrava di essere tornata a scuola, costretta ad imparare cose senza senso. Il flauto dolce, la tabellina del nove, la rotazione biennale delle colture. L’assurda pretesa del volerti ficcare in testa che tutto, in questa vita, servirà a qualcosa. La morte di Carlo, per quel che ne sapeva, non era servita a niente; il verbo elaborare funziona solo se sei un processore e vivi dentro un diagramma di flusso.
L’orologio dell’ufficio segna le diciannove. Guya prova un dolore quasi fisico. È un dolore vivo, scalpita, si torce insieme alle budella, sfilaccia i nervi tesi. Vorrebbe strapparselo di dosso, scagliarlo lontano, urlare vattene, lasciami in pace, quando dalla porta dell’ufficio fa capolino Milena.
«Va meglio?»
Si avvicina, le carezza il viso.
«Non me ne sono accorta.»
Guya indica il suo carrello fuori dalla porta.
«Lo sappiamo.» Milena le passa un fazzoletto. «Non ti preoccupare.»
Prova a sfilarle il Saikebon dalle mani, Guya lo trattiene. «No.»
Si asciuga le guance, tampona gli occhi rossi e lucidi. «Non lo sapete. Io non volevo riempi—» Prova a spiegare, ma insieme alle parole salgono le lacrime.
«Tranquilla.» Milena la rassicura. «È tutto risolto.»
Guya suda freddo. Non hanno capito niente. Non lo sanno.
Quella di oggi è la prima spesa che fa da sola. Col tempo i vicini hanno esaurito i consigli e smesso di portarle cibo. Servirsi alla bottega del quartiere, vivere di avanzi, non bastava più. Ha dovuto uscire, provvedere alla spesa grande, venire alla Conad, mettere l’euro nel carrello, pescare dagli scaffali la merce a memoria, i gesti meccanici dettati dall’automatismo delle vecchie abitudini. Quando ha realizzato che il carrello era riempito per due, ma lei era rimasta sola, ormai era troppo tardi. Non poteva tornare indietro, non lo poteva svuotare. Non poteva tornare a casa. Non poteva neppure continuare.
Guya non è esperta di crimini, non sa come funziona la galera. Il Saikebon è stato la prima cosa che le è venuto in mente di rubare. Credeva sarebbe bastato. Se non proprio a finire in prigione, perlomeno a essere trattenuta. Invece, a quanto pare, ha compiuto un gesto insulso che non le è valso nulla. Anzi. Se possibile, ha sortito l’effetto contrario.
Milena la saluta con un abbraccio, dimostrandole ancora il suo affetto. Il direttore la raggiunge poco dopo. Le porta spesa e cappotto, si offre di accompagnarla a casa.
«Carichiamo tutto sulla mia auto.» Strizza l’occhio, ha perfino voglia di scherzare. «Per questa volta offriamo noi.»
Guya vorrebbe morire. Di vergogna, di sollievo, di dolore. Invece sorride. Si alza e segue quel ragazzo gentile, con il suo neo a forma di stella sulla fronte. Il petto di pietra, terrorizzata a morte, si lascia prendere sottobraccio e accompagnare verso la sua nuova vita fatta di nuove abitudini. La spesa per uno, il basilico che imparerà a far germogliare, le valigie in anticamera che dovrà decidersi a disfare. Il contapassi nel cesto della frutta. Le domeniche di passeggiate e di arrosto che non torneranno più.
Serie: Le Disillusioni (serie di racconti)
- Episodio 1: Le disillusioni
- Episodio 2: Stupida
- Episodio 3: Andreas
- Episodio 4: Requiem
- Episodio 5: Balla per me
- Episodio 6: Saikebon (1/2)
- Episodio 7: Saikebon (2/2)
Difficilmente fatico ad arrivare alla fine di un racconto. Eppure, questa volta, ammetto che da un certo punto in poi il magone ha preso il sopravvento, come se gli occhi lucidi fossero le parole che stavo assorbendo. Non ho potuto fare a meno di pensare “povera donna, vittima di uno scherzo del fato, che tanto si era impegnata a sopravvivere con l’aiuto del marito, per poi vederlo morire in una maniera così stupida”.
È stato straziante, quel ritorno alla vita che della vita con Carlo ha poco in comune, ma è comunque vita.
Questo racconto, arrivati alla fine, mi ha lasciato più rabbia che tristezza; un’emozione che non ho mai associato prima ai tuoi scritti. E per questo voglio ringraziarti, perché sei stata in grado di smuovere così tanti stati d’animo in poco spazio che quando ho alzato la testa dal PC ho dovuto prendermi qualche secondo per elaborarli.
Bellissimo, cara Dea; uno dei tuoi scritti più riusciti! ❤️🔥
Mi fa davvero un piacere enorme questo commento. Riuscire a smuovere così tante emozioni è per me il segno di aver fatto un buon lavoro! La rabbia è rimasta in secondo piano rispetto al resto, almneo nella mia mente mentre scrivevo, invece tu l’hai sentita. Questo è quello che mibpoace di più della scrittura, riuscire a evocare qualcosa che a noi era sfuggito. È uno scambio che arricchisce. Grazie Mary per esserci sempre ❤️
“La morte è come l’amore. Quando prende la mira e decide che il bersaglio sei tu, non c’è nulla da fare.”
Solo una penna come la tua sarebbe stata in grado di generare tanta bellezza in sole due frasi. ❤️
Grazie 🥹🥹🥹
Complimenti, ho letto solo questo tuo racconto in due parti, ma mi hai portato dentro un lutto come nessuno mai prima. Leggere questo racconto mi ha fatto crescere, grazie.
Grazie a te Marco, mi fa davvero piacere che tu sia passato di qui e che questo mio piccolo racconto ti sia piaciuto!
“Quando ha realizzato che il carrello era riempito per due, ma lei era rimasta sola, ormai era troppo tardi.”
❤️
🫂
Superlativo nel suo cruento snocciolarsi di immagini tangibili come la realtà, per atterrare su una sorta di lieto fine che abbraccia la fine del capitolo precedente. Applausi Dea
Grazie Giulio per la tua lettura 🙂
“soltanto per vedere cosa si prova a impazzire davvero”
Quando ho letto questa frase, ho pensato a tutte quelle volte che nella vita è capitato. E capiterà. Sentirsi sopraffatti dal dolore così da impazzirne è un’emozione che, quando arriva, la dobbiamo lasciar scoppiare. Non importa quale sia il motivo. A ciascuno il suo, grande o piccolo. Ma quando arriva davvero, le ghirlande bisogna proprio prenderle a calci. Chissà se fa davvero bene, però è qualcosa. Un inizio. Un inizio che invece Guya non ha ancora avuto. Lei non è riuscita ad impazzire e quella scatola le si è chiusa attorno al cuore, oltre che nelle mani, strette, strette. Mi sono chiesta ‘come si fa davvero? e io, come farei davvero?’ Il tuo racconto straziante non dà risposte e non fa stare bene chi lo legge. Ma questa è la scrittrice che cerchiamo quando leggiamo te. Bravissima.
Uno pur di non impazzire davvero le pensa tutte, perfino impazzire e prendere le ghirlande a calci. Mi sono immaginata un effetto assolutamente liberatorio…poveri fiori, che non c’entrano nulla😅
Mi piace molto quello che mi scrivi: “il tuo racconto non fa stare bene”. Perché ogni volta mi ripropongo di non essere pesante, vado soft, mi dico…e poi…ma che cavolo
Pesante pesante pesante! Piaccia o no, è quello che so fare 😉
Grazie Cristiana. Perché sai leggermi davvero ❤️
Commovente. Sono arrivata alla fine della storia con un nodo in gola. Sei stata bravissima. Hai raccontato la storia con delicatezza e rispetto. Ci hai trasportato dentro la vita di Guya con un linguaggio evocativo e preciso. Complimenti 👏
Grazie Tiziana!
Un racconto che parla di normalità, di uno degli eventi inevitabili della vita. Ognuno reagisce a suo modo, dicono. Ma sei riuscita farmi sentire le sensazioni, il peso che Guya deve sopportare, i tentativi degli amici di lenire il dolore (o forse solo di attenuare gli effetti della sindrome del Buon Samaritano?)
Molto bello, molto toccante.
Hai colto un particolare che sembrava infilato per caso, ma per caso non era… le persone attorno. Non è mai facile gestire il dolore, neppure quando non siamo i protagonisti…tentativi di aiuto, sindrome del buo samaritano, i confini si mescolano, e non sempre l’aiuto risulta a buon fine. Grazie Antonio!
“il verbo elaborare funziona solo se sei un processore e vivi dentro un diagramma di flusso.”
Applauso
❤️
“Immobile, taceva. Un puledro mutilato al quale hanno infilato il paraocchi. “
Che tristezza! Una metafora che evoca in modo perfetto lo stato d’animo di questa donna.
Ho valutato molte immagini, questa mi è sembrata la più calzante…grazie.
Una delle cose che mi piacciono di più nella tua scrittura è la capacità di parlare dell’ordinario in maniera straordinaria.
In un racconto come questo emerge il limite tecnico di essere costretti a dividerlo in più parti invece di poterlo fare scorrere per quello che è, una cosa sola, e di doverlo confinare nei limiti che il termine “episodio” si porta dietro, come se si trattasse di una puntata dei Simpson (con tutto il rispetto per i Simpson).
Grazie Roberto! È il mio primo esperimento con un racconto diviso in due, nella mia testa ovviamente è nato unito, fatico a immaginare l’effetto che può aver fatto a voi lettori. Chissà, magari un giorno troverà una dimensione dove scorrere per quello che è, un unica creatura.
Ok, hai deciso di farmi piangere. In questo episodio hai descritto (nei dettagli) una delle mie più grandi paure: se mio marito morisse prima di me, se dovessi organizzare il suo funerale e avere a che fare con la gente, le condoglianze…Probabilmente impazzirei.
Arianna ❤️❤️❤️
La morte è la paura più grande di tutti noi, sei in buona compagnia. Scriverne serve anche a esorcizzare…e capire che in fondo siamo più forti di quello che pensiamo. Un abhraccio.
Straziante. C’è sempre però, come in altri tuoi racconti, un elemento che fa pensare ad un futuro possibile per quanto acciaccato. Sarà il neo a forma di stella, la gentilezza di quel ragazzo, o forse il fatto che Guya semplicemente si alzi, ma una vita con nuove abitudini si apre, e lei, nonostante il dolore, vi cammini incontro. Bel racconto, Irene.
Grazie Guglielmo. Hai notato un particolare che mi sta a cuore, seminare sempre e comunque un piccolo sorriso, lo spiraglio di una speranza, anche quando i temi trattati non sono dei più “leggeri”. Nonostante la mia indole da “gatto nero” sono la prima ad essere convinta che una via di uscita c è sempre.
Un testo più che coinvolgente. I vicini e gli amici che ti vogliono confortare; la tua casa, in cui neanche riesci più a respirare, e un modo di vivere che non ritorna più. Una domanda: mi è sembrato, ma forse mi sbaglio, di scorgere nel giovane direttore un passato che ritorna per accompagnare Guya verso una nuova vita. Forse un figlio perduto? Brava, Irene.❤️
Più che un figlio perduto, l’immagine di in figlio mai avuto cucita addosso a questo ragazzo che il destino le manda. E chissà che non sia proprio lui ad aiutare Guya ad affrontare il dolore, ridandole un poco di serenità. Avevo pensato un finale più duro, invece il tuo commento a quel neo nel primo episodio mi ha fatta riflettere, e ho deciso di dare un piccolo tocco di speranza… quindi grazie, di cuore ❤️
🙂❤️