6. Lascito

Serie: L'imperfetto


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Lucian, uomo apatico intrappolato nella routine, viene attratto a una conferenza su Jung dove incontra un enigmatico Relatore. In un pub riceve da lui una chiave d’avorio. Poco dopo scopre che Sophia, la sua ex moglie, si è suicidata lasciandogli un eredità.

Accelerò senza accorgersene quando raggiunse via Mozart.

Il numero 3 lo accolse con la sua facciata austera, la pietra scura levigata dalla pioggia. Un edificio che sembrava appartenere a un’altra epoca. Sotto quella luce grigia appariva ancora più imponente, quasi minaccioso.

Salì le scale con passo regolare. Ogni gradino gli pesava.

Più saliva, più sentiva di allontanarsi da ciò che conosceva.

Al secondo piano trovò la porta socchiusa.

Si fermò. Il corridoio dietro di lui era silenzioso. 

Troppo. 

Persino i passi sembravano risucchiati dal pavimento.

Appoggiò la mano sulla maniglia. Spinse piano.

Per un istante ebbe la sensazione che la soglia si dilatasse sotto i suoi occhi. 

Poi tutto tornò normale. O quasi.

Entrò.

La luce filtrava dalla grande finestra dietro la scrivania, dorata e innaturale.

L’aria sapeva di carta antica, inchiostro… e qualcosa di dolce e marcio al contempo.

Inspirò lentamente. 

I mobili in legno scuro sembravano più imponenti del necessario. I libri formavano un muro di volumi che parevano osservarlo.

E poi, dietro la scrivania, una figura.

«Signor Lucian.» La voce era calma, quasi affettuosa. «È un piacere incontrarla.»

L’uomo dietro la scrivania alzò lo sguardo e Lucian sentì un nodo serrargli la gola. Non era tanto l’aspetto di quell’individuo a spaventarlo, quanto l’impressione netta, assurda, che la stanza avesse smesso di obbedire alle regole della fisica.

I capelli erano bianchissimi, quasi traslucidi, fili d’avorio che sembravano illuminarsi dall’interno. La luce li attraversava con un riflesso che non apparteneva alla stanza, sembrava provenire da una fonte più profonda, remota.

Il volto, scavato, non aveva ancora deciso se appartenere al passato o al futuro.

Gli occhi, grigi e taglienti, non avevano colore ma densità: un metallo vivo in cui ogni movimento di Lucian si rifletteva, distorto.

Le spalle sottili, le dita affusolate che si muovevano appena sul piano della scrivania, davano l’impressione che la materia lo trattenesse e lo respingesse allo stesso tempo.

«Lei» riuscì appena a mormorare. «È il notaio?»

«La prego.» Un sorriso senza calore. «Mi chiami Arion.»

Si alzò con un movimento lento, quasi liquido. Il corpo sottile sembrò obbedire a una gravità propria.

«Sophia le ha lasciato delle risposte importanti.» Fece una pausa. «Ma non facili.»

Lucian abbassò lo sguardo. Le dita si muovevano da sole, come a cercare qualcosa sul bordo della giacca.

Le parole gli scivolarono fuori, quasi senza permesso.

«La chiave… non l’ho portata.»

Un gelo improvviso gli attraversò il petto.

«Scusi.» mormorò infine, imbarazzato. «Non so perché l’ho detto.»

Ma dentro di sé, in qualche modo, sapeva.

Arion lo fissava, immobile, senza tradire la minima sorpresa.

«Non importa.»

Poi si mosse verso di lui, i passi misurati, lo sguardo fermo.

«Lei e Sophia avete scelto una via difficile.» disse infine. «Sua moglie ha aperto una porta che nessun altro avrebbe potuto aprire.» Fece una breve pausa.  «Le ha lasciato un dono. Un’occasione.»

Tornò alla scrivania senza dire una parola, aprì un cassetto con lentezza e ne estrasse un oggetto avvolto in un panno di velluto nero. 

Lo posò tra loro, con una cura quasi rituale.

«Questo è il lascito di Sophia.» La voce calma. «Non commetta l’errore di giudicarlo per ciò che sembra.»

Lucian esitò. Le dita gli tremavano appena quando sollevò il panno.

Sotto, uno scrigno. Piccolo, ma denso, sembrava racchiudere più materia di quanta ne potesse contenere. Il legno, di un colore indefinibile, sembrava mutare con la luce. Le venature formavano linee mobili, mappe che si ridisegnavano da sole. Al centro, una serratura dorata: liscia, pulsante.

«La chiave d’avorio è l’unica che può aprirlo.»

«Lei…» sollevò di scatto la testa. «sapeva della chiave.»

«Ma certo.» Un accenno di sorriso deformò appena le labbra dell’essere. «Me l’ha rivelato lei poco fa, non ricorda?»

Lo scrigno tremò. Un battito lento, profondo. Un cuore che tornava a vivere dopo secoli di silenzio.

L’aria cambiò consistenza: un’onda impercettibile attraversò la stanza, deformando la luce.

Arion si raddrizzò. Per un istante, nei suoi occhi grigi, passò un riflesso vivo.

Poi si mosse. Un gesto rapido, innaturale, quasi che la vibrazione dello scrigno lo avesse spinto in avanti.

Attraversò la stanza, la sua figura proiettata contro la luce: l’ombra sul pavimento si allungò in una direzione sbagliata, contraria al mondo.

Si fermò sulla soglia.

Un sorriso gli sfiorò le labbra, impercettibile.

«Sono proprio curioso…»

Aprì la porta e uscì. Il rumore dei suoi passi si spense subito, inghiottito dal corridoio.

Lucian rimase solo.

Per un istante, la stanza sembrò trattenere il respiro. Poi tutto mutò.

La luce perse il suo bagliore dorato, tornò fredda, ordinaria. 

Persino lo scrigno, immobile sul tavolo, pareva un oggetto qualsiasi.

Inspirò lentamente. La tensione lo abbandonò a poco a poco, lasciandogli addosso solo la stanchezza.

Per qualche secondo restò immobile. Aveva l’impressione che, se si fosse mosso, la stanza sarebbe crollata su sé stessa. Solo quando il battito del proprio cuore tornò a farsi sentire, trovò la forza di uscire.

La pioggia si era fatta nebbia: una coltre sottile che divorava i contorni delle cose.

Sentiva solo il battito regolare del proprio respiro, e l’acqua, sempre più lontana, più irreale.

Stringeva lo scrigno al petto. Non ricordava quando avesse iniziato a farlo, ma non riusciva più a lasciarlo andare. Era tiepido, come se contenesse qualcosa di vivo.

Quando arrivò a casa, ebbe la sensazione che il mondo si fosse ristretto.

Le pareti si chiudevano impercettibilmente, i mobili si erano avvicinati di un soffio, gli oggetti respiravano piano.

Si sedette.

Il tavolo davanti a lui sembrava più scuro, più profondo.

Appoggiò lentamente lo scrigno.

Poi la vide.

La chiave.

Ancora lì, dove l’aveva lasciata.

Per un istante, gli parve che i due oggetti si riconoscessero.

Il tempo scivolò via senza peso, finché il rintocco della mezzanotte non lo scosse dal torpore.

Non sapeva perché, ma sapeva che doveva farlo.

Si alzò.

Afferrò la chiave.

Le dita fredde, il respiro sospeso.

La inserì nella serratura.

Un clic. Poi — crack.

La chiave si spezzò.

«No…» mormorò, incredulo. «Non è possibile…»

La luce tremolò.

Un istante sospeso, poi si spense.

Il buio scese denso. Una colata che riempiva ogni spazio.

Trattenne il fiato.

Percepì un suono lontano, profondo.

Un battito.

Lento, antico.

Veniva dallo scrigno.

Rimase immobile.

Il suo cuore cercò di adattarsi a quel ritmo, ma finì per seguirlo.

Un battito, poi un altro.

Il silenzio si deformò.

Un sussurro attraversò la stanza. Un respiro.

Pareva provenire dalle pareti, dal pavimento.

Un lampo nella mente. Mani che stringono un libro, pagine che sanguinano inchiostro, il suo nome inciso tra le righe. Poi, il nulla.

Sul tavolo, la chiave.

Spezzata.

Brillava di una luce lattiginosa, un osso fratturato sotto la pelle.

Poi, d’improvviso, tutto tacque. Anche lui.

Serie: L'imperfetto


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Discussioni

    1. @conchita59 Ciao Concetta, hai colto perfettamente uno degli aspetti centrali del racconto: dovrà davvero “meritarselo”.

      P.S. Curiosa coincidenza (o forse no?): in questo momento sono in una stanza con un mio amico che si chiama proprio Alfonso.