Viaggio nell’Atlantico
Da Oxford a Kansas City il viaggio prometteva settimane di salsedine e monotonia. Theodore salpò in compagnia di George Vanderbilt, il compagno di stanza che fungeva da collante sociale nella cerchia universitaria. Destinazione finale: la tenuta di John Thompson nel Kansas, dove avrebbero passato l’estate. Prima dell’imbarco, una tappa obbligata nella residenza londinese dei genitori di Theodore – un palazzo neoclassico dove ogni oggetto raccontava secoli di potere coloniale.
Partirono all’aurora, quando il Tamigi stillava nebbie argentate. La cabina di prima classe odorava di legno di teak e cera d’api, lussi che non nascondevano il rollio minaccioso della nave. George, seduto sul baule di cuoio, aveva già iniziato il suo monologo:
«Ricorda, Theo: i Thompson sono bigotti metodisti. Se menzioni Darwin, ti lanceranno in mare come Giona.»
Theodore annuì, le dita che tamburellavano sulla rilegatura del suo “Cime tempestose”. All’Università, il suo razionalismo aveva mandato in crisi teologi e medium spiritici. Ma qui, nell’Atlantico del 1865, sapeva di dover giocare un ruolo diverso. Un gentiluomo inglese, si ripeté, non un iconoclasta.
«Evita anche politica e sesso» aggiunse George, sistemandosi il colletto amidato.
Theodore sollevò un sopracciglio. «Tu parli di evitare il sesso? Dopo che hai…»
«Con Emily è diverso!» lo interruppe George, le orecchie che diventavano porpora. «Con lei certe cose non si discutono.»
Ah, Emily. Theodore si passò una mano sugli occhi, stanco solo a sentirne il nome. Quante notti aveva sopportato i deliri d’amore di George? Quante volte aveva ascoltato descrizioni di quel volto “angelico” e di quella virtù “incrollabile”?
«Se menti su chi sei» obiettò Theodore, «come può amare l’uomo vero?»
«Dopo le nozze, la verità sarà un fardello condiviso» replicò George, sicuro come un predicatore.
Theodore si avvicinò all’oblò. L’acqua era un vetro verde attraverso cui danzavano ombre di meduse. «È un inganno. E se lei facesse lo stesso con te?»
«Impossibile. Le donne sono…» George cercò la parola, le dita che disegnavano un arco nel aria «…esseri trascendenti.»
Theodore scoppiò in una risata soffocata. «Hai letto troppo Walter Scott. Le donne sudano, mentono, tradiscono come chiunque altro.»
«Blasfemia!» George sbatté i pugni sulle ginocchia. «Hai presente la teoria di Ruskin? L’angelo del focolare è —»
«— una gabbia dorata per chi ha paura della parità» lo interruppe Theodore, sfoderando la prima edizione di “Jane Eyre” dalla tasca. «Leggi questa e poi ne riparliamo.»
George scostò il libro come fosse avvelenato. «Romanzi da donnette. Preferisco i trattati di filosofia.»
«Di autori rigorosamente maschi, immagino» commentò Theodore, osservando come l’amico evitava di toccare la copertina. Quel gesto gli rivelò più di un discorso: in America, capiva ora, le idee viaggiavano ancora in carrozze trainate da cavalli ottocenteschi. L’Inghilterra aveva le sue ipocrisie, ma almeno permettevano alle scrittrici di usare pseudonimi invece di bruciarne i manoscritti.
«No, se una donna scrivesse un trattato di filosofia, sarei ben lieto di leggerlo» precisò George, aggiustandosi i gemelli d’oro ai polsi con un movimento nervoso.
Theodore sbuffò, un sorriso beffardo che gli solcò le labbra. «Mentiresti pure in confessione, amico mio. L’Inghilterra ti ha insegnato l’eleganza, ma non a nascondere l’odore di puritanesimo.»
«Lo fai sembrare un vizio» ribatté l’altro, sfiorando il crocifisso appeso al collo.
«È sopravvivenza. Sei ancora legato a dogmi che qui» – batté le nocche sul legno della paratia – «abbiamo bruciato con la Rivoluzione Industriale.»
George incrociò le braccia, la mascella tesa. «Chiamala ipocrisia, ma io temo il Giudizio Universale, non i tuoi sofismi.»
«L’inferno sarà un salotto letterario, George. Immagina: Voltaire che discute con Oscar Wilde, Mary Wollstonecraft che ti fulmina con uno sguardo…»
«Blasfemo!» lo interruppe l’amico, pallido. «Dovresti inginocchiarti e pregare, non scherzare su…»
«E cosa si aspetteranno i Thompson da un inglese?» cambiò bruscamente argomento Theodore, osservando un gabbiano planare sull’acqua.
George si grattò le basette, riluttante. «Eleganza. Cultura. Quel modo di… sorridere come se il mondo vi appartenesse.»
«Ah, lo snobismo insulare.»
«Esatto. E l’accento. Quando ti arrabbi, diventi incomprensibile come quel vecchio ubriaco alla Locanda del Re.»
Theodore lo fissò, gli occhi che brillavano di finto sdegno. «Santo cielo, Vanderbilt. Per questa battuta, dio ti condannerà a non sposare Emily.»
George impallidì come la vela maestra della nave. «Basta scherzi» sibilò, le dita che serrarono il parapetto come artigli. «Appena laureato, tornerò a Boston. Le chiederò la mano, costruirò una casa sul Beacon Hill…»
Theodore interruppe, la voce coperta dal fragore di un’onda: «E se rifiutasse?»
«Mi sparerei» rispose l’altro, automatico, prima di corrugare la fronte. «No… forse no. Ma non sposerei nessun altro. Mai.»
«Nobile gesto da romanzo gotico» commentò Theodore, osservando un marinaio che issava una bandiera lacerata. «Peccato vivere nell’epoca delle dinastie industriali. Tuo padre ti incatenerà a un matrimonio di convenienza. Tre figli maschi, possibilmente. Ereditieri annoiati che odieranno Harvard come tu odi le tue cravatte.»
George si portò una mano al collo, strozzato da quell’immagine. «Fai sembrare la vita una prigione.»
«Lo è» assentì Theodore, sfiorando la catena dell’orologio da taschino – un cimelio di famiglia intriso di sudore di servi. «Siamo galeotti in cerca di spiagge inesistenti. Io governerò le piantagioni paterne, tu venderai cotone a nome di Vanderbilt. Moriremo ricchi, grassi e vuoti come barili di rum.»
«Sei un cinico senza anima» lo accusò George, il vento che gli scompigliava i capelli in una corona disordinata. «Ti salverà solo l’amore, quando busserà.»
Theodore rise, un suono secco come lo schiocco di una vela. «L’amore è un’invenzione di poeti e mercanti di diamanti. Io ho il dovere» disse, indicando la stiva dove oscillavano bauli sigillati con lo stemma di famiglia. «Tu hai la tua Emily. Ma entrambi abbiamo lo stesso destino: fare ciò che ci viene ordinato.»
Il sole era ormai alto, e sulla tolda iniziò il concerto metallico delle posate da pranzo. George mormorò, quasi perdersi nel rumore: «Forse… forse dovremmo fuggire. In Messico. O in Patagonia.»
Theodore gli posò una mano sulla spalla, ironico e malinconico. «Caro amico. Anche lì arriveranno le ferrovie.»
Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao James, uno scambio molto serrato, con un usi sapiente della punteggiatura nei dialoghi. Una domanda: ma è il primo episodio di una Serie?
Ciao, perdona il mio ritardo nel rispondere. Non lo so, ci devo ancora pensare.
Dialogo brillante, fluido, divertente e personaggi davvero credibili. La scrittura di questo racconto è così accurata e fatta bene che sparisce lasciando emergere temi e personaggi. Complimenti James.
Grazie mille, mi fa piacere che il testo sia apprezzato. Inizialmente temevo che i dialoghi fossero troppi e pesanti, ma, con mia sorpresa, non sono risultati tali.