Una perfetta occasione mancata

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: O forse, a giudicare dal quesito scocciato che mi ha rivolto la padrona dell’albergo quando mi sono presentato davanti alla reception – Piove fuori? No perché sa, mi sta bagnando tutto il pavimento – l'Apocalisse lì non è mai arrivata.

Il giorno prima del mio arrivo mi avevano contattato i gestori dell’hotel avvertendomi che, a causa di lavori sulla strada principale, per raggiungerli sarei dovuto passare dalla porta sul retro del paese, seguendo un percorso fatto di collinette e boschi che probabilmente avrei trovato piacevole se non ci fosse stato di mezzo il nubifragio. L’albergo stava proprio lungo la deviazione, isolato tra vecchie abitazioni ingrigite dall’umidità e dalla rassegnazione.

Da lì dentro non sono più uscito, se non il giorno dopo quando me ne sono andato. Col risultato che di Cimbergo non ho visto assolutamente nulla. Non che fosse in programma, del resto.

L’idea originaria, quando ancora stavo preparando tutto questo viaggio, era di arrivare in hotel, darmi una rinfrescata, riprendere la moto e farmi un’altra sessantina di chilometri per scendere a Corte Franca a far visita a Cristiana e Gianluca, una coppia di amici che vivono sul lago d’Iseo. Nell’organizzazione, un’ora in più o in meno di strada mi era parsa una differenza insignificante. E magari lo sarebbe stata davvero, se mi fosse capitato un tempo meno astioso. Ma ormai era andata.

Ho accettato la proposta della proprietaria dell’albergo (una donna indescrivibilmente anonima nella sua statura media, nei suoi capelli castani, nella sua età variabile tra i cinquanta e i sessant’anni) di sistemare la moto al riparo nella loro rimessa. Almeno non le si bagna se stanotte piove, mi aveva detto. L’ho ringraziata con un sorriso che dubito abbia compreso sino in fondo, togliendo Greta dal parcheggio momentaneo in cui l’avevo lasciata.

Rientrando, ho chiesto se per cena avrei trovato la pizzeria interna all’albergo aperta.

«Eh no, il pizzaiolo non lavora di mercoledì, stasera solo ristorante» mi ha risposto lei, assumendo in volto la tipica espressione della media Val Camonica dalla quale capisci che è giusto sentirsi stupidi per aver fatto una domanda così inopportuna; di mercoledì. Me ne sono salito in camera riflettendo sul mio comportamento.

Il piano di battaglia consisteva nell’asciugare velocemente pantaloni, scarpe, calze e mutande. Poi fare una doccia calda e sdraiarmi un’oretta prima di scendere al ristorante.

Passare dal piano terra a quello superiore, dov’erano le stanze, è stato come viaggiare attraverso il tempo.

Da basso, un ambiente che si presentava come la perfetta rappresentazione degli anni ’80, con pareti rivestite di perlinato e una sala ristorante sproporzionatamente grande, zeppa di tavoli coperti da tovaglie color crema e seggiole in legno dalla seduta in vimini intrecciato.

Di sopra, una profusione di iper modernità ovunque cadesse lo sguardo, uno spazio aperto riempito da divanetti tanto decorativi quanto inutili, che osservavano porte numerate di stanze fra muri dipinti in una tinta verde acido e adornati da giganteschi quadri astratti. Su tutto il pavimento, una moquette arancione semi fosforescente, bassa e soffice, illuminata da faretti a soffitto che si accendevano appena percepivano movimento.

Quando ho passato la tessera della camera sul lettore a destra dell’ingresso non è successo assolutamente nulla. Nemmeno al secondo tentativo, e nemmeno al terzo. Così sono tornato di sotto per chiedere aiuto alla donna anonima. Questa mi ha squadrato senza dire una parola, sul volto un’espressione sconfortata che tradiva una lampante valutazione sulle mie capacità di utilizzare un tesserino magnetico.

«Le assicuro» ho insistito io, «ho provato più volte. Non si apre.»

La donna anonima, visibilmente scocciata, è uscita da dietro il bancone della reception col fare di chi sa già che si sta apprestando a perdere del tempo, e mi ha preceduto risalendo al piano di sopra, calcando il peso del corpo su ogni scalino con la lenta grevità dei giusti che solcano questa Terra. Ha aperto l’anta di uno stretto armadietto e ha controllato il quadro elettrico che regolava la corrente distribuita nelle stanze.

«Eh, ma qui l’interruttore è spento» mi ha detto voltandosi verso di me, sguardo e intonazione della voce che nemmeno si sforzavano di mascherare il biasimo nei miei confronti, per un imprecisato motivo. «Vada alla porta e provi adesso.»

Ho ubbidito senza fiatare e questa volta ho sentito un ronzio elettrico seguito dallo scatto secco che ha preannunciato l’apertura di uno spiraglio nella porta, permettendomi di intravvedere l’ambiente che mi avrebbe ospitato per quella notte.

«Vede che era una cosa semplice?» mi ha fatto notare la donna anonima. Non ho potuto che darle ragione.

L’ingresso in stanza è stato un altro viaggio nel tempo, ma a ritroso e a buon mercato. Un ampio spazio occupato da mobili vecchi che a confronto della grandezza della camera sembravano costruiti in miniatura, con un casino di vuoto tutt’attorno che dava l’impressione di rappresentare una perfetta occasione mancata.

Ho lasciato l’inasciugabile a perseverare nella propria ostinazione a restare fradicio, poggiandolo su una sedia di plastica in un’anticamera priva di senso fra la stanza e il terrazzo, ed ho passato la mia ora teoricamente dedicata al riposo con un asciugacapelli delle bambole in una mano e una gamba dei pantaloni da moto tenuta tesa nell’altra, appesi alla parete in vetro della doccia, alternando una e l’altra ogni volta che il giocattolino rosa andava in surriscaldamento e si spegneva da solo.

Ho approfittato per fare un paio di telefonate in vivavoce, a Valeria per raccontare le disavventure del pomeriggio e a Cristiana e Gianluca per spiegare loro di essere stato troppo ottimista nel calcolo dei tempi, e che purtroppo questa volta non ci saremmo incontrati.

Quando l’asciugacapelli è morto del tutto ho rivolto a lui un pensiero contrito, ho indossato i pantaloni di riserva e sono sceso a mangiare. Una cena dozzinale, che di buono ha avuto solo qualche fetta di salume e la birra, fra tavoli apparecchiati alla perfezione ma vuoti come i pensieri di un uomo mediocre, guardando video musicali su una tv appesa in alto, a bassissima definizione. Di qualità solo i Thirty Seconds To Mars, poi brodaglia che ha toccato il fondo con Tony Effe che brucia biglietti da cento per accendersi un sigaro seduto a torso nudo su un letto a tre piazze, in duetto con Rose Villain.

Le ho chiesto: «Perché canti assieme a questo, Rose? Non era misogino? Non ci stava in culo a tutti?»

Serie: Il solo modo che conosco


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Discussioni

  1. Una fresca pennellata di ironia che ben si accorda con quella truce della sorte. Come dire, ogni tanto dai sogni si torna sulla terra, e coi piedi bagnati… Grazie molte per questa variazione sul tema. Ciao Roberto

  2. Mi verrebbe da dire che, dopo una giornata storta (e umida), era quasi ovvio tu approdassi nel luogo meno accogliente di tutto il continente, che poi, pensa a quanto sarebbe apparso tutto diverso se al posto della anonima donnina, che ti ha accolto e (scusami) maltrattato, tu avessi trovato una spigliata e sorridente signora, a volte un raggio di sole fa miracoli. Un abbraccio!