TERZO PASSO: CAMBIO

Serie: Homines


L’individuo attese con pazienza, e ascoltò la domanda. Volle farlo poiché fino ad allora lui non se n’era mai posta nemmeno una. Dopodiché osservò i propri piedi. Se ne stavano ambedue immobili al loro posto senza che dovessero muoversi mai. Non dovevano farlo, perché erano leggeri e bellissimi. Erano candidi e privi di dubbio. Perché la strada dinnanzi a loro non li avrebbe impensieriti mai. E di ciò che si erano lasciati alle spalle, non ne ricordavano nemmeno il nome. Dunque sollevò il proprio sguardo, e i suoi occhi si fissarono su entrambi i piedi dell’incapace. Essi non si muovevano. Così come i suoi. La terra li aveva sporcati, e la pietra li aveva feriti. Li guardò ancora; perché parevano infelici. Parevano grandi e nudi; e la strada sulla quale poggiavano non li portava da nessuna parte. Se li vedeva starsene là; piantati nel bel mezzo del mondo intero. Come fusti morti senza una direzione. Smise di fissarli, perché in fondo non c’era nulla da vedere. Guardò invece diritto; là dove avrebbe dovuto andare. Evitando di posarsi sopra null’altro all’infuori di un orizzonte senza voce, offrì infine la propria risposta al quesito dell’incapace.

“Tu non possiedi niente”

Infine sputò a terra. Là dove stavano piantati i due piedi grandi e nudi fatti simili a fusti morti. Li colpì senza rimorso in capo. Poiché era vero, volle dirsi, che non si sarebbero spostati mai. Infine procedette verso l’avanti della strada di fronte a lui. Perché i suoi piedi erano candidi e leggeri. Erano bellissimi e privi di dubbio. Come il vento che soffia senza fermarsi; e che di ciò che si è lasciato alle spalle, non ne ricorda nemmeno il nome. 

A quel punto l’incapace volse lo sguardo giù, verso il da basso sopra il quale si trovava. Allora il suo volto calò nella tristezza, e il suo animo si tinse per intero di un grigio che portava dentro. Questi crebbe, e divenne fumo. Si fece enorme e pesante; doloroso e colmo di veleno. E infine gli soffocò il cuore. L’incapace serrò i propri due pugni. Li gettò verso l’alto, là dove il cielo lo guardava senza riuscire a comprenderlo. Volle maledirlo assieme a qualsiasi altra cosa. Dunque lo fece. Percosse la terra con le stesse rocce che vi giacevano immobili come lui e i propri piedi. Che erano sporchi, infelici e senza onore. Maledì la pietra che tratteneva fra le cinque dita. Le disse che nacque dall’acqua. La quale fra il ciottolo e la montagna volle scegliere il ciottolo. Perché da un qualcosa ci deve pur nascere un qualcos’altro. Maledì le madri, perché non sanno scegliere fra la vita e la morte. E maledì i figli; che imparano a camminare prima ancora di imparare a fermarsi. Gridò contro il vento; che si muove senza una direzione. Il vento che è cieco e sordo perché sa di bastare a sé stesso. Che ha timore della montagna pur non comprendendo né l’acqua né la pietra. Il vento che si lascia i ciottoli alle spalle; e che non ricorda i nomi di nessuno. Come piedi che si muovono senza aver bisogno di sembrare vivi. Infine maledì le strade. Che nascono e non muoiono. Che promettono un orizzonte che non parla. Che proseguono verso l’avanti o verso l’indietro a favore di chi è in grado di guardarle. Le strade che se ne rimanevano là, perché non possedevano né un nome né uno scopo. Perché erano vuote e diritte. Erano tante e senza una fine. Come un odio che ti fa divenire folle nel lampo di uno schiocco di dita. 

L’incapace chiamò l’assassino. Questi arrivò, e gli domandò che cosa volesse. Lui glielo disse. Dopodiché attese il suo ritorno. Un giorno, mentre il tempo scorreva, scorse qualcuno comparire là dall’alto dell’orizzonte senza voce. Vide l’assassino. Era tornato perché la strada lo aveva condotto fino a lì. Questi si avvicinò all’incapace. Gli disse di aver fatto ciò che andava fatto. Che il tempo non scorreva più né in avanti né all’indietro. Disse che il vento aveva smesso di muoversi, e che le montagne non gli avrebbero più fatto paura. Disse che lo ieri era giunto alla fine; e che l’oggi lo avrebbe iniziato con ciò che gli spettava. L’assassino allungo il proprio palmo, e l’incapace volle guardarci dentro. Lo vide vuoto e pallido. Come le strade intraprese dagli uomini. A quel punto l’incapace non poté che dire ciò che già sapeva.

“Io non possiedo niente”

Dunque l’assassino ritrasse la mano. Stette a guardarsela, perché era vuota e pallida. Era vecchia e tanto sporca. Poi guardò l’incapace; e non seppe cos’altro pensare. Allora non pensò; e si prese la sua vita. Infine se ne andò, e raggiunse altri luoghi. Perché la strada lo aveva condotto fino a là.

C’era una volta un albero. Questi era alto e ingombrante. Era cieco, sordo e muto. E tutto lo spazio che possedeva non gli sarebbe bastato mai. Un giorno cadde, perché la sua vita era immobile e triste. Era vuota e pallida. Come il palmo di un uomo privo di scopo.

C’era una volta il vento. Era nato senza sapere come. Imparò a muoversi e non seppe più fermarsi. Raccoglieva e gettava via. Là, dietro alle proprie spalle; e non ricordava i nomi di nessuno. Il vento che soffia sugli alberi. E che ti fa divenire nulla nel lampo di uno schiocco di dita.

Serie: Homines


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Discussioni

  1. Guten Tag, Herr Cornacchia. Non so se con questo episodio la serie ha termine, ma posso dire che la lettura mi ha riportato alla mente un proverbio che da ragazza mi è stato insegnato da un’amica in difficoltà: “meglio avere rimorsi che rimpianti”. Non so, quanto sia universalmente vero. Certo è che “guardare” alla vita con passività, staticità, non conduce a nulla: nessun dolore, nessuna gioia. Il tempo passa in fretta, ad un certo punto ci si trova a battere i pugni sul petto incolpando il mondo di ogni cosa senza aver mai fatto quel passo in avanti.