
Verso Arrosant e Blessel
Serie: Il sovrano tra i pari
- Episodio 1: Il sovrano tra i pari
- Episodio 2: Gli applausi di Chaedarcuin
- Episodio 3: La campagna di Tressantoure
- Episodio 4: Verso Arrosant e Blessel
- Episodio 5: Un blueprint per l’Armageddon
- Episodio 6: Il blu nel verde
STAGIONE 1
Ardaent, Subcontinente di Manneng
Nitherr 28 luglio D.A. 421.012
Arrosant, nord-ovest di Tressantoure
Arrosant era piccola, poco più di una dozzina di grandi strade ingarbugliate con un labirinto di vie minori affastellate da case su tre piani, alte e strette. Da lontano, dopo l’accenno che le aveva fatto il conducente del carro, l’aveva scambiata per l’ennesimo paesello in riva al Syer.
Fischiettando la canzoncina degli ‘Altavista, Merrix strappò un frutto giallastro da un ramo e lo palleggiò un paio di volte. Il suo sguardo passò a guardare l’allungo del campo, adiacente al bordo della strada, si abbassò sul muretto di sassi che lo divideva dallo sterrato e tornò al ramo. Staccò un morso al frutto, masticandolo a bocca aperta, con gusto. «Sapete una cosa?»
«Dipende!» gli disse Lennard, strattonando la tracolla dell’aralasket. «Prima devi dirci di cosa parli, non pensi?»
«Smettila di fare l’intelligentone, Addormentato.» Merrix slacciò le bretelle del suo zaino, lasciandolo cadere sullo sterrato. Lo gettò oltre il muretto e si volse, con la mano protesa, a guardare Adelche e Allen. «Su, voi due! Datemi gli zaini!»
Le due se li tolsero di dosso e glieli lanciarono; volarono entrambi oltre il muretto, all’ombra delle fronde. Il commilitone appoggiò una mano alla cima e si spinse dall’altra parte. Imbracciò il fucile e picchiò dei colpi con il calcio sul tronco, imprecando al di sopra dei rami che stormivano. Una pioggia di frutti gli cadde ai piedi, presto spinta negli zaini.
«Ma che cosa fate?» strillò la voce di una donna. Gavriel sogghignò, sbirciando tra le fronde più basse per vederla. Diafana di pelle e con capelli fatti d’acqua colante, per metà coperti da un cappello di paglia, la driathea veniva dal centro del frutteto. In mano aveva un rastrello. «Quelli sono i miei frutti!»
Un sottile riverbero animava ogni sua parola; roba da schifosi magici, da gentaglia che aveva un piede nell’Altra Parte.
Prendendo la borraccia, Gavriel occhieggiò Merrix, sui suoi passi per rientrare nei ranghi. Passandogli accanto, il commilitone gli batté una mano sullo spallaccio. «Parlaci tu, Gav’.»
«La devi piantare di rubare la frutta, sai?»
Merrix scrollò le spalle. «Non la sto rubando. È un dono dei locali, non lo sai?»
Col fiato corto, la driathea si appoggiò al muretto. «Perché mi rubate la frutta, farabutti?»
«Siamo soldati dell’esercito jenthaliano, mishrè» le disse Gavriel, togliendosi l’elmo per farsi vedere in viso. «E siamo qui per difendere casa sua dalle Punte. Non stiamo rubando alcun frutto.»
«Quel tizio mi ha svuotato un albero!»
«Il sole ti ha fatto venire le traveggole, acquerello!» esclamò Adelche.
«Bastava chiedermeli!» I suoi capelli s’agitarono, scolando più di prima. «Ve li avrei donati volentieri. Questo è derubarmi.»
Tra un passo e l’altro, Adelche le lanciò una monetina sopra alla testa. «Torna a tessere alla tua pozzanghera, stracciona.»
«Non hai del cioccolato da fare, nitherrica?» la punse Iàn, passandole accanto. «Dai, aria.»
Gavriel allargò le braccia. «Non abbiamo rubato alcun frutto, mishré. Si è sbagliata, succede. Buona giornata a lei, comunque.»
L’avanzata portò il frutteto alle loro spalle, portandoli a marciare su di un dislivello lungo una cinquantina di metri. Una coda di carretti, spinti da smunti sleipniri da tiro o da asini, la stava discendendo con lentezza, sobbalzando sui sassi.
«Altri profughi» sputò Valk piantandosi le mani sui fianchi. «Che gli venga un accidenti.»
Gavriel si pulì le labbra con la manica. Il ruvido tessuto asportò le rimanenze del gusto del frutto, la sua polpa succosa e dolciastra. Sarebbe stato bello averne un altro. «Non ne hanno già passate abbastanza per prendersi pure le tue maledizioni?»
«Se invece di girare i tacchi e andarsene fossero rimasti a combattere per casa loro, magari noi non saremmo qui a farci i calcagni duri, Gav’.»
Non ridergli in faccia fu difficile. Nitherr che se la cavava da solo contro Xaeon? Certo, e poi che cosa? Le Volontà ritrovavano il senno e si riunivano per eleggere un successore al bamboccio dell’Ishtarica? «In effetti…»
«Visto? Mi dai ragione.»
Gavriel scrollò le spalle, tirò le bretelle dello zaino e riprese il suo posto nella seconda linea del reparto. I carretti, più di una ventina e tutti colmi di straccioni, sfilarono cigolando accanto al battaglione, nel polverone alzato dagli stivali chiodati.
«Sì, sì, scappate!» sbuffò Adelche, raccogliendo un sasso e tirandolo al semiasse del primo. I suoi occupanti si lamentarono, spingendosi sull’altra parte del cassone con occhi sgranati. «Tanto ci penseranno uomini migliori di voi a salvarvi.»
«Piantala.»
«È questo caldo» sbuffò lei, passandosi una mano sui corti capelli rossastri. «Mi sta bollendo il cervello. Che posto schifoso.»
Gavriel schioccò la lingua e la lasciò dov’era. Adocchiò un cartellone e scosse il capo. Arrosant era a soli quattro chilometri da loro. Da lì avrebbero dovuto correggere il tiro verso Blessel.
Risalire la china del dislivello lo coprì di sudore, inumidendogli il colletto, le ascelle e le maniche dell’uniforme. La lorica pesava come un carico di sassi e premeva sulle scapole.
Bevve un altro sorso d’acqua e se ne gettò un po’ sul viso, sentendola scorrere sulla pelle incrostata di polvere.
Il corso del Syer borbottava oltre le mura di Arrosant, serpeggiando verso nord-est tra rocce sbrecciate e canneti azzurrini.
Vista da lontano, però, la zona sembrava lo sfondo di una bella cartolina.
Le mosche erano numerose, assembrate in sciami che ronzavano tra uno scaglione e l’altro. Si disperdevano al passaggio degli autocarri e dei traini dei cannoni per poi ricompattarsi.
Un chilometro dopo, da una parallela provennero note d’arpa, in movimento cadenzato, che scavalcavano un fitto scalpiccio corazzato e il sospiro di tanti motori antigravità.
Il battaglione arrestò la propria marcia per riprendere fiato e le righe si confusero, allargandosi in attesa di quel nuovo arrivo; una decina di minuti dopo, la testa della colonna si delineò oltre una siepe rigogliosa, allargandosi quanto bastava per non intralciare i suoi mezzi a forma di cuspidi.
Erano orecchio-puntuti alarkhiine, bronzei di pelle, fasciati in uniformi verdi e appesantiti da armature di placche dorate.
Fen e il maggiore Gudrigild si staccarono dal battaglione per andargli incontro. Raccolto il proprio fucile, Gavriel tallonò il suo sovrano, rimettendosi il fucile in spalla.
«Carino da parte loro farsi vedere» borbottò Gudrigild, accompagnandosi con il bastone da passeggio. «Era ora.»
«State attento, signore: i felph’ potrebbero sentirvi.»
«E con ciò, capitano Fen? Che sentano pure.»
Nell’attimo successivo, il maggiore si piantò al lato esterno della strada e la sua mano saettò alla fronte in uno spiccio saluto. «Quinto Battaglione, Decimo Reggimento degli junkarìs di Jenthala, presente.»
Dalla testa del reparto, tra due arpisti, si staccò un’alarkhiine madida di sudore. Anche lei aveva un bastone da passeggio, lungo e sottile. Ricambiò il saluto, zigzagando con i suoi occhi d’ambra sul battaglione. «Settima Grande Compagine Talarkhiine, Cinquantaduesima Simnorié della Seconda Armata Alarkhiinica. Spero che almeno voi siate nel posto giusto.»
«No.» Gudrigild intrecciò le mani dietro la schiena. «Dovevamo prendere posizione a Blessel, ma le cartine sono sbagliate.»
«Anche le vostre?»
Fen annuì. «Con tutte le navi in orbita e in atmosfera, mandarci delle coordinate giuste non dovrebbe essere una grande impresa e invece siamo qui.»
«Lo stesso vale per noi» borbottò l’alarkhiine, proiettando dal palmare portabile una mappa. «Ci saremmo dovuti trovare tra voi e i kalinchevi.»
«I kalinchevi stanno marciando verso nord-est, tra i releillici e gli altavistiani.»
«Che confusione…»
Lasciando gli ufficiali a parlare tra loro, Gavriel seguì il procedere delle fanterie felph’. Sgobbavano sotto il sole a testa bassa, con gli elmetti conici appesi alle cinture e i fucili arabalas drappeggiati sulla schiena. Molti avevano lunghe spade da combattimento.
Alcuni erano ambrati, altri marroncini. Per la maggior parte, la loro pelle aveva un colorito bronzeo chiaro, come una lega cotta troppo poco nell’altoforno. Appesi alle loro fibbie dondolavano dei lunghi drappi di seta verde, puntellati da una spolverata di astri a dodici punte, circondati da doppi anelli di glifi
Uno degli arpisti lo accostò e posò lo strumento a terra prima di gettarsi dell’acqua sul viso. Se la spazzò sul viso con le mani, spostando zaffate di polverio incrostato dal sudore. «Awnw se fa caldo, qui…»
Gavriel si corrucciò. «Pensavo che per voi alarkhiine fosse normale.»
«Non siamo alarkhiine, athmanneo. Siamo talarkhiine.»
«È la stessa cosa, no?»
«No!» L’arpista afferrò il drappo e lo sbandierò un paio di volte prima di farlo cadere. «Non siamo della stessa schiatta che siede a Loirendon.»
Era un chiacchierone, quindi. Ottimo, facevano passare il tempo. «Per me siete tutti felph’.»
«Sì, ma non siamo la stessa razza di felph» disse l’alleato, piegandosi sulle ginocchia. «Siamo tutti di R’vyevi e Talara. L’Impero ci ha chiamato a combattere la sua guerra contro Xaeon, ma non siamo sudditi del suo trono di smeraldi. Non lo saremo mai.»
«Ah-ah…»
«Non sai di cosa parlo, vero?»
Gavriel annuì. Dirgli che non gli interessava affatto, però, sarebbe stato scortese.
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