
CALORE
Alla fine s’è dovuto aspettare aprile.
Certo, avrei potuto portarti fuori prima – d’altra parte è quasi un anno che non esci al sole – ma avevo paura che un soffio di vento ti facesse tornare quel fastidioso catarro. Fastidioso e schifoso, scusami tanto, dato che poi tocca a noi trovarlo spalmato da tutte le parti, tra lenzuola, fazzoletti, maglioni e copriletto.
Le infermiere mi hanno detto d’intabarrarti ben bene.
Macché: le infermiere non mi hanno detto un cazzo (io e le mie cacchio di forzature letterarie!).
Sono solo arrivato questa mattina, con una gran voglia di fare qualcosa per te.
Anche ieri ero venuto, come ogni giorno, e non hai idea della rabbia nel vedere tutti gli altri già alzati, nelle loro carrozzine, belli allineati nello squallido giardino della struttura ad ascoltare la banda che suonava l’inno nazionale.
E tu a letto. Le abbiamo fatto il clistere, ha detto l’inserviente.
Un venticinque coi fiocchi, non c’è che dire.
Intanto chi se ne frega se una vecchia demente non lo festeggia. Giusto?
Nel giro di tre minuti lo avrà dimenticato. No, scusate: non saprà neanche cosa si festeggia. Macché? Non saprà nemmeno che quel mucchio di burattini strimpellanti è una banda musicale.
In verità, non sa neppure che è aprile.
Come non capisce che io sono suo nipote, il nipote che per quarant’anni è stato in casa con lei.
Così stamattina ho voluto ripetere la missione.
Ti ho fatto lavare i denti, quelle poche schegge gialle rimaste – curve e cariate come modellini di menhir bretoni – ti ho scrostato la faccia dai resti cisposi della notte, dai grumi di pappette liquide e catarro rappreso.
Anche la felpa era un disastro. Mi sono limitato a spolverarla dalle briciole di pelle morta.
Cambiarti è impossibile, per uno come me: sono troppo esile.
Coi miei sessanta chili non riuscirei neanche ad alzarti.
Tu che sei sempre stata grande e grossa, protettiva e placida come una mucca.
Ti ho spinta a fatica sulla tua carrozzina sgangherata, lungo i corridoi ombrosi della struttura.
La felpa verde, chiusa fin sopra la bocca; un paio di occhiali da sole per ripararti la vista.
La mia impacciataggine era ridicola (sì, lo so, “impacciataggine” non è italiano, ma mi piace come suona): un ometto magro, dai capelli arruffati e la barba incolta e brizzolata che spinge questa grossa signora come fosse un carrello della spesa ingovernabile. Siamo scesi con quell’orrido ascensore bianco, l’ascensore che usano per trasportare i morti, che useranno per disfarsi di te, un giorno, anche se tu non lo sai.
Ora sono qui, che ti tengo la mano, col terrore che un soffio di vento possa comprometterti per mesi.
Te ne stai in silenzio, come sempre, impermeabile ai discorsi. Sonnecchi: intuisco le palpebre chiuse dietro alle lenti scure. Hai solo ripetuto tre volte che mani calde hai, e non so nemmeno se ricordi davvero chi sono. Te lo domando ogni momento. Ormai è un gioco, il mio. Lo sarebbe anche per te, se solo rammentassi: purtroppo, anche il più stupido dei giochi richiede memoria.
Ti guardo. Osservo il tuo profilo da bambina vecchia: i capelli grigi, immobili nei momenti di calma, il rosa acceso della cute, il naso finissimo, da bambola di porcellana, le grandi guance cadenti. Ti studio e mi chiedo se la vecchiaia è così per tutti, o se ognuno avrà il suo inferno personale.
Non mi stupisce questa tua arrendevolezza all’epilogo della vita: sei sempre stata una creatura semplice.
Non ho mai pensato di attribuirti la capacità di elaborare dilemmi esistenziali: quel tuo rifugiarti nelle soap opera e nella lobotomia della TV spazzatura mi ha costantemente fatto pensare a te con una sorta di dolce commiserazione.
Quello da commiserare, invece, sono io, dato che non saprò mai chi sei stata davvero.
Ho visto solo la superficie di una donna che ha passato l’esistenza in due metri cubi di magazzino, a tagliar verdure; una donna che tornava a casa solo per riprendere l’interminabile sequela di lavaggi, rassetti, strofinamenti, impasti, cotture e via dicendo.
Hai lavorato una vita, senza mai un lamento: questo ti ho visto fare. Ancora adesso saprei elencare la tua routine di “giovinezza”, anche se, per me, quella giovinezza è iniziata nei tuoi cinquant’anni.
Non sei mai stata colta: non ne hai mai avuto il tempo e nemmeno l’esigenza.
Credo addirittura che tu non sia stata neppure una persona troppo intelligente, ma la tua stoltezza è bastata a tenere in piedi tre famiglie. Ed è per questo che ti guardo, affascinato da ciò che ora resta di te: la tua animalità.
Sei due mani avvizzite, ventotto falangi curve e disallineate che cercano il calore di una mano che non sai riconoscere, eppure ti basta. Calore che ti calma, ti addormenta come una ninnananna.
Sei puro istinto. Istinto inerte, però, votato al sonno, alla letargia.
C’è tanta vita nel crepuscolo della tua esistenza. Più di quanta ne abbia mai vista prima.
Ancora più di quella evocata dallo scalpitare di un neonato.
Ho orrore di diventare così, eppure mi sento traboccare di una tenerezza che mi fa vergogna.
Ecco perché ho deciso di scrivere questa vergogna: per essere nudo, almeno una volta.
Voglio dedicarti un libro. A te, che non ne hai mai letto uno. Perché è da te che sono nato, attraverso mia madre.
Un libro grande, che sorprenda, che faccia dire quel che dicesti tu, anni fa: hai scritto davvero tutte queste parole?
Voglio dedicarti qualcosa d’immenso: una storia non tua, ma che gridi al mondo l’oblio della tua esistenza, che poi è la ragione della letteratura: salvare vite celebrando il vuoto di chi ce le ha salvate.
Non il ricordo, ma la dimenticanza, perché il sentimento funziona così: per sottrazione.
Voglio continuare a dimenticarti, come tu fai con me, così da rendere il nostro incontro sempre unico.
Scusa se parlo a vanvera: è che amo i paradossi.
Ora però s’è fatto tardi.
Ho un sacco di cose da fare: prima fra tutte, scrivere questa storia piccolissima.
Adesso ti riporterò su, ti bacerò la fronte e ti dirò che ci rivedremo fra qualche minuto.
Poi prenderò ancora quell’ascensore infernale e sparirò oltre il cancello, lasciandoti lì, in quello stanzone pieno di teste bianche e carrozzelle, ipnotizzata dalla messa alla TV.
Ci vediamo domani.
Ti voglio bene, nonna.
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Nicholas… te lo dico ancora: che penna! Sei riuscito in questo racconto a scrivere le parti più riflessive legandole ad oggetti, scorci, movimenti con grande armonia, tenendo insieme tristezza e ironia, dramma con serena delicatezza. Applausi!
Ciao Guglielmo! Grazie ancora! Troppo gentile🙏🏻
Un mio caro amico ha recentemente perso sua nonna e parlandone ha detto che, dopotutto, i suoi anni li aveva ed è stato meglio così piuttosto che continuasse a soffrire. In quel momento mi sono limitata a fargli le condoglianze, dopodiché entrambi siamo passati oltre.
Il tuo racconto mi ha fatto ritornare in mente questo episodio e mi ha obbligata a domandarmi se esista una morte dignitosa, un modo migliore di un altro per arrivare in procinto della fine. Se esiste un modo più giusto di altri che faccia soffrire meno anche chi di tempo ne ha ancora. Dopotutto, sono nei ricordi di questi ultimi che i nostri cari continuano a vivere (frase banale, eppure è così).
Questo è il genere di lettura che ti mette difronte a quei dilemmi che prima o poi, volente o nolente, ci si ritrova ad affrontare.
Queste, Mary, sono quelle domande che mi terrorizzano di notte. Per fortunata, mia nonna non si rende conto di avere la demenza. Per lei tutto è nuovo, anche se privo di fascino. Non la vive con disperazione. Anzi: nei momenti di semi-lucidità è quasi allegra, come una bambina. Quelli che sentono l’angoscia, semmai, sono coloro che le stanno intorno. Pirandello diceva che gli unici a morire, quando muore qualcuno, sono quelli che alla morte sono scampati. Con gli stati avanzati di demenza, credo sia la stessa cosa.
Sento che mi è difficile esprimere qualcosa di sensato e che renda onore a questo tuo testo, ma ci provo comunque. In queste parole ho visto un tentativo di guardarsi alle spalle con uno sguardo affamato di significato. Quando ho letto “dato che non saprò mai chi sei stata davvero”, mi sono fermato per qualche secondo, preda di un senso di rimorso che l’empatia che mi hai stimolato mi ha trasmesso. Ma alla fine questa fame di significato l’hai saziata non rivolgendoti verso ieri ma verso oggi: un po’ come se avessi composto un puzzle, quando dici “c’è tanta vita nel crepuscolo della tua esistenza”, si arriva al compimento di questa tua ricerca.
Probabilmente le mie parole e miei pensieri saranno inesatti e forse pure sbagliati, ma se è così di sicuro è perché non mi sento del tutto all’altezza del tema trattato; ciononostante ho voluto comunque esprimerli. Un abbraccio e un saluto, Nicholas! 🙂
Ciao Gabriele,
grazie di cuore per la lettura e per il bellissimo messaggio 🙏🏻
Le parole non possono mai essere “sbagliate”, soprattutto quando si parla di una materia così duttile come la narrativa. Questo testo ha un livello di autobiografismo altissimo per i miei canoni (e credo resterà un unicum), ma ho voluto presentarlo come gesto di fiducia e stima verso EO e il “popolo” di EO.
Non sono mai stato bravo a parlare di me: questa piccola finestra sulla mia quotidianità è anche una forma di affetto per chi vi si è affacciato. 🤗 Un abbraccio, Gabriele!
“C’è tanta vita nel crepuscolo della tua esistenza. Più di quanta ne abbia mai vista prima.”
Commovente, tenero, crudo nella sua verità (scritto bene quello è scontato!), malinconico, insomma un bel omaggio a una persona, che mi sembra capire, con la sua semplicità ha fatto la differenza.❤️
Ciao Tiziana! Grazie mille per la lettura🙏🏻 Hai capito perfettamente!😊
Molto toccante, ho i brividi! Poi questo tema in particolare è una mazzata per me: gli anziani mi fanno una tenerezza incredibile 😭 Ho avuto in casa per anni mia nonna (era malata di Alzheimer) e onestamente non sono stata molto buona con lei: ero stressata e non la trattavo come meritava. Avrò questo rimorso per sempre. Poi arrivi tu e scrivi questa storia 🙈 Oddio… Bravo, anzi bravissimo! Continua questa meraviglia e poi pubblicala (farai un regalo a tante persone).
Ciao Arianna! Grazie della lettura e del commento bellissimo🙏🏻 Diciamo che “per fortuna” mia nonna ha solo la demenza, ma avendo vissuto in casa con lei per tutta la vita (i nonni mi hanno fatto da genitori) l’ho vista iniziare ed evolversi fino a oggi. Non voglio immaginare l’inferno che deve essere l’Alzheimer 😵
Mentre leggevo il tuo racconto, mi sono immaginata che fosse un dialogo continuo, non un monologo. Un dialogo fatto di quelle frasi che non ci diciamo mai per tutta una vita. Quelle parole che avremmo voluto dire o forse ascoltare, e invece no…Eppure, ho avuto la sensazione viva che stessero tutte racchiuse in quei piccoli gesti, nelle premure, nel contatto. In tutta quella umanità.
Ciao Cristiana! Grazie mille per la lettura🙏🏻 potremmo definirlo un “dialogo monologico” o un “monologo dialogico”😄 Dentro di noi, tutti parliamo con decine di persone senza digli realmente niente… a parole. Il lavoro sporco tocca ai gesti. Un po’ alla Pirandello: noi parliamo, ma non con gli individui fuori di noi, bensì con quelli in noi.
E mi pare sia esattamente quello che succede al tuo protagonista. Un lungo dialogo con la donna che non è fuori, costretta in un corpo che non le permette interazione, quanto piuttosto con quella che appartiene al suo ricordo, alla sua esperienza di vita. Più o meno, come succede a tutti. Davvero emozionante, anche per il fatto, forse, che non sono abituata a leggerti in questo modo 🙂
È stata una debolezza momentanea 🤫 Dal prossimo racconto si torna nell’immaginario 🤗
Si sta bene anche qui 🙂
🙏🏻🤗
Non è per niente una storia piccolissima Nicholas, è un bellissimo regalo per te stesso e per tua nonna (immagino contengano molta realtà le tue frasi) ed è un regalo per chi ti legge. Mi hai fatto piangere.
Un racconto meraviglioso, a partire dal titolo.
Ciao Melania! Grazie mille per la lettura🙏🏻 Sì: per la prima volta parlo di qualcosa di vero e tangibile, senza metafore o astrazioni. Grazie anche per il bellissimo commento😊
L’amore, nella sua completezza, si realizza quando incrocia gli aspetti meno piacevoli della vita. Si manifesta raramente nelle case di riposo con i parenti che latitano in attesa del funerale, però qualche figlio/a o nipote o amico/a non si accontenta del ricordo di una persona che ancora è viva e le porta calore e vicinanza una carezza e un sorriso. Spero sempre che questo amore dilaghi contagiando tutti ma purtroppo non accade. Toccante il tuo racconto, umano e bello. Grazie Nicholas! ❤️❤️❤️
Ciao Giuseppe! Grazie mille per la lettura🙏🏻 Le tue parole sono perfette per descrivere ciò che volevo trasmettere😊
Crudo, tenero, spietato, poetico. Racchiude una potenza emotiva straordinaria nella sua disarmante semplicità. La scrittura ha un tono confessionale autentico, senza filtri, capace di tratteggiare in poche righe una relazione profonda e lacerata dal tempo, dalla malattia, dalla dimenticanza. È una lettera, una dichiarazione d’amore e di impotenza, un atto di resistenza alla disumanizzazione della vecchiaia.
Ciao Rocco! Grazie mille per la lettura e per la perfetta analisi🙏🏻 Sono quelle cose che si vorrebbero dire di persona ma non se ne ha mai il coraggio (soprattutto ora) e a volte riesce più facile scriverle qui, alla distanza giusta.
Bello, intenso e tristemente realistico, con una prima parte più amara e la seconda più dolce. Per chi con il cataro sparso ovunque e con le difficoltà quotidiane che comporta lavare, sollevare o nutrire una persona ormai quasi incapace di muoversi e di alimentarsi in modo autonomo e sempre più disfagica, questo racconto, a tratti così crudo ma non freddo, é a dir poco toccante.
Ciao Maria Luisa! Grazie mille per la lettura e per le bellissime parole🙏🏻 Ho voluto essere crudo perché fa parte della mia natura😊, e spesso le uniche cose che ci restano di qualcuno caro sono i gesti più elementari, quelli più animaleschi, compresi i loro umori e le loro lordure.