Ciao, papà

La pioggia ha la consistenza di un caramello liquido, si rovescia sulle case e nelle piazze come volesse aderire sui muri e farne decorazioni dolci e momentanee, le buche delle strade sono come padelle poco profonde, le mie scarpe piatte ci annegano dentro, so che il mio corpo è umido e il mio fiato più freddo, ho perso invece il conto del tempo speso a seguirlo, che a vederlo così, lui pare abbia davvero una vita normale, assolutamente monotona.

È uscito di casa alle undici e quarantaquattro minuti secondo l’orologio della mia macchina a noleggio.

Per il mio cellulare invece erano le undici e quarantadue e otto secondi.

Chissà il mio orologio, di quella marca famosa, che lui mi ha rubato e ha regalato ad Alice, che ora avrebbe segnato quando è uscito fuori casa di lei.

Cinque anni e sei mesi il tempo esatto in cui non lo rivedo.

Ho fatto fatica a metterlo a fuoco e riconoscerlo, almeno nel primo momento.

È dimagrito ma ha il viso gonfio, come se la tristezza avesse in sé una folata d’aria e gli avesse gonfiato la faccia come un palloncino.

Cammina con le punte dei piedi all’infuori, ma questo lo ha sempre fatto.

Avrei dovuto ammazzarlo quando abitava sotto il mio stesso tetto.

Otto gocce di veleno nel brodo, nella sua aranciata sottomarca, in qualsiasi cosa che non gli permettesse di andare fuori casa a fare cazzate.

Ricordo ancora il suo bagno, quello grande con l’idromassaggio, non riuscivo a entrarci dall’odore di muffa e fumo.

Glielo avevo lasciato per farlo contento perché è così che si fa quando condividi un tetto con qualcuno, cerchi ti tirare una linea invisibile e aggrovigliata sulle cose belle che ha la casa e provi a dividerle in una metà fittizia, io avevo tenuto per me la soffitta, sbattere la testa contro il letto ogni notte ma almeno non dovevo sentire la sua voce, le sue chiamate sospette.

Che errore enorme, non sentire.

Come quelle scimmiette sagge giapponesi, a turno ne rappresentavo una, non vedevo, non sentivo, non parlavo.

Ma io non ero stata affatto saggia come loro.

Lui intanto era sempre più lontano.

-Dove vai?

-Un lavoro.

-Che lavoro?

E mentre non rispondeva accartocciava i maglioni negli zaini militari.

-Una missione. Una cosa pericolosa. Lascia stare. Torno presto.

Io dovevo sempre lasciare stare, era una cosa che avevo cominciato ad assorbire sempre più velocemente, non sapere nulla, non chiedere. Ubbidire.

Un po’ come per la muffa, per lui una mano di bianco sul muro era risolvere il problema.

Fa niente le macchie umide, le perdite o il giallo delle sigarette, le bruciature sui tappeti.

La sua noncuranza era qualcosa di normale e non letale, almeno dal suo punto di vista.

Non era nemmeno importante che un piano sotto al mio, in quel bagno, lui estorceva foto di donne nude per tenerle a sé in un ricatto emotivo infinito e anche per i soldi, si fingeva malato o vittima di una moglie perfida o, peggio, una figlia stupida, che gli aveva sperperato tutto.

Lui la verità l’ha sempre usata al contrario, quello che diceva facevano a lui, era quello che lui faceva agli altri.

Ma questo, nel mio piano soffocante della mansarda, nella solitudine, nell’abitudine dei miei anni insieme a lui, nonostante tutto non lo avevo ancora capito.

E intanto insieme ai maglioni portava via anche i suoi calzini sporchi e logori.

-Guardo che il frigo è vuoto, ho fame. Mi hai preso tu i soldi dal portafoglio? E la carta di credito dov’è?

Continuava a non rispondere e senza farsi nemmeno una doccia, svuotava botticini interi di “Tesori D’oriente” tra i colletti delle t-shirt e la sua barba ispida.

Il mio profumo da duecento euro lo aveva già finito mesi prima, come sempre senza dirmi niente, entrando di nascosto in camera mia e lasciando scie umide di sporco e profumo costoso sui cuscini.

-Quando torni? Io non so come fare qui senza auto se la prendi tu. Ho fame, davvero in casa non c’è più niente.

-Dovrei tornare tra una settimana, dipende dal lavoro che ho da fare. Dove sono le chiavi?

-Al solito posto. Stai attento però, cerca di portarmi qualcosa da mangiare prima di andare. Per favore.

Andava via senza dirmi più niente, lasciandomi senza cibo, senza altro che una casa fredda e vuota.

Adesso invece entra in un supermercato, c’è anche lei a braccetto mentre spingono il carrello.

Parlano sottovoce e sfogliano i volantini, il brivido più grande da affrontare pare essere quale ammorbidente prendere, se bianco, blu oppure quello viola concentrato, forse è quello l’offerta migliore del mese.

Io dovevo pregare per avere la carta igienica, lui sceglie ammorbidenti con una donna che non sa nemmeno cosa voglia dire mantenerlo o appartenetegli di diritto.

Ho saputo di Alice una sera qualunque, dopo che per due settimane erano sparito nel nulla.

Un solo messaggio:

“Sto bene ma la missione è pericolosa. Sanno dove abitiamo, meglio fare come vogliono loro. Non dire nulla, non chiamare la polizia.”

Loro.

Che poi era Alice.

Avevo chiamato i carabinieri e mi avevano riso in faccia, un uomo maturo che risponde almeno ogni tanto al telefono non è davvero in pericolo ed è libero di andare dove e come gli pare.

Non ha responsabilità verso moglie e figli e società, dicono sia questa, oggi, la vera libertà.

Solo allora ero entrata in camera sua, agende ovunque, machete, pistole, coltelli, scontrini affusolati insieme a carte di cioccolatini, la prova di un biglietto d’amore scritta più e più volte.

Lì avevo capito chi fosse Alice.

Adesso si salutano con un bacio e lei lo lascia solo.

Ho aspettato le luci inesistenti della sera e il vicolo di strada più stretto, quello da cui nessun negozio o ingresso avrebbe avuto accesso una possibile visuale.

Ho accelerato quel tanto che basta da prendergli le gambe in modo secco e lasciare che la borsa con l’ammorbidente in offerta finisca a terra, creando come una specie di sangue violetto artificiale.

Sono scesa lentamente e ho sbattuto la portiera.

Lui mi guarda come fosse impossibile che l’abbia raggiunto a casa di Alice.

-Ciao, papà.

Sono le uniche parole che gli dico, prima di risalire in macchina e lasciarlo morire per strada. 

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Discussioni

  1. Ciao Marta, è n bel brano, ben costruito e dal ritmo sostenuto, con una buona dose d’ironia. Il colpo di scena nel finale è simpatico e l’epilogo non smentisce le aspettative. Se posso, una nota personale: nella parte finale c’è qualcosa che non mi torna nelle forme verbali, credo si possano migliorare. Grazie per la lettura