Sguardi nel fumo

Faceva caldo. Un caldo afoso, talmente soffocante che mancava l’aria. Respiravo a fatica e il sudore, anche a mezzanotte, mi si appiccicava addosso. Milano, avvolta nell’afa e svuotata dall’esodo vacanziero, appariva spettrale e silenziosa.

In quegli anni, il primo fine settimana di agosto coincideva con il rito delle partenze. Un conto alla rovescia che iniziava nelle fabbriche ancora attive in città e si concludeva negli uffici all’ultimo piano dei palazzi dirigenziali. Lì, dove l’aria era fresca e climatizzata, aleggiava già l’odore di viaggi in business class, con destinazione spiagge tropicali e tramonti mondani.

Chi partiva in automobile avviava i preparativi appena rientrato dal lavoro. I bagagli erano già pronti, ordinati secondo una lista meticolosa che contemplava ogni possibile esigenza familiare. All’alba, allo scattare della grande fuga, l’appuntamento era in autostrada. Milioni di auto incolonnate formavano una processione interminabile, lunga quanto i seimila chilometri della rete autostradale italiana di fine anni Settanta.

Nelle stazioni ferroviarie, i poveracci come noi animavano un’umanità febbrile. Convogli ordinari e treni straordinari venivano annunciati da voci metalliche incomprensibili che echeggiavano tra le volte della stazione centrale. La gente, accalcata sulle banchine da ore, tentava con ogni mezzo lecito e non di accaparrarsi un posto, dando vita a scene di pura violenza e attacchi di panico. Una scena che si ripeteva ogni estate, uguale a sé stessa.

Io no. Quell’estate non sarei partito. Avvolto nel fumo dell’ennesima sigaretta, affacciato al balcone in cerca di refrigerio, guardavo tutti andare via. La città si svuotava, e io restavo lì, spettatore immobile di un silenzio irreale, rotto soltanto dal ronzio famelico delle zanzare.

Ero giovane, nel pieno del vigore fisico, pur facendo di tutto per autodistruggermi: fumo, alcol, hashish e una smodata tendenza a fagocitare qualunque cosa, preda di una fame chimica incontrollabile. Ero tristemente solo, se non con la mia chitarra, fedele compagna accanto al letto, pronta a scivolarmi tra le mani ogni volta che ne sentivo bisogno.

Un disagio che nasceva dall’indecisione. Non sapevo quale direzione prendere, verso quale orizzonte orientare le lancette del mio destino. Restando immobile, aspettavo che fossero gli eventi a indicarmi la strada. Intanto mi consumavo lentamente, e nel buio osservavo una città ormai vuota.

Dopo qualche giorno, in quell’inusuale esperienza, iniziai a prendere il ritmo giusto. Mi alzavo presto al mattino, dopo notti tormentate tra zanzare e lenzuola intrise di sudore. Il silenzio piatto e l’inquietudine, che fino a poco prima mi stringevano il petto in un senso di angoscia, svanivano non appena un getto d’acqua fresca mi sciacquava il viso, riportandomi al mondo.

Il clima politico era teso. Nonostante l’elezione di un simbolo della Resistenza alla Presidenza della Repubblica, la società restava divisa, segnata dalla violenza del terrorismo. Io, anarchico, pacifista, francescano, antifascista, all’epoca non riuscivo a comprendere cosa scatenasse tanta brutalità. Volevo restarne fuori, autoescludendomi da ogni coinvolgimento.

Avevo altro per la testa, convinto che nulla potesse scuotermi più di tanto. O almeno, così credevo. Finché non arrivò quella notte, quando sarà stata l’una, forse le due. Stare a letto era una tortura. Mi alzai per bere qualcosa dal frigo e accesi l’ennesima sigaretta. Mi affacciai al balcone, cercando di liberarmi dai pensieri di tutti gli errori accumulati nella mia pur giovane vita.

Vidi ondeggiare una tenue luce provenire dal palazzo di fronte: una sigaretta che bruciava e, dietro, l’ombra di una figura umana. Catturò immediatamente la mia attenzione. Pensai a un altro poveraccio, ridotto a larva umana come me. Provai un minimo di conforto nel vedere quella figura e nel pensare che, forse, non ero del tutto solo quella notte.

La fissai, come fosse una visione ribaltata di me stesso. Non era vicina, ma abbastanza da distinguerne la sagoma. Ebbe un gesto lieve che mi fece capire si trattasse di una donna: si passò le mani tra i capelli e li tirò di lato, come per prendere aria sul collo. Io, ventenne, in un attimo avevo già costruito una trama intera su quella figura, capace di riempire un romanzo. Tornando coi piedi per terra, finita la sigaretta, ritornai a letto cercando di riprendere sonno.

Al mio risveglio fui preda di un dubbio: chi era quella visione? Mi affacciai, ma il giorno aveva già cancellato ogni traccia. Lo scenario era irriconoscibile, e quella sagoma ipnotica sembrava svanita nel nulla. Da quel momento, non pensai ad altro. Chi sei?

Non avendo altro da fare se non sopravvivere a me stesso, ci pensai per tutta la giornata. Chi poteva essere quella donna misteriosa? Quella sera, il caldo, la situazione e le mie mille paranoie mi avevano fatto esagerare più del solito. Avevo bevuto parecchio e fumato ancora di più. Sconvolto e poco lucido, sarei stato capace di divorare qualsiasi cosa. Ma non avevo nulla.

Iniziai a camminare nervosamente su e giù per la cucina, come in preda al panico. Ero in scimmia totale. I miei passi avanti e indietro diventavano sempre più rapidi e pesanti; pestavo i piedi per sentire sotto di me il pavimento, a conferma della realtà. Quasi svenni a causa della tachicardia. Esausto, mi sedetti e guardai fuori: era buio. E di nuovo apparve quella luce e quella figura, e con lei tutta la mia tensione si dissolse.

Era lontana, indistinguibile, se non per i contorni e quella sigaretta. Si muoveva come a segnalare la sua presenza. Arrivai persino a pensare che quel gesto lo avesse fatto di proposito, che mi avesse visto e volesse che mi accorgessi di lei. Fu questo il mio pensiero, e non riuscivo a liberarmene. Iniziai a imitare i suoi gesti. Ora ero io a volermi far notare, o forse lo eravamo entrambi: sospesi in quella fragile intesa.

Le sere successive restai lucido, e i nostri incontri si ripeterono ogni notte, sempre alla stessa ora. Ogni gesto, ogni piccolo movimento della sua figura era un invito, un messaggio da decifrare nel buio. Nascosto dalla notte, osservavo le sue movenze, la sua esibizione, il tremito della sigaretta tra le dita. Rispondevo con piccoli gesti, segnali di presenza e attenzione. Attrarsi l’un l’altra divenne un gioco erotico notturno, fatto di movenze sensuali, giochi di luce e segnali di accondiscendenza. Era come se mi dicesse: «Ehi, guardami. Sono qui. Io ci sono. Vieni a prendermi.»

Divenne un’ossessione. In quei giorni, l’unica cosa che mi interessasse davvero era rimanere sveglio fino all’ora stabilita, affacciarmi e attendere il segnale. C’eravamo l’uno per l’altra. Lei iniziava a giocare con il corpo, richiamando la mia attenzione. Io la desideravo. Sentivo addosso il suo calore, come se fosse su di me. Dovevo conoscerla. Dovevo sapere chi fosse.

Di giorno mi aggiravo nei pressi del suo palazzo, restavo lì, cercando di capire dai volti e dai corpi di chi usciva dal portone se potessi individuarla. Mi ero costruito un modello mentale, un’identità che sapevo essere solo il frutto della mia immaginazione. Mi sarebbe potuta passare davanti cento volte, e molto probabilmente non l’avrei riconosciuta. Nonostante tutto, restavo lì, osservando chiunque uscisse, cercando di cogliere il più piccolo dettaglio.

La mia vita, intanto, scorreva come al solito. Non c’era molto da fare. Ero solo, in un quartiere dormitorio svuotato per le vacanze, con pochissima gente in giro, soprattutto anziani. Per quei pochi che non potevano permettersi nemmeno una breve fuga, l’unico punto di riferimento era il bar in piazzetta, ancora aperto. Ci andai per comprarmi le sigarette, che non bastavano mai. Mi misi in coda. Davanti a me, una signora con uno spiccato accento milanese chiedeva le sue sigarette. A un certo punto fece un gesto inequivocabile: spostò i capelli di lato, in un modo che conoscevo bene. Ne ero certo. Era lei.

Fui colto da un mezzo infarto dall’emozione. Una donna di mezza età, dal fisico armonioso, valorizzato dai tacchi alti e avvolta in un profumo intenso ma gradevole. Cosa dovevo fare? Presentarmi, farmi notare, toccarle una spalla… forse mi avrebbe riconosciuto. O forse no: ero alle sue spalle. Poi l’età, la differenza. Lei, elegantemente provocante. Io, un mezzo straccione in abiti usati.

Pensai che, in fondo, la differenza d’età non contasse poi così tanto. Erano anni in fermento, quelli. Qualcosa stava cambiando, lo si sentiva nell’aria: si parlava di libertà di amare e di amore in tutte le sue forme, e io ci credevo. Volevo lasciarmi andare, senza pensare a regole, convenzioni o giudizi. Il mio cervello era in fumo, non capivo più nulla, talmente preso da essermi completamente estraniato dalla situazione. Fino a quando non sentii: «Le solite Camel, pacchetto morbido». Mi voltai. Era sparita. Davanti a me, il tabaccaio, quello di sempre, che mi guardava in attesa.

Chiesi al barista se sapesse chi fosse quella donna. Mi rispose di sì: viene spesso, prima con un uomo, ora da sola. Da qualche tempo ha un look più attuale e, da qualche giorno, oltre al caffè, compra anche le sigarette.

Capii allora che non c’entravo nulla. Lei non lo faceva per me, ma per se stessa. Dietro quel gioco notturno si nascondeva un significato più profondo. Si affacciava al mondo come un atto di rinascita, una sfida verso se stessa, verso l’età che avanza e a cui non voleva rassegnarsi, come un’eterna ragazzina. Tracciava nella notte i segni di una femminilità nuova, finalmente padrona del proprio destino. Aveva già puntato le lancette verso un orizzonte nuovo, ed io non potevo essere la sua isola.

Quella sera non mi affacciai. La osservai nascosto, sbirciando dalla finestra. Lei arrivò puntuale al nostro appuntamento, iniziando il suo rituale fatto di gesti, movenze, segnali che si fecero sempre più nervosi, fino a quando, consumata la sigaretta, il buio l’avvolse. Respirai per un’ultima volta il suo profumo, che avevo memorizzato istantaneamente, così come la dolce linea delle caviglie sui tacchi. E decisi che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio.

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Discussioni

  1. Ho trovato il tuo testo molto immersivo. La descrizione dell’esodo vacanziero a Milano è eccezionale e stabilisce un’atmosfera palpabile. Tematicamente, è forte il contrasto tra lui, bloccato nell’attesa e la donna che ha già ha puntato le lancette verso un orizzonte nuovo. Hai colto benissimo come le fantasie del protagonista siano costruite sul suo vuoto personale. Se posso, ho trovato alcuni paragrafi un po appesantiti dalle descrizioni rallentando il ritmo narrativo.

    1. Mi fa piacere che tu abbia colto il contrasto tra i due personaggi. Ti ringrazio per la lettura e per l’analisi così attenta. È vero, tendo spesso a eccedere nelle descrizioni. Anche per questo preferisco restare su narrazioni brevi: in un racconto più ampio rischierei di accentuare ancora di più questa tendenza. Forse è un limite, o forse semplicemente il mio modo di scrivere, non lo so.

      1. @Mauri Anch’io ho lo stesso problema! È strano come si sia più critici quando si leggono gli altri. Poi, quando leggo i miei testi, non riesco ad essere altrettanto critico. Pazienza.

  2. II rito notturno delle sigarette è un erotismo a distanza che ipnotizza; il ribaltamento finale, la sua rinascita, non un invito, lascia una malinconia nitida. Te lo dico come l’hanno detto a me forse a ragione: prova a farne un racconto più ampio, ha già il respiro giusto.