Un blueprint per l’Armageddon

Serie: Il sovrano tra i pari


Ardaent, Subcontinente di Manneng

Nitherr, notte del 29 luglio D.A. 421.012

9 chilometri ad est di Blessel


Fen posò il boccale. Uno schizzo di birra saltò fuori, cadendo sul tavolino, dove si strinse in un coagulo biondo paglierino. Lo schermo della mappa sfarfallò; l’interferenza lo risalì dal basso, sconvolgendo il trittico.

«Quel cretino di Gudrigild non si era accorto di niente», borbottò il suo sovrano. Scoccò un colpetto sulla mappa, che si riassestò con un brusio di statica. «Se non avessimo chiesto a quei pezzenti, saremmo finiti chissà dove.»

Gavriel sollevò il suo boccale e gli propose un brindisi. «Sire, guardi il lato positivo. Se non chiedevamo avremmo potuto finire in Thaddeia, con gli elygiani!»

Fen inarcò un sopracciglio. «Saremmo potuti finire, ignorante.»

«Sì, sire.»

«Ti sarebbe piaciuto, comunque?» Il capitano si spinse contro lo schienale. Lo scricchiolio si sparse per il locale, tra i tavoli tutti occupati. Lo soffocò il chiacchiericcio degli altri soldati. «Olivi, palme e athmannee elygiane.»

«Dicono che siano folli a letto. Amano scopare e uccidere! Perfetto, no?»

«E sono anche una manica di lagnose haraemite.» Fen buttò giù un sorso. Da un taschino prese una tabacchiera, da cui trasse un sigaro. Occhieggiata la scatola, Gavriel sorrise alla vista della dama vaykhiine che vi era ritratta sopra; se ne stava con un pugno piantato sul fianco, tenendo un sigaro tra il medio e l’indice della sinistra, ammiccando. Aveva una lunga chioma bianca, la pelle era d’una bella tinta blu e gli occhi, dal taglio obliquo, erano rossi. Lo scollo dell’abito lasciava poco all’immaginazione.

«Questo ignorando che…» disse Fen, accendendosi il sigaro. Gli lanciò la tabacchiera, facendogli cenno di approfittare in libertà. «Quelli lì stanno andando su di un fronte diverso dal nostro. Di Melpoveene non ce ne frega niente, Gav’.»

Oh, peccato. Sarebbe stato bello conquistare le loro spiagge dorate, magari mettersi al servizio di una kyriana danarosa.

Un’estate a fare la guardia in una miniera di scylicia, in Vanganyke, avrebbe fruttato loro molti bei voleri con minimo sforzo. Cosa ci voleva a sparare ai pigmei che lavoravano lì per tre soldi e mezzo al giorno?

Prima di accendersi il sigaro, Gavriel bevve un sorso di birra. Squadrò il ventilatore della taverna, come roteava in tranquillità.

Stupidi nanerottoli mezzuomini.

Posò la scatola dei sigari. Una mano estranea la prese, facendola saltellare in aria. Il ladro era un soldato zenoviano, in uniforme marrone e kaki appesantita dalle giberne. Aveva un accenno di barba sfatta sul mento e piccoli, aguzzi occhi verdognoli. Sembrava della loro età, con le guance arrossate dall’alcool e un bottone slacciato.

Ciondolò la scatola da un palmo all’altro; con un passaggio la fece sfrecciare sotto il gomito destro, catturandola al volo prima che potesse volare contro una finestra. L’alzò sopra al capo, schioccandole un bacio.

«Acquavite e gite, khyneselles da Vendyssera; ce l’hai una sorella per il mio commilitone?» Il soldato zenovianeo si girò al tavolo occupato dai suoi compagni, un pugno di fucilieri sudati, e tre di questi risposero all’unisono: «Ci sta bene anche se è adottiva!»

«La khyneselles mi ha ammiccato, ma le sue tette? Oh, quelle mi hanno abbagliato!» canterellò il soldato, tornando a fare il giocoliere con la scatola. «Mi ha guardato e detto yìe, yìe, vediamo un po’ che sai fare tu con me!»

«E Martino una ‘Blu si è accalappiato!» Schioccarono i commilitoni, battendo i pugni. «E Martino una ‘Blu si è accalappiato!»

Gavriel sogghignò. Livido, Fen incrociò le braccia e si tirò contro lo schienale.

«Sono andato nel suo letto ed è stato divertente! Era bollente e carica! Si lavorava quei fianchi come una mitragliatrice! Questa prima era un’ancella!»

«Hai scopato con lei ma ci hai giocato troppo!» ruggì il locale, battendo le mani a tempo. «Ora per camminare usi una stampella!»

Ritornò la scatola sul tavolo, nella stessa posizione in cui l’aveva trovata, si produsse in un inchino esagerato e raccose gli applausi dei presenti, un miscuglio tra alarkhiine, zenovianei, releillici e kalinchevi. Presa una cameriera per i fianchi, la tirò a sé e la baciò, togliendole il respiro, poi la spinse via.

Qualcuno gli passò una bottiglia stappata e lui la sollevò. «Agli ‘xaeon, ragazzi! Se non avessero invaso Nitherr, non ci staremmo divertendo tanto!»

Dal suo tavolo si levò un’ondata di risate. «Alle punte! Brava gente, quella del Thorian!»

«A quegli idioti!» esclamarono alcuni alarkhiine, unendosi al festeggiamento. «Cento di questi giorni al loro sovrano!»

Salito su di un tavolo, uno dei releillici batté le mani: «Come ha detto il nostro Augusto, il nostro migliore alleato in questo casino!»

«A lui!»

La porta sbatté contro la parete. Il botto fece sussultare tutti i presenti, in un attimo tesi a guardare chi si era catapultato oltre l’uscio. Calzoni rossi, cintura bianca, casacca blu e vermigli baffetti a manubrio; era un sottufficiale kalinchevo, madido di sudore e trafelato. «Gareìçonn!» esordì, chinando il capo per deglutire una balla di saliva. «È cominciata!»

Lo zennovianeo canterino s’illuminò. «Le Punte ci attaccano?»

«Sì! A Kaulnas!»

«Dove?!»

«A Kaulnas! Gli ‘altavista e i vaykhiine li hanno visti, ci siamo!»

Spinta indietro la sedia, Fen raccolse l’aralasket e se lo gettò in spalla con una svirgolata impetuosa. «Va bene, junkarìs! Alzatevi, siamo in guerra!»

Non doveva ripeterlo due volte. Muovendosi per primo, Gavriel prese il fucile e seguì il sovrano fuori dal locale, aprendo la strada ai compagni che si rovesciano in piedi. La torma uscì al galoppo, disperdendosi per tornare ai reparti d’appartenenza.

Martino alzò le braccia al cielo: «È cominciata! Gli ‘xaeon stanno arrivando!»

Alzati gli occhi al cielo, Gavriel deglutì. Fu come se una ventata fredda gli fosse venuta addosso, schiaffeggiandolo. Sopra ai caseggiati, verso nord-ovest, il cielo riluceva scariche di bagliori azzurri, rossi, gialli e tinti d’ arancio.

Eco lontane sbattevano contro le vetrate, facendole tremare. Tirò la manica e lesse l’ora sul circolo dell’orologio da polso.

22.56.

Nitherr, alba del 30 luglio D.A. 421.012

17 chilometri a sud-est di Kaulnas.

Lo spiazzo era ricolmo di postazioni. Il fianco destro, come quello sinistro, era tutto un movimento e un luccichio di grossi calibri spinti in posizione. Nelle tre ore precedenti, gli artiglieri releillici avevano ricalibrato gli alzi e gli orientamenti dei pezzi, rivolgendoli a nord di Kaulnas.

Sospinte in avanti, le ruote di un grosso obice da cento-e-trenta stritolarono un manto di fili d’erba amaranto e viola, puntellata da macchie di fiori inumiditi dalla rugiada mattutina. Era piegata laddove i muletti e i traini avevano portato in avanti le artiglierie, con chiazze di steli schiacciati dall’andirivieni dei passi.

Gavriel rallentò il passo. Due dei sei artiglieri releillici si disposero ai lati del pezzo, ne afferrarono i maniglioni di sicurezza e s’impuntarono, spingendolo. Altri due li assistettero con dei bastoni rivettati, lunghi e dal manico di syntho-legno.

L’attimo dopo, il quinto si dedicò alla rotella dell’alzo, muovendola con grandi giri di braccia; la bloccò con un colpo quando la canna fu a novanta gradi. Come le altre adesso era rivolta all’orizzonte oltre le punte dei pini. Sul fusto era scolpita una donna dal capo popolato di serpi, a mo’ di polena.

Lo scatto della culatta rotolò sul prato e fu schiacciato da uno scalpiccio veloce. Uno degli altri due artiglieri depose la granata sul carrello, accentrandola con una piccola spinta.

Gli piacevano i loro movimenti. Erano precisi. Dal momento in cui iniziò il riscaldamento della rotaia magnetica, tutti e sei si disposero dietro lo scudo bellico. Assicurarono alle ruote dei morsetti a scivolo invertito, tirandone giù le staffe perché avessero presa a terra.

«Obice pronto!»

Il loro ufficiale, un alarkhiine con un pendente al collo che riportava lo stesso viso di donna del fusto, abbracciò l’orizzonte con la mano. Infilata nella cintura, e stretta contro la lorica a scaglie, c’era una lunga bacchetta di metallo. «Granata, al via!»

Dalla canna sorse una grande, vorace fiammata azzurra, alla sua origine circondata da anelli d’aria ammassata. Il rinculo sospinse il pezzo sugli scivoli e li scalò per più di metà. Gavriel sbatté i denti, sorpreso dall’urlo prodotto. Gli fischiavano le orecchie.

«Fuoco!» Dalle spalle di una piccola china, il comando dell’ufficiale si mischiò al quadruplo tuono d’una batteria di mortai a lungo raggio. Sulla destra, altri trenta cannoni esplosero la loro salva in rapida successione, martellando le cime dei pini con i fruscii iper-sonici delle accelerazioni.

«Fuoco, uno!» Un nuovo boato esplose, riverberando a largo raggio. «Fuoco, due!»

«Fuoco, tre!»

Fen gli posò una mano sulla spalla. «Vieni, ci stiamo muovendo.»

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