Sotto la stessa pioggia
Serie: Le Porte dell'Inferno
- Episodio 1: Sotto la stessa pioggia
STAGIONE 1
Avevo terminato il turno delle dieci e trenta, con la schiena a pezzi e la testa ancora intrappolata nei rumori. Alla fine della settimana mi sentivo svuotato. Volevo tornare a casa, chiudermi nel silenzio e dormire. La pioggia cadeva, come se con le sue braccia avvolgenti volesse cullarmi, proteggendomi dal frastuono del mondo. Accesi l’auto e mi avviai lungo la strada che costeggiava i capannoni. Prima di trovare un po’ di luce avrei dovuto percorrere diversi chilometri nella zona industriale scarsamente illuminata. Come ogni fine settimana, in quel tratto spento come un treno in galleria, mi chiedevo se, alla mia età , non avrei dovuto essere altrove — sbronzo, con gli amici, magari con una donna — e invece mi ritrovavo in auto, con i vetri appannati, stanco morto, accompagnato solo dalla radio accesa e da quella solitudine quotidiana che mi aspettava.
Alla radio si parlava di un Paese in rivolta contro una politica corrotta, di un’Italia che sentiva il bisogno di cambiare. Era il 3 dicembre del ’93 e le luci di Natale, già accese — ogni anno sempre più in anticipo, un’illusione che spinge a vivere la festa prima del tempo — brillavano fragili, incapaci di nascondere la tensione di quei giorni. La città , sotto una pioggia insistente, mostrava due volti: da un lato la gioia delle celebrazioni imminenti, dall’altro la rabbia collettiva che attraversava le strade. Io, immerso in quel buio, non facevo eccezione. Animato dall’illusione delle feste e da un desiderio confuso di ribellione, rimasi sorpreso quando i fari dell’auto illuminarono una figura che camminava sul bordo della strada.
Coperta da un impermeabile sollevato sulla testa, camminava nella mia stessa direzione. Tirai dritto, pensando: chi è il pazzo che si aggira qui, a quest’ora, con questo tempo? Poi rallentai. Sono fatto così: solitario, schivo, ma incapace di ignorare chi sembra in difficoltà . Frenai, inserii la retro e tornai indietro fino ad affiancarla. Abbassai il finestrino. Rimasi sorpreso: la poca luce bastava a distinguere un volto femminile. «Ehi, serve aiuto?» Nessuna risposta.
«Tutto ok?» Silenzio. «Guarda che da qui alle prime case ci sono almeno trenta minuti a piedi… Sei sicura che va tutto bene?» Cercai una via di comunicazione, qualcosa che potesse attraversare quel silenzio e farle capire che poteva fidarsi — che semmai il pericolo era proprio la sua condizione. Mi fissava, ma non mi vedeva. Gli occhi, persi nel vuoto della sua anima, in quel volto scavato e livido, non lasciavano trasparire più nulla. Sarà stata la pioggia, la situazione, non so con esattezza perché, ma mi venne in mente Rain Man. In certi momenti, in quel film, Charlie deve usare un tono diretto, quasi autoritario, per superare i blocchi emotivi del fratello Raymond. E così feci. «Dai, sali. Non ti porto lontano, fino a un posto dove puoi stare al coperto. Qui non puoi restare.»
All’inizio scosse la testa, il volto bagnato dalla pioggia, i capelli incollati alle tempie. Mormorava parole spezzate, incomprensibili. Le mani tremavano e, forse per stanchezza o per il freddo, cedette: aprì la portiera. Un istante, un respiro. Poi la richiuse di scatto, ritrattandosi. «No, grazie. Farò da sola. Non ho più bisogno di nessuno.» Quelle parole e quel gesto di repulsione mi misero in allarme. Dietro di loro intravedevo una richiesta di aiuto, soffocata dallo stato confusionale in cui si trovava. Restai calmo, la voce bassa, quasi paterna. Con pazienza, frase dopo frase, la convinsi, promettendole più volte che poteva fidarsi. Pochi metri. Un posto in cui ripararsi.
Salì, e l’abitacolo si riempì di un silenzio denso, quasi palpabile. Non volevo spaventarla, né insistere. Iniziai a guidare, inquieto, forse più di lei. Cosa le era accaduto per ridursi in quello stato? E, soprattutto, in che altro guaio mi stavo infilando? L’impermeabile gocciolava sul tappetino e, per quanto fosse inzuppata, bastarono pochi istanti perché il parabrezza si appannasse a causa dell’umidità . Guardava dritto davanti a sé, come se cercasse un punto di riferimento. Le lanciai un’occhiata discreta: avrà avuto poco più di trent’anni. Le mani le tremavano, chiuse in grembo, strette l’una all’altra nel tentativo di scaldarsi. Il meteo alla radio confermava che la temperatura si aggirava intorno ai quattro gradi. Alzai il riscaldamento, giusto per creare un po’ di tepore.
Sembrava allo stremo. In quella situazione non avevo alternative: dovevo intervenire. Pensai — e credo a ragione — che la vita di quella donna, in quell’istante, fosse nelle mie mani. Qualunque cosa avesse fatto o le fosse capitata. Il ticchettio ritmico dei tergicristalli mi diede la spinta per rompere quel gelo. «C’è un posto dove vuoi che ti lasci?» chiesi. Nessuna risposta. Solo un sussurro, incomprensibile. Nel tremore delle sue labbra mi parve leggere una richiesta d’aiuto, ma forse fu solo la mia immaginazione. Forse avevo soltanto bisogno di crederlo.
Raggiunto il centro abitato, non mi fermai. Proseguimmo nel silenzio più totale. Lei non disse nulla. Non saprei dire dove si trovasse la sua mente. Pensai che fosse salita in macchina d’istinto, come un animale ferito, priva di lucidità . Solo puro istinto di sopravvivenza. Presi la tangenziale, come ogni sera tornando a casa, ma stavolta non avevo idea di cosa fare. Ogni tanto la osservavo di sfuggita, cercando un segno, un indizio che spiegasse la sua presenza lì, da sola, sotto quella pioggia battente. La radio trasmetteva notizie di politica, scandali, di un Paese allo sbando — più di quanto mi sentissi io in quell’istante. La spensi.
Quando intravidi le luci dell’autogrill, decisi che fosse il momento di fermarmi. Avevo bisogno di capire. Lei rimase immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, come se non vedesse nulla. «Ci fermiamo un momento, va bene?» chiesi a bassa voce, quasi temendo di turbarla. Nessuna risposta. Solo un impercettibile movimento delle labbra, forse un respiro. Girai comunque nel parcheggio. Le insegne al neon tagliarono il buio che ci avvolgeva, tingendo l’abitacolo di un azzurro innaturale. Spensi il motore. «Ascolta… lì dentro c’è caldo. Posso offrirti un caffè, qualcosa che ti aiuti a stare meglio. Poi decidi tu cosa fare.» Rimase ferma per qualche secondo, le mani ancora strette in grembo.
Serie: Le Porte dell'Inferno
- Episodio 1: Sotto la stessa pioggia
Mi unisco ai commenti positivi. Attraverso i gesti e i pensieri, arriva molto bene la tensione e l’incertezza che questo incontro porta con sé. Viene naturale continuare la lettura, bravo!
Un incipit interessante che invita alla lettura. Mi piace come hai iniziato a caratterizzare i personaggi e l’atmosfera che si crea dopo il loro incontro.
Bell’incipit. Non dici quasi nulla dei personaggi, ma semini indizi che ci aiutano a capire senza però togliere la giusta attesa.
Grazie davvero. Sì, ho scelto di non descrivere troppo i personaggi perché chi legge possa riconoscersi in quella strada buia. Per me quella strada è un percorso difficile, ma che comunque ti spinge in direzione della luce.
Racconto intenso di un microcosmo apertosi, come una bolla improvvisa, in un macrocosmo, quale quello degli anni ’90, che si prestava a questi scenari inattesi densi di magico mistero
Grazie, nei miei racconti le date e i periodi servono spesso da spunto: eventi realmente accaduti diventano il terreno su cui si sviluppa la storia. In questo caso, il periodo storico sembra riflettersi naturalmente nella vicenda.